9c) VUOTO
Scorza narrò a Baliji e a Thorball anche dell'incidente avvenuto il giorno prima ad Arturo e Balàn e la cosa dispiacque ai due Vareghi.
Dopo di questo, vedendo la mole di lavoro da svolgere per dare assistenza ai nuovi arrivati, i due Vareghi pensavano che il Sednor se ne sarebbe andato lasciandoli soli, invece attendeva, non si allontanava.
Era gentile e cortese, premuroso e sinceramente contento di saperli in vita, eppure nei suoi occhi brillava una luce di trepidante attesa che Baliji, a causa del dolore e della stanchezza, comprese con lentezza.
Il Tumbà fremeva per sapere di Gioturna, anche se non osava domandare.
Dalla mattina circolavano voci, sussurri, speranze, poi i mostri di Karahì in fuga.
Le Schegge che li avevano inseguiti avevano parlato al Grande Vecchio, ma l'arpista era dal Gopanda che voleva sapere. Era da lui che voleva la conferma che tutto fosse realmente successo.
Baliji si sforzò di sorridergli.
Fu difficile per lui riandare a quei momenti, eppure in poche parole narrò quello che al vecchio Sednor premeva sapere.
In fondo a Scorza non interessavano i particolari, non subito perlomeno.
Voleva sapere di Gioturna, della sua fine e di Karahì.
Quando il vecchio arpista seppe che la vendetta di una vita intera era finalmente giunta al termine, le grinze del volto fino ad allora preoccupate, si distesero in un sorriso grato, pieno di soddisfazione.
Non potendo stringere quelle del Gopanda, prese le mani di Thorball tra le sue e gliele baciò.
Le poggiò alla fronte, alle labbra e al cuore, prima di stringergliele a lungo.
Fu lieto di sapere, li ringraziò entrambi per quello che avevano fatto, poi si sollevò per andarsene: soddisfatto, ora doveva pensare anche agli altri.
"Presto verrà qualcuno a prendersi cura di voi" disse a Baliji.
Salutò e lo videro allontanarsi in mezzo alla folla di fuggiaschi, dispensando incoraggiamenti a tutti quelli che incontrava.
Lo spiazzo davanti alla grotta, era ingombro di persone e di neve.
Yaonai e Tumbà si muovevano trascinando i piedi, gli uni accanto alle altre senza distinzione.
Sedevano dove c'era posto e dividevano quel poco che avevano senza porsi domande da chi lo ricevevano e a chi lo davano.
Attorno ai due Vareghi ferveva una frenetica attività; c'era chi andava e chi veniva, tutti intenti a prestare soccorso a chi ne aveva bisogno.
Una ventina di giovani Tumbà si prodigavano come potevano con quello che avevano per aiutare tutti.
Lavavano ferite, curavano, bendavano, senza sosta aiutavano dove serviva senza farsi troppi problemi.
Benché le Yaonai di tanto in tanto si mostrassero restie a essere toccate da loro, alla fine accettarono l'aiuto che gli venne dato senza protestare.
Vestiti, coperte, calzature nuove e mantelli Tumbà vennero distribuiti a tutti, mentre poco alla volta arrivavano anche cibo e acqua.
Nel frattempo, il giovane a cui Scorza aveva assegnato il compito di curare il Padre di Tutti, tornò da Baliji con acqua, grasso e stracci.
Con quello che aveva a disposizione fece del suo meglio per curare le mani del Varego.
Un po' alla volta tolse il fango dalle dita, le lavò e ripulì del lerciume che le ricopriva.
Il grasso che poi spalmò delicatamente sulla pelle ustionata delle mani ammorbidì poco alla volta le piaghe e diede sollievo al bruciore che finalmente divenne sopportabile.
Quello fu il primo momento dopo aver ucciso Gioturna, che a Baliji non parve di avere spilli conficcati sotto la pelle a dargli un tormento costante.
Dopo avergli bendato alla meglio le mani, il Tumbà sollevò i brandelli del vestito dal petto e vide anche l'altra ferita, quella inferta dall'aculeo dell'Immonda.
Baliji nemmeno se ne ricordava, era talmente sporco e dolorante in ogni parte del suo corpo, che se l'era dimenticata.
Lo lasciò fare, non avendo la forza di opporsi.
Era piacevole sapere che qualcuno si prendeva cura di lui.
Mentre il giovane Tumbà si prodigava come poteva per portargli le cure, lui si guardò attorno e si accertò che tutti avessero avuto la medesima assistenza.
Quello che vide, lo rattristò profondamente.
Quanta miseria vedeva, e rovina.
Sotto quei ripari di fortuna c'erano meno di cento persone: tutto quello che restava dei villaggi del Nord e delle Yaonai di quella foresta.
Nei loro occhi il Varego lesse la paura per il futuro e la rassegnazione per il presente, eppure non vi erano lamentele e discussioni.
Tutto si svolgeva con calma e ordine.
Le scorte di vestiario vennero distribuite e tutti poterono indossare abiti adatti al freddo.
Lui e Thorball furono gli ultimi ad avere maglioni, pesanti pantaloni, mantelli invernali, scarpe nuove e pezzi di corda per rinforzarle.
Erano vestiti in fibre vegetali, roba tessuta dalle donne Tumbà per inverni meno rigidi di quello, ma era quello di cui disponeva quella gente e come tutti li indossarono volentieri.
In quel momento i due Vareghi avrebbero dato qualunque cosa per poter indossare vestiti di morbida e calda pelliccia.
Sarebbero stati senz'altro più adatti, eppure si strinsero in quegli indumenti di erba intrecciata come fossero la cosa più bella al mondo.
Sotto la neve che cadeva incessante vennero distribuite anche le poche scorte alimentari rimaste.
I Tumbà passarono a portare quello che avevano e le bevande calde furono accolte da tutti come una benedizione.
In un modo o nell'altro i superstiti erano arrivati in un posto sicuro.
Almeno per il momento potevano riposare e questo era un già lusso, visto quello che avevano patito nei giorni passati.
Baliji, nonostante le cure, aveva un dolore tremendo alle mani e non riusciva a chiuderle se non con grande sforzo.
Il Dono di Walpurgis che gli aveva permesso di distruggere l'Immonda, per quanto gli avesse permesso di avere la meglio contro Gioturna, per poco non uccideva anche lui.
Alla cintola portava ancora i due pugnali di Alfons e di Aldaberon, ma non sarebbe stato in grado di usarli. Era indifeso.
Senza l'uso delle mani, se in quel momento fosse stato attaccato non avrebbe potuto difendersi in nessun modo.
Specialmente la mano destra pareva compromessa.
La pelle era annerita, screpolata dal fuoco, dal freddo e dall'acqua e si vedeva spuntare la carne viva da sotto una profonda ferita al polso.
L'unguento grasso che vi era stato spalmato sopra attutiva un poco le fitte, ma il dolore era comunque forte e non gli permetteva di riposare come il corpo esausto dalla fatica, reclamava.
Il freddo era pungente e violente raffiche di vento portavano di quando in quando fiocchi di neve fino a loro.
Il buio avanzava, presto sarebbe stato notte e la temperatura sarebbe scesa ancora. In lontananza, la minacciosa presenza del vulcano in eruzione non lasciava presagire nulla di buono, eppure i superstiti si comportavano come se quella immensa mole di lava in ebollizione non esistesse.
Per quanto fossero preoccupati per la loro vita, quando guardavano le fiamme che venivano spinte in alto da scoppi improvvisi di fluida lava e scorgevano il rosseggiare all'interno della mostruosa colonna di fumo e cenere, si voltavano come se avessero udito soltanto un improvviso tuono estivo.
Ognuno badava alle cose concrete e immediate che avrebbero permesso di sopravvivere alla notte.
La vita, prima di qualunque altra cosa, regnava sovrana.
I Tumbà che si muovevano oltre ai ripari camminavano ormai con la neve che gli arrivava fino alle ginocchia e Baliji si chiese come avrebbero fatto, la mattina dopo, con tutta quella gente sulla montagna.
Se avesse continuato a nevicare tutta la notte, al mattino sarebbe stato un guaio raggiungere il ponte.
Era preoccupato, temeva di non essere più in grado di fare nulla di buono per sé e per gli altri e ancora non aveva potuto parlare con il suo Maestro.
Attendeva l'arrivo di Neko, voleva sapere da lui come erano le reali condizioni del sentiero.
Thorball gli porse una tazza. Era tisana calda. Avrebbero dovuto dividerla perché non c'erano abbastanza tazze per tutti.
Non potendola stringere tra le mani, dovette rifiutare.
Scottava, Thorball vi soffiò dentro e gliela avvicinò alle labbra.
Era umiliante avere necessità di qualcuno che lo accudisse in quel modo, ma lo lasciò fare.
Ne aveva bisogno; entrambi avevano bisogno di avere qualcuno accanto, in quei momenti.
Temendo per la sua salute, Thorball non lo lasciò solo un momento.
Viste le condizioni precarie in cui si trovavano, poté fare ben poco per lui se non avvolgergli le mani in stracci più o meno puliti e tenergliele al caldo.
Gli mise sulla schiena una coperta, gli diede da bere e quando arrivò il cibo lo imboccò come avrebbe fatto una balia amorevole.
Era buffo vederli insieme, i prodi guerrieri Vareghi ridotti in quello stato.
Per quanto Baliji come Sanzara si vergognasse di essere trattato in quel modo, in quel momento comprese a fondo il valore di avere accanto a sé dei Compagni di Disgelo.
Doveva ammetterlo, da solo non sarebbe stato in grado di fare molto, di sicuro non avrebbe potuto uccidere Gioturna.
Lo sapeva e ne era cosciente.
Non solo il dolore fisico che provava a ogni movimento, glielo diceva a ogni respiro che era ancora in grado di inspirare.
Era frastornato, confuso, faceva fatica a credere di essere riuscito nella sua missione, eppure ancora respirava.
Per quanto ci pensasse, non riusciva a credere di essere ancora vivo.
Tuttavia era vero, era tutto vero.
Quella che vedeva annerita e carbonizzata era carne, quella che respirava era aria. Aveva ucciso Gioturna ed era riuscito a recuperare le ossa del suo antenato.
Aveva vinto, aveva sconfitto il destino che da tutta la vita lo tormentava e aveva rimesso a posto cose lasciate incompiute da altri.
Mai come in quel giorno, si era sentito così felice e appagato.
Ma allora, si chiedeva, cosa era questo vuoto che lo colmava dall'interno?
Nonostante la vittoria e la felicità, mai come in quel giorno si era sentito così vuoto e abbandonato.
Per la prima volta in vita sua non c'erano più sussurri, tocchi e presenze a condizionargli la vita.
Dentro di sé c'era il silenzio, non c'era più nessuno.
Nessuno spirito oltre al suo si agitava nel suo corpo; se per un momento non pensava a nulla, nessun sussurro bisbigliava nel buio della mente, tenendogli compagnia.
Suo nonno, Walpurgis, gli Aldaberon del passato che lo avevano preceduto, perfino la ragazza di Vinland, tutti quanti gli spiriti che avevano attraversato il continente di Venturia con sé, se ne erano andati da lui finalmente pacati.
Ora erano soddisfatti, li aveva liberati tutti ed era rimasto solo.
Aveva dovuto portare a termine delle vite mai interamente completate.
Delle vite di cui non sapeva nulla e che fino ad allora gli avevano impedito di vivere la sua.
Incredibilmente e contro ogni prognostico, ce l'aveva fatta e ora poteva pensare soltanto a se stesso. Era libero, finalmente libero, fantasticamente libero... e vuoto.
Assolutamente, incommensurabilmente, completamente vuoto.
Non ricordava più cosa volesse dire sentirsi libero.
Il desiderio di pace a lungo desiderato durante una vita fatta di tormenti e rinunce era finalmente giunto, e ora che l'aveva ottenuto, si sentiva vuoto.
E quel vuoto lo impauriva. Non c'era abituato. Non lo conosceva.
Ringraziò il cielo per avere accanto almeno un amico fedele, Thorball, e se mai ci fu un momento in cui i due Vareghi furono uniti anima e corpo, quello fu il momento giusto per entrambi.
In modo profondo e totale, i due ragazzi divennero una cosa sola, per quello che avevano e per quello che non avevano più, perché sebbene dal mattino nessuno dei due ne avesse ancora parlato, il pensiero di ognuno di loro andò spesso a Fredrik, all'amico d'infanzia morto per mano di Karahì.
In entrambi c'era un pensiero fisso, un tarlo che non avrebbero saputo esprimere se non prendendosi cura l'uno dell'altro come potevano.
C'era un profondo senso di colpa, un tormento che non li abbandonava mai, perché sebbene avessero vendicato la morte dell'amico, avevano lasciato indietro il suo corpo.
Avevano dovuto fuggire in fretta e furia e non avevano potuto cercare la testa di Fredrik che oramai sarebbe per sempre rimasta sepolta nel fango del vulcano.
Per il popolo dei Vareghi, nella testa risiedeva la voce e all'inizio dei tempi la parola fu un dono divino che, una volta morto il corpo, doveva ritornare agli Dei.
Se avessero potuto salvare almeno quella, la testa sarebbe bastata per salvarlo dalle tenebre, ma così... in questo modo, tutto era andato perduto nel fango del vulcano.
Non avrebbero potuto dargli la pira funebre che si meritava e la polvere e la cenere di cui un tempo la sua anima si nutriva, non avrebbero potuto unirsi all'ombra e ritornare in un'altra vita.
Ombra, polvere e cenere, per i Vareghi di questo era composta l'esistenza di una persona.
Per un Varego questo era un disastro, una morte non buona, una porta che il defunto non avrebbe potuto aprire una volta arrivato nell'aldilà sconosciuto.
E questo, per un Compagno di Disgelo devoto al legame che si veniva a formare tra di essi, era insostenibile.
Baliji, nonostante fosse stato rinnegato dal suo popolo, dopo la morte del suo amico, si scoprì più Varego di quello che pensasse di essere ancora.
Dopo quello che la sua gente gli aveva fatto, pensava di essersi allontanato per sempre da quello stile di vita, invece, sorprendendo addirittura se stesso, riscoprì sensazioni che credeva perdute per sempre, spuntate come per incanto dal vuoto che gli spiriti avevano lasciato dentro alla sua mente.
Cose che la sua gente diceva e nelle quali credeva da millenni, cose che aveva sempre ritenute inutili e superflue, ritornarono come non fossero mai andate via.
Cose a cui Thorball e Fredrik avevano sempre creduto e che avevano gettato via per seguirlo in capo al mondo lasciandosele alle spalle per amor suo, rifecero capolino prepotenti.
Il tempo non avrebbe guarito le orribili vicende vissute insieme, difficilmente avrebbe potuto far dimenticare ferite che mai del tutto sarebbero state rimarginate negli anni a venire, eppure, in quei momenti, quelle sensazioni che lo raggiunsero dal suo passato più lontano, furono il motore che fecero riavvicinare i due amici, riportandoli dove la vita e il Fato una volta li separarono.
Baliji e Thorball, il Sanzara e il Varego, erano tornati a essere una persona sola e lui non era più un ramingo.
Era finalmente tornato a casa.
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