5b) RICERCA DISPERATA
Neko e il suo piccolo gruppo di Tumbà scesero più rapidamente che poterono dalla montagna, facendo attenzione a non scivolare sulle pietre gelate e tenendosi sempre a distanza di sicurezza dal ciglio del fiume Sardon.
Salendo Neko ne aveva osservato attentamente le rive e soltanto due posti gli erano sembrati promettenti, ma alla fine li aveva scartati entrambi perché la distanza che separava le due sponde era troppo ampia.
All'andata gli parvero inutilizzabili perché ancora sperava di poter passare dalla strettoia di Aldaberon, ma ora che l'aveva vista e aveva constatato che era impossibile passare da quella parte, doveva accontentarsi di qualcosa di più accessibile benché più ampio.
Si affrettò, con il cuore che gli pulsava in gola per la tensione che il sapere che restavano soltanto quelle due possibilità, gli procurava.
Voleva rivedere quei luoghi il prima possibile per decidere da quale parte passare.
Marciò veloce precedendo i ragazzi e quando arrivò al primo dei due luoghi, rimase subito deluso.
Ovunque in quel posto non c'erano che rocce, ghiaccio e scarsi appigli.
Anche fosse riuscito a lanciare una fune verso i rami degli alberi della riva opposta, da questa parte non avrebbe saputo a cosa legarla.
Quelli che vedeva erano troppo deboli, troppo distanti l'uno dall'altro per servire a qualcosa.
Con un gesto di stizza dovette ammettere che era inutile fermarsi oltre, da quella parte non avrebbero attraversato il fiume.
Non perse tempo e si lanciò ancora a valle, verso il secondo dei due posti, l'ultimo che gli restasse da valutare.
Oltre a quello non avrebbe più saputo cosa fare.
Cercò di richiamarlo alla memoria, tentò di visualizzarlo nella mente e rivederne i particolari.
Se ricordava bene non distava molto dal punto in cui avevano raggiunto il Sardon e si sbrigò ad arrivarci.
Man mano che procedeva, sentiva l'ansia montargli dentro come un' onda potente.
Gli ci volle quasi mezz'ora per ritrovarlo e per tutto quel tempo procedette in fretta senza dire una parola, con il cuore che gli rimbalzava nella gola per l'agitazione.
Quella sarebbe stata l'ultima possibilità che aveva per quella giornata.
Se anche quella strettoia fosse stata inutilizzabile, nolenti o volenti avrebbero dovuto rimandare la ricerca al giorno successivo e questo sarebbe stato grave, perché avrebbero sprecato inutilmente un giorno intero.
A loro il tempo mancava, mancava terribilmente.
In alto sopra di loro, le nuvole diventavano rapidamente scure e minacciose.
I tuoni rimbombavano, rotolando da una cima all'altra fino a valle. Dovevano sbrigarsi.
Quando finalmente raggiunse il posto che cercava e lo riconobbe, Neko studiò a fondo le rive e gli appigli che presentavano le sponde.
Anche se dalla loro parte il corso del fiume si restringeva per un piccolo promontorio che si allungava in avanti per alcuni metri, benché quello rappresentasse comunque il punto dove esse erano più vicine, le pareti restavano distanti.
Stimò la distanza: venti metri, almeno. Forse più.
Non gli ci volle molto a comprendere che quella era la sola possibilità che avrebbero avuto e, per quanto fosse difficilmente realizzabile, non ne esistevano altre a disposizione.
Doveva funzionare.
Si guardò bene attorno alla ricerca di qualcosa che potesse essergli utile, però le possibilità erano scarse.
Dove si trovavano c'erano pochi alberi, con fragili radici scalzate dal vento e dal gelo. Quasi tutti erano troppo piccoli per essere saldi, ma, si avvide dopo un po', proprio verso la fine del piccolo promontorio, a pochi passi dal bordo del precipizio, c'erano dei massi che avrebbero potuto andare bene.
Ne contò tre abbastanza alti e stretti da poter essere usati come sostegni. Chiamò a sé i cinque ragazzi.
I Tumbà erano maestri a fare nodi e non avrebbero avuto difficoltà a fissarvi le funi.
Il rumore delle acque era assordante, parlare era difficoltoso, però doveva provarci.
Usando il linguaggio dei segni spiegò la sua idea e loro risposero che era fattibile.
Quando furono accanto ai massi Neko li colpì con il palmo della mano e li valutò attentamente.
Parevano solidi, non apparivano friabili e non presentavano crepe visibili.
Due erano più alti di lui di alcune spanne e disposti in modo da essere utili.
Mentre Neko sceglieva i massi più saldi, i ragazzi si dedicarono alle matasse di corde.
Si misero subito all'opera e senza perdere altro tempo le prepararono.
Lavorarono in fretta, aiutandosi a vicenda, con tutta la maestria dei cordai consumati quali erano i propri avi da generazioni.
Separarono, giuntarono e valutarono attentamente tutte le corde che avevano portato con sé, però faceva freddo e un gelido vento che arrivava dalla cime aveva preso a soffiare sempre più forte.
Le dita congelate ben presto persero sensibilità e dovettero fare i turni per potersele scaldare un poco sotto le ascelle.
Con la vista offuscata da polvere e granelli di neve ghiacciata sollevati dal vento, faticarono a fissare i capi delle corde, eppure, lottando contro raffiche d'aria sempre più forti e il gelo, fecero nodi saldi e sicuri.
Una volta ottenute due corde abbastanza lunghe per poter andare e tornare dall'altra riva, scelsero i punti migliori a cui attaccarle.
Le corde di capelli intrecciati erano straordinariamente leggere e resistenti, ma la gettata del ponte era notevole.
Nessuno di loro sapeva se in quelle condizioni corde e massi avrebbero retto al peso, ma non si persero d'animo.
Viggo, il più anziano ed esperto del gruppo, ne assicurò le estremità al masso alto e stretto che Neko aveva scelto.
Ne pose una in basso e l'altra in alto della pietra, distanti a tre braccia l'una dall'altra. Fece nodi Tumbà e quando entrambe le cime furono assicurate e pronte, a gesti fece capire a Neko che aveva terminato.
Giunco e Lepro gli portarono i capi delle due corde, tenendole in mano una a testa. Gliele porsero fiduciosi e attesero che lui le prendesse.
Da questa parte del fiume quello che era stato possibile fare, era stato fatto.
I Tumbà, avevano fatto la loro parte. Ora toccava a lui. Il Varego annuì.
Doveva trovare il modo di far arrivare quelle cime sulla sponda opposta e non aveva la minima idea di come fare.
Arrivare sull'altra riva sarebbe stato tutt'altro che facile.
Anche se non sapeva come risolvere il dilemma che gli rodeva l'animo, voleva, doveva, trovare il modo per riuscirci.
Le corde dovevano andare e tornare, per far sì che il ponte tenesse.
Una cosa quasi impossibile, ma forse non per lui.
Quei ragazzi avevano fiducia nelle sue capacità.
Si affidavano alla sua audacia e alla sua perizia per avere ancora una speranza e non poteva deluderli. Ma come! Si chiese, Come!
Con tutta la caparbietà di cui fu capace il popolo Varego di sopravvivere su terre da molti giudicate inospitale, si concentrò su quello che poteva servirgli sull'altra riva del precipizio.
Aveva bisogno di tutta la sua esperienza e di tutta la sua tenacia per riuscirvi.
Sebbene quello che vedesse fosse desolante, non volle perdersi d'animo.
Sul bordo del precipizio opposto poche cose potevano essergli utili e nessuna pareva abbastanza solida da essergli d'aiuto.
Solo pochi alberi stentati piantavano testardamente le radici nella roccia, ma erano troppo piccoli e contorti per essere sicuri.
Nessuno di loro avrebbe retto il peso di un ponte.
Però, ben presto qualcosa attirò la sua attenzione e lo incuriosì.
Una luce di speranza si accese nei suoi occhi. Annuì.
Una speranza c'era; difficile e ardua, però esisteva.
Un po' più indietro, un poco discosto e lontano una manciata di metri dalla riva, c'era un pino alto e robusto, un miracolo di tenacia in quella natura selvaggia e rocciosa.
Se avesse potuto conficcare in profondità una freccia nel suo tronco, forse qualcuno dei suoi uomini avrebbe potuto provare ad attraversare il baratro.
Per un momento nei suoi occhi comparve un bagliore di fiducia e s'illuse di aver trovato la soluzione percorribile.
L'entusiasmo prese il sopravvento, il cuore ebbe un sussulto di speranza, ma appena ragionò a mente fredda sulla reale possibilità di riuscita di una tale soluzione, ripiombò nello sconforto.
Il suono delle acque del Sardon era assordante, lo confondeva e lo disorientava.
Si guardò attorno, vide i cinque Tumbà che aspettavano ordini che avrebbero eseguito senza fiatare e si vergognò di se stesso per quello che aveva pensato: a chi di loro avrebbe ordinato di suicidarsi?
Sulla loro testa un tuono rimbombò echeggiando da una parete all'altra delle montagne.
Sospirò disperato, guardando in alto. Il cielo diventava rapidamente minaccioso, turbolento e carico di neve.
Dovevano fare in fretta se non volevano restare bloccati, ma non se la sentiva di dare quell'ordine.
Con la forza della disperazione pensò che potesse provare ad andare lui stesso.
"Posso farcela! Sì, posso farcela!" mormorò tra sé e sé, ma mentiva e lo sapeva. Spudoratamente mentiva a se stesso, perché sapeva che non avrebbe avuto la forza di arrivare dall'altra parte.
Valutò ancora la distanza, la forza del vento e il freddo pungente.
Era certo che in quelle condizioni le mani di chiunque non avrebbero retto allo sforzo per giungere dall'altra parte, si sarebbero congelate prima di arrivare e il disgraziato sarebbe caduto nel fiume. Inutile pensarci, era impossibile.
Era disperato, combattuto tra la necessità di trovare una via d'uscita e il senso di responsabilità verso la sua gente.
Per quanto quel ponte potesse essere essenziale per la salvezza di molti altri, non riusciva a decidersi a sacrificare nessuno di quei ragazzi in quel modo assurdo.
Eppure sapeva con certezza che se nessuno passava dall'altra parte, ogni sforzo fatto fino ad allora sarebbe stato inutile.
Piegò le spalle improvvisamente stanco, con in mano i capi delle due corde che non sarebbero servite a nulla se non fosse riuscito ad assicurarle dall'altra parte.
Era pronto a considerarsi sconfitto.
Guardò impotente oltre al baratro cercando disperatamente una risposta che non veniva, quando una mano affusolata e delicata gli si appoggiò sulla spalla.
Il sangue nelle vene gli si fermò e il cuore nel petto gli diede un balzo.
Quelle dita, quella delicata apparente fragilità che così bene conosceva, quelle unghie così curate e affilate.
Non poteva essere! Non poteva essere lei.
Si voltò lentamente e quando vide il volto a lungo amato della moglie, la stanchezza e la delusione cedettero il passo a un sorriso incredulo.
"Tu... qui?" mormorò appena.
I Tumbà si erano allontanati di qualche passo per fare posto a delle nuove venute che nel frastuono provocato dal fiume, nessuno di loro aveva sentito giungere lungo il sentiero che avevano seguito all'andata.
Increduli i giovani le fissavano a bocca aperta, ammirati e stupiti al tempo stesso.
Alle spalle del Varego, al posto di cinque Tumbà vi erano ora dodici bellissime donne.
Benché fossero vestite in modo differente da quelle che avevano conosciuto nella palude, nessuno di loro ebbe il minimo dubbio a riconoscerle come Yaonai.
Indossavano pesanti abiti bianchi e candidi, soffici mantelli di lana e calzature alte e spesse.
Le lunghe trecce biondo chiaro erano intrecciate pronte alla battaglia e sui morbidi fianchi della Yaonai pendevano sacche piene di ghiande di piombo.
Ancora senza fiato, Neko rimase incredulo a fissare sua moglie e le sue figlie. Balbettò incerto frasi incoerenti prima di poter articolare poche banali parole.
La felicità e la sorpresa furono così improvvise e totali che per un momento rimase sospeso in un mondo irreale.
Dimentico di tutto, non seppe che balbettare la propria sorpresa.
"Pino Argentato! Tu... voi... cosa...cosa ci fate qua?" sussurrò sorridendo a tutte quante.
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