1)DISASTRO

Era trascorsa una luna Yaonai dalla Festa di Rasmet e ancora non era finita.

Fili di fumo si levavano dai mucchi di cenere e dai monconi inceneriti degli alberi. Una luce fredda e grigia rivestiva ogni cosa.

Il mezzogiorno era passato da un pezzo, ma fin dall'alba il sole era coperto da uno spesso strato di fumo e cenere che solo per brevi momenti si squarciava lasciando intravedere un azzurro pallido e smunto.

Quattro figure incappucciate e strette in mantelli Tumbà, marciavano a poca distanza le une dalle altre, sollevando nuvole di polvere impalpabile a ogni passo che facevano.

Da un mese il cielo era grigio e la luce che filtrava attraverso quella densa coltre polverosa era poco più che un chiarore lattiginoso che rendeva ogni cosa uniforme e spettrale.

Nell'aria un forte odore di carbonizzato raschiava la gola e bruciava i polmoni e per quanto lo si respirasse, non si riusciva a farci l'abitudine.

Era un olezzo acre, pungente, sapeva di resina arrostita, di corteccia affumicata, di carne bruciata e di fumo denso e grasso: era un inferno, per gli uomini e per quel poco che restava della foresta.

L'autunno era arrivato.

Le giornate ormai si erano accorciate e restavano poche ore di quella debole luce prima che il sole tramontasse, lasciando ogni cosa immersa in un buio totale fino al giorno dopo.

Presto la squadra avrebbe dovuto tornare indietro e nessuno tra loro si sarebbe lamentato.

Per quanto fossero diventati esperti nel perlustrare quell'inferno, sarebbe stato impensabile per chiunque dormire all'aperto: troppo pericoloso, troppa cenere, troppo gas.

Chicchessia avesse commesso un' imprudenza simile, sarebbe soffocato nel sonno prima del mattino.

Certo sarebbe stata una soluzione semplice e indolore.

La fine sarebbe giunta silenziosa con il vento, una dolce morte li avrebbe avvolti tra braccia amorose e sarebbero passati dal sonno all'oblio senza accorgersene, così come era successo a molti Ratnor incapaci di comprenderne per tempo il pericolo.

Ma loro non erano come quegli smidollati che si erano ritenuti padroni della foresta, erano Tumbà, volevano vivere.

Per quanto le condizioni fossero difficili, per quanto resistere a quell'inferno fosse al limite della sopportazione umana, loro volevano restare in piedi per andarsene via, lontano, oltre il grande fiume, verso una nuova vita.

Per se stessi, per le loro famiglie, per il villaggio intero, non volevano perdere quel sottile filo di speranza che gli era stato donato dopo tanta sofferenza, stringendolo forte nelle mani.

Si erano guadagnati quel diritto dopo secoli di soprusi e adesso che erano a un passo dal ottenerlo, lo esigevano, ora più che mai.

Il vento che soffiava da Nord sollevava fastidiosi sbuffi di cenere che finivano addosso ai quattro uomini che si aggiravano come fantasmi in quello che rimaneva della grande foresta.

Da lontano, costanti e minacciosi, portati dal vento del Nord, giungevano i sordi brontolii del vulcano che un tempo era il centro di quel mondo e ora, non più celato alla vista dalla folta coltre di alberi, si vedeva ergersi sulla pianura chiaro e definito a quasi un giorno di marcia.

Faceva impressione vederlo così distintamente nitido contro l'orizzonte, con i suoi fianchi che lenti salivano dalla spianata e il pennacchio di fumi che incessantemente sbuffavano nervosamente dal suo interno.

Era stato un luogo sacro per millenni, un mistero nascosto gelosamente dalla foresta del quale solamente le Yaonai erano state le custodi fedeli.

Ora invece era lì, spogliato del suo mistero, nudo a ergersi davanti a tutti nel suo cono perfetto e impossibilitato a coprirsi.

La terra tremava per la sua ira.

Non più celato dalla selva, si stagliava contro il verde degli alberi che facevano corona oltre i suoi fianchi, quasi volessero nascondersi ancora dietro la sua mole che li aveva protetti dalle fiamme.

Un getto vorticoso e turbolento di fumo bianco e grigio usciva dal suo cono. Si sollevava alto nel cielo prima di piegarsi verso Sud.

La terra ormai non smetteva più di tremare: giorno e notte era un costante susseguirsi di piccole scosse che solo l'abitudine a sentirle nelle gambe rendeva ancora sopportabile alla mente.

Dopo l'incendio, l'inizio di una nuova vita fu difficile per chiunque, in quelle terre. Dormire, bere, mangiare, anche solo il pensare, divennero attività faticose per il corpo e lo spirito, ma poi, negli animi più forti il desiderio di vivere ebbe la meglio.

Ancora una volta il desiderio di ritrovare una parvenza di normalità in mezzo a tutto quel caos, fu più forte della paura.

Dopo Rasmet, nella laguna la prima settimana fu terribile.

Nel Villaggio della Luna Perduta, per giorni e giorni in tutti albergò un unico atroce pensiero: la fine imminente, che presto sarebbe giunta a porre fine a tutti i tormenti.

Ciò che restava dei popoli della foresta che lì si erano riuniti, sentirono che la morte era prossima, inevitabile e ineluttabile per ognuno di loro.

Il grande incendio li aveva sconvolti tutti quanti.

I sopravvissuti all'incendio faticavano a comprendere come fosse possibile che ancora vivessero dopo un simile disastro, eppure nella disperazione generale che seguì quell'evento drammatico, gli abitanti della laguna si strinsero gli uni agli altri e dandosi vicendevolmente quella poca forza di cui ancora disponevano, andarono avanti come poterono.

Per quanto le immagini di terrore e dolore che vissero in quei giorni non li avrebbero mai abbandonati, si lasciarono alle spalle lo sgomento e ricominciarono a vivere.

Tutto cominciò il giorno dopo la Grande Festa d'Autunno, quando la grande esplosione di Noah diede il via a tutta quella distruzione.

Di quel villaggio, ora lo sapevano, non restava più nulla.

Una enorme sacca di gas nascosta nel sottosuolo proprio sotto di esso esplose quando l'incendio giunse da Rasmet sospinto dal vento, disperdendo in un attimo per aria tutto quello che vi si trovava sopra.

Al posto del villaggio Ratnor, ora vi era una voragine spaventosa che sprofondava senza fine negli abissi della terra.

L'acqua del fiume vi si gettava impetuosa scaturendo dal sottosuolo, riempiendo poco alla volta il baratro lasciato dallo scoppio.

Per sotterranei passaggi il Sardon aveva formato una cascata, uno zampillo enorme a pochi metri da quella che fino a poco tempo prima era stata la superficie della foresta e ora l'acqua scrosciava rumorosa perdendosi nel nulla, prima di giungere rombando in fondo, tra fumi di gocce polverizzate.

La follia di Flot aveva condotto a tutto questo, eppure, per quanto grande fosse già il disastro ottenuto per la vendetta che voleva sui Ratnor, quello ancora non fu che solamente l'inizio di qualcosa che andava aldilà di ogni immaginazione.

Fino a quel momento non era stato che un incendio, un grande, terribile incendio come da millenni ne succedevano di eguali nella foresta delle Yaonai.

Le donne pianta li conoscevano e li temevano da sempre, ma sapevano che per quanto fossero immensi e incontrollabili, come iniziavano gli incendi prima o poi terminavano.

Sapevano cosa fare per gestirli al meglio e come fare per limitare al massimo i danni che ne potevano conseguire, eppure quella volta nemmeno la loro sapienza millenaria bastò a salvarle.

Tentarono inutilmente di circoscrivere le fiamme con quello che avevano; lottarono testardamente per un giorno intero nel vano tentativo di arginarle e fermarle.

Per qualche tempo parvero riuscirvi, isolarono in varie isole separate il fuoco, ma questa volta il vento le tradì.

Quando arrivò veloce e impetuoso, in un attimo fiamme inerti si rianimarono, braci già spente sprizzarono ovunque scintille, alimentando di nuovo vigore l'incendio quasi domato e prendendole di sorpresa.

Fu un disastro peggiore, molto peggiore del primo.

Andò oltre alla più sfrenata fantasia.

Imprevedibile e violento oltre l'immaginabile, colse tutti impreparati e quando gli abitanti della foresta capirono quello che stava succedendo, fu tardi per chiunque. L'unica cosa saggia che rimaneva da fare per chiunque vivesse in quella foresta sarebbe stato fuggire subito, il più lontano possibile.

L'avessero fatto quando capirono la gravità della situazione forse molte vite sarebbero state salvate, ma così non fecero.

Purtroppo, dopo, per molti fu tardi e per altri inutile.

Non ebbero più tempo per nulla, se non per aver paura.

Quando le fiamme giunsero a contatto con il gas, la terra si sollevò.

In un solo attimo, alberi, Ratnor, Sednor, Yaonai, tutti coloro che si trovavano nei pressi di Noah evaporarono nell'aria come se non fossero mai esistiti.

Anche la Guardiana che circondava il villaggio scomparve nel nulla assieme a tutto il resto.

Per quanto Wal e i Tumbà ancora non lo sapessero, anche Gioturna, l'Immortale, rimase sorpresa e ferita in modo grave.

Brandelli del suo corpo si sparsero per tutta la foresta. Anche l'Immonda, al pari degli uomini, subì impotente la furia della natura e rimase gravemente lacerata per larghe porzioni del suo essere.

Soltanto la sua immortalità la salvò dal perire per il grave danno subito, ma un'intera sezione del suo essere immondo venne deturpata per sempre senza che lei potesse fare nulla.

Poi arrivò il momento di Kimani e Omondi.

All'insaputa degli ignari abitanti dei villaggi Ratnor, altre sacche di gas esplosivo si nascondevano sotto ai loro piedi e quando le fiamme li raggiunsero saltarono in aria, deflagrando all'istante.

Fuoco e gas insieme compirono altri massacri.

Nuove esplosioni rinnovarono all'infinito l'incendio non lasciando scampo nemmeno a chi rimase accanto alle siepi in cerca di protezione.

Incauti, moltissimi Ratnor morirono abbracciati alle sue spire.

Bruciarono come le liane velenose, contorcendosi dal dolore e straziati dai letali dardi che Gioturna saettava ovunque, incapace di comprendere quello che stava accadendo.

Per la prima volta da che era stata posta dal Fato in prigionia sotto al vulcano, non sapeva cosa fare.

L'esplosione avvenuta a Noah aveva rotto equilibri che per millenni avevano regolato la vita di tutti e lei, come gli altri abitanti della foresta, ne fu profondamente scossa.

Inoltre il lago di lava sotto la foresta ribollì, nuovo magma risalì dalle profondità della terra bruciando le radici degli alberi che lo sovrastavano, obbligandola ad agire.

Per non soffrire, anche Gioturna dovette ritirarsi più in alto, riducendo ancora di più il proprio già ridotto spazio vitale.

I pilastri di roccia che reggevano l'immensa volta dove era imprigionata si sgretolarono sotto la furia incandescente del magma e alcuni cedettero, provocando crolli e vibrazioni che si ripercuoterono all'infinito.

La terra iniziò a tremare, dagli abissi salirono lava e gas che, spingendo per uscire, premettero contro la roccia.

I terremoti divennero violenti, gli incendi si moltiplicarono: per due giorni di fila da ogni crepa del terreno vi furono soffi di fuoco che investirono gli alberi trasformandoli in torce.

Solamente al terzo giorno i tremori si fecero più leggeri, costanti, quasi che la terra dopo aver avuto la febbre, stanca di soffrire ancora, fosse in cerca di assestamento e di un equilibrio perduto.

Tuttavia ormai il suolo era rotto, squassato in profondità.

Ogni scossa del vulcano scuoteva le viscere della terra e da immense sacche sotterranee fuoriusciva altro gas che risalendo appena sotto la superficie della foresta, giaceva inerte in attesa di essere liberato alla prima occasione.

Per giorni e giorni nuovi incendi investirono tronchi già corrosi dalle fiamme, sfigurandoli ancora di più e riducendoli in polvere.

Per settimane intere infuriò il disastro.

Solo dopo un mese di fiamme e paura, le cose tornarono poco alla volta a delinearsi in quella che era la nuova spaventosa realtà.

Un paesaggio desolato aveva sostituito la foresta che dal tempo dei Sei Regni era stato il regno incontrastato delle Yaonai, lasciando dietro si sé un deserto ingombro di cenere e tizzoni da cui la vita era volata via.

Migliaia di anni di saggezza erano stati ridotti in polvere, spazzati in un soffio di fuoco infernale.

Nulla restava, se non la disperazione.

Eppure sotto quella spessa coltre di polvere impalpabile, il fuoco covava ancora divenendo una minaccia costante.

Ogni tanto, dopo una raffica di vento più forte di altre, da mucchi di cenere apparentemente inerti si sollevavano faville incandescenti che volavano lontano e si posavano dove il caso le spingeva.

Alle volte, passando sopra a sbuffi di gas infiammabile, dalla coltre di cenere si sprigionavano fiamme bluastre che fluttuavano nell'aria per pochi secondi prima di spegnersi veloci così come si erano accese.

Il gas aleggiava ovunque, sempre, infido e letale e solo quando si era fortunati lo si annusava per tempo.

Il più delle volte da quelle evanescenti fiamme se ne sprigionavano altre imprevedibili e letali, infiammando in una palla di fuoco che si esauriva in un batter d'occhio, tutto quello che incontravano.

I quattro uomini che camminavano lenti in quel mare di polvere lo sapevano bene e per quanto potevano, vi prestavano attenzione.

Quando succedeva che uno di questi focolai s'incendiava nei pressi della squadra, il più vicino dei quattro andava di corsa a spegnere le fiamme prima che potessero causare maggiori danni, poi tornava indietro a prendere il proprio posto accanto agli altri tre.

Marciavano cauti, tastando il terreno con un lungo bastone, sempre attenti a dove mettevano i piedi. Non si allontanavano mai troppo gli uni dagli altri.

Rallentavano, deviavano, si aspettavano l'un l'altro senza fermarsi mai, perchè farlo voleva dire rischiare di soffocare.

A ogni passo che facevano sollevavano sbuffi grigi di polvere impalpabile che restava a lungo sospesa nell'aria dietro di loro ed era talmente fine che penetrava ovunque, naso, bocca, occhi, orecchi, intasando poco alla volta il fiato e i polmoni.

Soltanto muovendosi costantemente avevano l'impressione di non soccombere a quella maledetta polvere da un momento all'altro.

Quando poi il compagno tornava ansimando e respirando a fatica ricominciava a smuovere la cenere davanti a sé con il bastone, facevano finta di nulla.

In quella landa velenosa i polmoni soffrivano e ormai gli uomini lo sapevano, erano preparati. Pochi passi di corsa e il fiato si spezzava per lunghi minuti.

A tutti era successo. Nemmeno le pezzuole bagnate che portavano sul volto erano sufficienti per farli respirare bene, perché l'acqua era sempre troppo scarsa e asciugava in fretta.

Quella poca che portavano con sé dovevano conservarla per bere e a metà giornata era già quasi del tutto terminata.

Per fortuna mancava poco al tramonto ed entro breve avrebbero dovuto rientrare nella palude.

Erano tutti quanti stanchi, assetati, sporchi di cenere ovunque: la pelle, i vestiti, ogni cosa indossassero aveva il colore della cenere e sapeva di cenere.

A malapena si riusciva a distinguerli da quello che li circondava.

Camminavano a testa bassa, con i cappucci alzati. Indossavano mantelli Tumbà per proteggersi dal vento, dalla cenere, dagli improvvisi sbuffi di fiamme impossibili da indovinare.

Avevano vestiti spessi, aderenti, intrecciati ogni volta con vegetali freschi per evitare che prendessero facilmente fuoco.

Gambali alti e stretti con suole quattro, cinque volte più spesse del normale li proteggevano come potevano dal calore del terreno, ma dopo una giornata passata a camminare nella cenere alle volte rovente, il caldo passava lo stesso, scaldava i piedi e li tostava poco alla volta.

Camminavano a pochi passi l'uno dall'altro e muovevano avanti e indietro lunghi bastoni per non lasciare inesplorato nemmeno un palmo di foresta.

Scostavano, scuotevano, sollevavano e smuovevano in continuazione mucchi di cenere all'apparenza innocui.

In silenzio, respirando piano per non perdere liquidi inutilmente e non ingoiare polvere.

Senza mai perdersi di vista l'un l'altro, procedevano lenti, perché una distrazione qualunque poteva rivelarsi fatale tanto quanto un soccorso arrivato tardi.

Lo sapevano tutti e quattro che un solo errore, un unico istante di disattenzione avrebbe potuto essere l'ultimo che avrebbero commesso, perché in quella landa desolata, non vi era posto per gli errori.

Come era successo a un ragazzo Tumbà la settimana prima, uscito per la prima volta con una squadra di novellini come lui.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top