8)LA SCINTILLA DI VITA
Ora ottava, nono viaggio dSN
3° decade mese di Ubunta
anno 628 dsdSI
È da tempo che non scrivo più nulla.
Dal giorno della nascita dell'Altissimo Padre di Tutti non ne ho più avuto la forza, sia morale quanto fisica. Se lo sforzo per accendere la Pira sepolta dalla neve fu troppo per un corpo già debilitato dalla febbre e dal morbo, altrettanto devastante fu per il morale la solitudine che scese dentro di me quando scoprii di aver perduto la fede nel mio Dio. Pensare di avere sbagliato da quando avevo strappato il popolo che mi era stato affidato dalle proprie terre; capire che l'entità in cui confidavo per la salvezza delle nostre vite come una luce nel buio, non era più il mio Dio, mi fu fatale. Smisi di mangiare e bere. Anche la compagnia dei miei figli non fece che rendermi ancora più insopportabile il vivere, perché mi ricordava incessantemente il mio fallimento. Per loro e solo per loro, mi dicevo, avevo trovato la forza di condurli lontano da quello che ritenevo un pericolo mortale. Credendo di seguire il volere dell'Altissimo, confusi la Sua voce con il mio egoismo smisurato. La mia superbia scambiò il pericolo imminente con la rabbia per aver perso tutto quello che era nostro da sempre. Divenni cieco e sordo davanti alla ragione. Io che mi ritenevo saggio, divenni folle. Una furia cieca mi guidò, impedendomi di vedere che stavo seguendo il richiamo di qualcosa che mi voleva in una terra lontana e non le parole del mio Dio. Forse il Fato ha scelto per me, ma i miei figli, loro, innocenti, hanno soltanto seguito me e hanno perso tutto. Ed è solo colpa mia, esclusivamente mia se ora si trovano in questa condizione di miseria estrema. Fu un errore accettare la proposta dei Setmin delle nove Marche. Piuttosto che scappare come facemmo, sarebbe stato meglio morire per difendere la propria casa che sepolti sotto la neve. Potessi ritornare indietro, inciterei il popolo Eridano a sollevarsi, a prendere le armi, difendersi contro l'invasore. Lo spronerei a reagire contro la violenza degli Un e non esiterei a usare il Potere del Fuoco contro di essi. Ora capisco che meritavo il disprezzo di quei guerrieri quando sopportavo le violenze contro il mio popolo senza reagire. Nemmeno gli inermi vitelli che loro ci rubavano indisturbati per condurli sull'altare di Anca-Tek, vi andavano senza scalciare almeno una volta. Lasciai che uccidessero centinaia di donne e uomini come fossero bestie soltanto per non avere rimorsi sulla coscienza. Infine, quello che gli Un non riuscirono a fare, lo feci io: li distrussi, a migliaia e migliaia li portai alla morte immolandoli sull'altare di qualche divinità sconosciuta. Fu troppo. La febbre, la denutrizione, la consapevolezza che il mondo sarebbe stato migliore senza di me, mi portarono a un passo dalla morte. Persi conoscenza infinite volte e nei pochi sprazzi di lucidità febbricitante, ricordo di aver visto spesso Varego al mio fianco...
Wal dovette interrompersi e togliersi la maschera per un momento, prima di proseguire ancora. Cominciava a sentirsi stanco e a disagio. Questa volta, però, non era Walpurgis a farlo sentire in quel modo: era lui stesso, per quello che leggeva e stava scoprendo in quelle pagine.
Assieme a Neko avevano deciso di riprendere a leggere il manoscritto nonostante fossero rimasti soli. Sul momento gli parve la cosa giusta da fare. Qualcosa lo spingeva ad andare avanti a qualunque costo.
Solo che adesso capiva che era unicamente la curiosità a spingerlo. Solo una curiosità morbosa di sapere. Null'altro. Voleva, doveva, sapere, si diceva. Ma in quelle righe c'erano lo stato d'animo, i tormenti dolorosi di un uomo vissuto tre secoli prima. Si sentì un intruso e si vergognò profondamente di essere arrivato a sfiorare sensazioni così intime e private solo per soddisfare la propria indiscrezione. L'essenza stessa del suo essere un Varego si ribellava a un'intromissione così sconveniente e maleducata nella vita altrui. Accettarlo andava contro la sua natura più profonda e contro tutto ciò che gli aveva insegnato suo padre. Neko se ne accorse.
"Non temere, ragazzo" gli disse impassibile, a bassa voce, mentre espirava lento del fumo dal naso.
"È lui che ti ha indirizzato a quella pagina. Vuole che tu lo ascolti leggere queste cose. Nel bene o nel male, stai esaudendo un suo desiderio" .
"Tu sai, allora!" fece stupito il ragazzo "Da quando... "
Neko scrollò le spalle con noncuranza:
"Da sempre, direi. Ho capito subito che non eri tu a leggere. La maschera può aver confuso gli altri, ma non me. Ho condiviso troppe cose con quello spirito per non capirlo, non credi?".
Annuendo Wal comprese che anche il maestro aveva ragione. Dipendeva soltanto da lui avvicinarsi a quelle parole con il dovuto rispetto. Da nessun altro. Con maggiore calma si rimise la maschera e riprese a leggere:
... Quell'uomo mi curava ed era preoccupato per me. Vederlo così in apprensione, capirlo, fu una sorpresa per me. Una grande sorpresa e fonte d'imbarazzo, perché se una parte del mio essere voleva vivere e gli era grato per quello che stava facendo, un'altra lo stava implorando di lasciarmi andare, perché ero stanco e dovevo andare a cercare il Dio che avevo deluso per chiedergli perdono.
Nei ricordi confusi di quei giorni, rammento che un mattino due uomini, credo Rataniel e Varego, mi portarono fuori della capanna e mi stesero sulla neve. Ero febbricitante, deliravo; la neve era dura e gelata. Ricordo il fresco sollievo di quel contatto sulla pelle, la febbre si abbassò e in un momento di lucidità vidi i miei figli tutti raccolti attorno a me. Ricordo il sole, il Dio prediletto che avevo deluso, di fronte a me: filtrava basso sull'orizzonte, passando appena tra le gambe di coloro che mi circondavano. Timido mi raggiungeva. Era freddo il mio Dio, incapace di farmi sentire il suo calore. Udii il canto di un uccello una, due, tre volte: come era dolce il suono della sua voce. Era un canto che conoscevo, una melodia della mia terra lontana. Riconobbi subito quei cinguettii, era un merlo. Erano i suoi giorni, era arrivato puntuale e sembrava cantare per me. All'improvviso le gambe che mi circondavano si spostarono. Allora vidi chiaramente il mio Dio: mi abbagliò. In quell'istante, nella confusione dei miei sentimenti, compresi che non era Lui ad avermi abbandonato, ero stato io a fuggire lontano. Nella mia superbia l'avevo perso e lui, Immensamente Potente, e Grande, e Altissimo Signore Mio, mi ha seguito ovunque, trovandomi, infine, me, infame servitore.
Nella Sua Inesauribile generosità mi ha fatto sentire la Sua dolce voce tramite quell'uccello: Mai, mai, mai ho udito un canto così dolce, appagante per uno spirito assetato. In tutto il suo splendore invernale, l'ho adorato in silenzio, fino a quando una figura sconosciuta si è parata davanti a me e me l'ha nascosto. Per un momento ho voluto ribellarmi, chiedere di spostarsi, poi l'ho riconosciuta: era la Grande Madre delle Yaonai che si ergeva davanti a me immensa e potente. Alzando le braccia verso il cielo e proiettando su di me la sua ombra, pareva una farfalla, una bellissima, enorme farfalla pronta a spiccare il volo. A un certo punto ho sentito che mi chiamava. Non so quale fosse la lingua che usava, ma la capivo: "Uomo del Sole, dimmi il tuo nome se vuoi che ti salvi" mi stava dicendo. La sua voce era dolce e paziente. Ero confuso, stanco, volevo ancora vedere il mio Dio che era nascosto dietro di lei. L'ho indicato con una mano, lei ha abbassato le braccia e l'ho rivisto. La Sua luce la illuminava facendola splendere in tutta la sua persona. Era dietro di Lei, sopra, sotto, attorno a Lei: rifulgevano, erano una cosa sola, immensa e potente. Compresi e le sorrisi. Quella donna pianta, quella regina della foresta, era una Sua inviata al pari del canto dell'uccello ed era venuta a salvarmi. Con tutto me stesso ho pronunciato il mio nome e lei ha fatto un gesto a chi mi stava accanto. Ho sentito delle mani afferrarmi, sollevarmi, mettermi ritto in piedi di fronte a Lei. Erano mio figlio Rataniel e Varego che mi sorreggevano. Tutto attorno a noi c'erano i miei figli, i famigli rimasti e il figlio di Varego. La Yaonai ha spalancato le braccia alzandole al cielo.
È avanzata lenta verso di me, mi ha cinto con le braccia e ha posato le sue labbra sulle mie. I suoi occhi fissavano i miei ed erano freddi. Dalla sua bocca un calore fluido mi è sceso nella pancia, negli arti, nel cuore e nella mente. La febbre è sparita, la debolezza, la stanchezza estrema, tutto quanto è sparito nel momento in cui quelle labbra hanno sfiorato le mie. Quando ha sciolto l'abbraccio, la Yaonai si è ritirata da me in silenzio: il suo sguardo era fiero, distaccato. Io ero stupito, lei indifferente. In silenzio si è voltata e si è diretta verso la foresta. Solo in quel momento mi sono reso conto che altre come lei l'avevano accompagnata e ora la seguivano muovendosi due a due. Il nostro accampamento ne era pieno. Erano tutte bellissime, giovani, con lunghe capigliature avvolte attorno alla vita. Al vederle ho provato un desiderio che non provavo da tempo, poi il freddo, il vento gelido che mordeva le membra mi hanno riportato alla realtà. Ero vivo, Rataniel e Varego non mi sorreggevano più. Sentivo un'energia, una forza nelle membra che non conoscevo da molto tempo ormai e la mia pelle, le mie mani, braccia, gambe, erano piene e vigorose, nel pieno degli anni. Quella donna pianta mi aveva ridato la vita e con essa una giovinezza scomparsa da tanto tempo. Attorno a me i miei figli mi guardavano sbalorditi: il loro vecchio padre dimostrava gli anni del suo figlio maggiore!
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