5c)CONTATTI


Seconda guardia, primo viaggio dSN

3° decade mese di Omondi

anno 627 dsdSI

Tocca a me questo turno di guardia. Lo faccio volentieri, seduto davanti alla galleria che ci ha visti sbucare dal vulcano, certo che mi sarebbe impossibile dormire se prima non mettessi per iscritto delle parole che descrivano questa giornata, incominciata nella gloria del Signore Mio e conclusa con la dimostrazione che non tutti gli uomini sono malvagi. Prima che mi vengano a dare il cambio ho tre ore a disposizione per farlo, una Sorella Luna che mi illumina generosamente e dei fogli bianchi che una volta tanto desidero riempire con parole di speranza e non di dolore: per me, per i miei figli, per il nostro futuro, perché ne abbiamo bisogno tutti quanti.

Ancora non so dove siamo arrivati, nemmeno conosco il nome di questa foresta o di quell'uomo che ho incontrato questa mattina, ma è la seconda volta in poco più di un anno che vedo una spada levata alta su di me pronta a colpirmi, abbassarsi inerme senza nemmeno avermi sfiorato. Quel giovane uomo dall'aspetto terribile, benché più simile a un animale selvatico che a un essere civile, ha avuto compassione di me che già levavo le mani per colpirlo con il Dono che si nasconde in esse. I suoi occhi me l'hanno detto e per chi sa leggerli, gli occhi non mentono, sono lo specchio dell'anima. Il Signore Mio mi perdoni, ma la superbia in quel momento mi aveva reso cieco e mi impediva di vedere con gli occhi di quell'uomo. Ero sporco, smunto, indossavo vestiti così laceri che in un tempo nemmeno troppo lontano il più misero degli Eridani avrebbe rifiutato d'indossare. Ero un relitto umano uscito dalle viscere della terra dopo esserne stato fagocitato, digerito e risputato fuori, eppure quel ragazzo ha avuto pietà di me, mentre io mi preparavo a colpirlo: Chissà se in quel momento ha capito quale pericolo stava correndo la sua vita. Ne dubito. Poi ammetto che il primo pensiero che ho avuto dopo averlo visto è stato per i miei figli e i miei servi che dormivano nella radura ancora in ombra. La pira che avevamo acceso in onore del nostro Dio doveva aver segnalato la nostra presenza in quel luogo. Anche se ormai non era che un piccolo braciere quasi spento, aveva assolto il suo compito e noi non avevamo nessuna arma per difenderci. Da dove mi trovavo potevo vedere ancora alcuni sprazzi ardenti levarsi dalle ceneri tiepide e nulla più. Nel campo tutto era immobile e tranquillo, non vi erano rumori di scontri, ma quell'uomo poteva non essere solo. Mentre costui affrontava me, altri come lui potevano nello stesso momento raggiungere nel sonno i miei compagni e passarli da parte a parte con gli spadoni di cui si servivano prima ancora che si accorgessero del pericolo. Ma come potevo saperlo? Potevo urlare, avvisarli del pericolo che correvano, oppure tacere e mostrarmi mite. Nel dubbio scelsi la mitezza. Allora gli mostrai le mani vuote sperando che anche lui comprendesse che non volevo fargli nulla, che venivo in pace, per la gloria del Signore Mio. Temevo per i miei figli più che per me stesso e avrei offerto volentieri la mia vita in cambio della loro. Eppure quell'uomo che mostrava di avere più o meno l'età del mio quintogenito Uramet, giovanotto di ventotto primavere, nonostante i lunghi capelli chiari raccolti sulla nuca e la barba incolta che gli copriva il volto, aveva occhi vivi, chiari e curiosi. Aldilà della rabbia, dei suoni duri delle parole che pronunciava e dei gesti irati che faceva con la spada puntata al mio petto perché facessi qualcosa che sul momento non comprendevo, si vedeva che non era un bruto e che se avesse potuto non avrebbe fatto ricorso alla violenza. L'assecondai come potevo e quando compresi che voleva che mi allontanassi dall'altare, lo feci senza indugio. Provai inutilmente a parlargli almeno in una decina di lingue e dialetti differenti, ma nessuna di quelle a me familiari gli era conosciuta. Usa un linguaggio duro, aspro, completamente differente da tutti quelli che avevo udito prima. Persino la lingua aliena degli Un mi pareva meno lontana e ostile dalle nostre, di quella usata da costui. Parlammo con i gesti, usando pochi concetti basilari come dialogo : Sole, pietra, acqua, cibo, pace.

Facemmo fatica a comprenderci, ma dopo un poco lo vidi abbassare lo spadone e riporlo sulla schiena. Era alto, vigoroso, di lineamenti marcati, capelli e occhi chiari, schietti e attenti, vestito di pelli conciate in modo fino e decorate di ocra e giallo; vari oggetti d'osso gli pendevano dal collo e dai polsi. Aveva l'aspetto sano, ben nutrito e riposato, al contrario di me che non ricordavo quando avevo mangiato l'ultimo pasto decente e non dormivo più di due ore filate da quando eravamo partiti dalle nostre terre avite. Portava una fiasca e una bisaccia sul fianco, mi porse da bere e del cibo secco avvolto in foglie. Un misto di frutti secchi, bacche e miele, tanto dolce che quando lo misi in bocca mi parve di sognare. Non ricordavo più quanto fosse buono il cibo, sotto la luce del Signore Mio, il Padre di Tutti. E quel cibo dolce, donato in quel momento, mi sembrò la cosa migliore che avessi mai mangiato in tutta la mia vita. Quando mi inginocchiai verso il Sole Invitto che sorgeva su di noi per ringraziarlo di questi doni, vidi che anche il giovane uomo al mio fianco lo faceva. Credo che sia stato in quel preciso momento che ho capito che anche quell'uomo era un dono, il dono più grande che l'Altissimo avesse voluto fare a me e a quello che restava del popolo degli Eridani. Quando mi rialzai, mi diressi nuovamente verso l'altare. Avevo notato che sulla lastra di pietra c'erano delle incisioni e una di questa, posta verso Sud, era azzurra, una striscia che attraversava da Est a Ovest tutta la pietra. Poteva essere il fiume che avevamo attraversato e quel segno poteva aiutarmi a far capire allo sconosciuto che era di la che arrivavamo, dall'altra parte del fiume, a Sud. Era un azzardo e poteva essere pericoloso, ma valeva la pena tentare ugualmente. Appena mi avvicinai alla pietra il giovane si alzò e ruggendo di rabbia sfilò lo spadone e me lo puntò al petto: alzai le mani in segno di pace e gli indicai il simbolo inciso sulla pietra. Continuavo a ripetergli senza speranza:"Fiume, acqua, fiume, acqua", ma lui mi guardava senza comprendere. Alla fine mi accorsi di avere ancora la sua fiasca vicino a me, mi chinai a prenderla e senza pensare alle conseguenze versai l'acqua che conteneva sopra quel simbolo azzurro, ripetendo :"Fiume, acqua, fiume, acqua".

Qualcosa nello sguardo del giovane parve illuminarsi e iniziò a dire anche lui qualcosa che non compresi. Qualcosa come:"Sardol, Sardon, Sardot" o qualcosa del genere. Non saprei dire, come non saprei dire cosa comprese quell'uomo dai gesti maldestri che compivo, comunque in quel momento mi sorrise, ripose lo spadone sulla schiena e mi fece cenno di seguirlo. Senza indugio lo seguii lungo il medesimo sentiero che avevo percorso per salire sulla cima del vulcano e in meno di mezz'ora arrivammo al piano. Non ebbe bisogno che gli dicessi da quale parte si trovava il nostro accampamento, lo sapeva da sé. Si diresse verso i miei compagni senza indugi e quando uno dei miei servi più giovani, Fiolet, probabilmente per timore per la mia vita e per difendermi, lo aggredì, sfilò lo spadone e lo sventrò con un colpo solo davanti a tutti noi. Fu orribile e tutto si svolse in pochi attimi. Lo straniero si pose sulla difensiva per pararsi da altri attacchi, ma Rataniel e io avevamo già fermato tutti gli altri. Il giovane servo morì dissanguato prima che potessimo soccorrerlo e non doveva essere versato altro sangue inutilmente. Non capisco cosa abbia spinto quel ragazzo che fino a quel momento aveva vissuto tranquillo e fedele ai miei ordini, a quel gesto inutile. Non comprendo quale forza abbia potuto farlo lanciare con tanta rabbia verso l'uomo che mi accompagnava, eppure non posso fare altro che prendere atto che purtroppo è successo e che se sono ancora vivo lo devo sopratutto alla mitezza dei miei gesti e alla benevolenza del Padre di Tutti che aveva ancora bisogno di me quaggiù invece che al suo fianco.

Calmati gli animi, dissi a Rataniel di preparare una pira a fianco di quella che avevamo acceso la sera prima. Quel ragazzo era morto inutilmente, ma almeno avrebbe avuto un funerale Eridano e sarebbe salito al Suo Dio purificato dal fuoco. Almeno questo glielo dovevamo. Tutti aiutarono.

Il giovane uomo che mi aveva accompagnato rimase in disparte fino a quando non comprese le nostre intenzioni poi, devo dire tra la sorpresa di tutti quanti noi, ci aiutò a preparare il mucchio di legna, dimostrando anche una certa arte nel farlo. Accettò la torcia accesa che gli porsi quando il cadavere fu posto sulla catasta e insieme appiccammo il fuoco, io da un lato e lui dall'altro. Mi parve di buon augurio che il primo morto della nostra gente in terra straniera servisse a creare un legame tra il vecchio e il nuovo. Eppure non posso negare che vedendo alzarsi quelle fiamme che ho visto salire verso il cielo, rimasi inorridito da un pensiero che mi venne in mente. All'improvviso temetti che oltre a portare con sé l'anima del morto verso il Creatore di Vita, nascondessero anche un lato del mio dio che ancora non conoscevo e di cui ebbi subito timore. Guardando i resti della Pira Sacra che avevamo innalzato la sera prima, ero impreparato a quella possibilità. Nonostante il calore delle fiamme, un brivido mi corse lungo la schiena al pensiero che l'Altissimo Padre di Tutti potesse essere il fautore di quella morte assurda, per benedire con un sacrificio umano la salvezza di chi rimaneva. Sono molte le cose che ancora non conosco del Mio Dio e del Dono che mi ha concesso, così come completamente ignote mi sono le sue intenzioni verso il nostro destino. Ma il mio popolo ha già sofferto abbastanza, non si merita un'altra piaga ancora sulla pelle. Preferisco tenere per me questi dubbi e non farne parola con nessuno, perché non ho certezza alcuna di quello che penso, inoltre solo ora abbiamo un poco di tregua dai nostri guai e non voglio rovinare la pace di nessuno.

Da dove mi trovo vedo ancora alcuni bagliori salire dai resti della catasta funebre di Fiolet e non posso non pensare che dopo il rito lo sconosciuto ci ha condotti qua, ci ha dato il poco cibo e l'acqua che aveva con sé, perché lo dividessimo tra noi. Non credo abbia capito che è proprio da questa galleria che siamo arrivati e io non avrei saputo come spiegarglielo. Mi accontento dei gesti che ci ha fatto prima di andarsene e che tutti abbiamo compreso così:"Restate qua!".

Nessuno di noi ha avuto la forza di contraddirlo, ci siamo trascinati all'inizio della galleria senza inoltrarci più di venti passi dall'ingresso. Ne abbiamo abbastanza del buio e il pensiero di quella bestia immonda che aspetta al fondo di questa galleria è più che sufficiente per tenerci alla larga dal seguirla ancora. Guardando in fondo, verso il buio e il caldo soffocante del lago di lava, mi pare di cogliere un bagliore pulsante, una luce diffusa e tenue che va e che viene, ma nessuno di noi ha il coraggio di andare a vedere di cosa si tratta. Abbiamo terminato le torce e preferiamo restare accanto al focolare, in attesa che sorga ancora il Signore Nostro.

Sarà Lui a benedire il primo giorno, dopo il nostro arrivo in questa nuova terra.

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