4b)TERRORE

Ora dodicesima, settimo viaggio dSN

1° decade mese di Noah

anno 626 dsdSI

È stata una giornata lunga: lunga e pericolosa. Finalmente le ombre della sera scendono sulla nostra amata terra e la notte si preannuncia serena e calda, nonostante la stagione sia già inoltrata. L'autunno è alle porte. L'ora della cena arriva seguendo un giorno senza appetito. L'umidità a quest'ora diventa difficile da sopportare, fatico a respirare, ma le messi crescono rigogliose e le mandrie mangiano erba buona e abbondante. Rendiamo grazie al Sole Invitto, fonte di energia per i nostri pascoli e per le nostre anime, per questo e per tutto quello che elargisce al suo popolo. Eppure, nonostante tutti questi doni che riceviamo, ben altro può togliermi l'appetito del giusto. Oggi, dopo quasi quattro mesi dal nostro primo incontro, alla ora quarta del suo viaggio, il Luminoso Signore della mia via mi ha chiamato ad affrontare un'altra dura prova: per la seconda volta dall'arrivo delle orde di Un, questa sera ho incontrato Singaruk-ba-Balai nel palazzo che un tempo fu mio. Ne sono appena tornato e sento il bisogno di mettere per iscritto quello che è successo, perché temo di scordare dettagli che il naso e gli occhi, il cuore e la mente ora hanno precisi e nitidi. La mia famiglia è riunita al piano di sotto per il pasto della sera, ma tanto è il disgusto e lo spavento che ho provato nella giornata, che non potrei inghiottire nemmeno un pezzo di arrosto di vitella o un bicchiere di vino delle nostre vigne. Quando avrò finito, chiederò alla servitù di prepararmi un bagno caldo in modo da togliermi di dosso il lezzo che ancora percepisco nelle vesti, ma per il momento preferisco non togliermele: mi aiuteranno a ricordare meglio.

Appena messo piede nell'atrio che un tempo accoglieva chi richiedeva requie e officio dal Grande Vecchio, due Un mi vengono incontro e mi fanno cenno di andare con loro. Seguendoli ho potuto vedere i profondi cambiamenti, lo scempio che questi esseri rozzi, abituati alle steppe e ai tappeti più che alle statue e agli arazzi, hanno portato su centinaia di anni di civiltà e giustizia. Tutto quello che per il mio popolo era sacro e intoccabile è stato distrutto, asportato o utilizzato per sbarrare porte e finestre che danno sulla strada. Al posto di preziosi arazzi rimangono pareti disadorne e sui capitelli non più i capolavori dei nostri maestri scalpellini, ma mucchi d'erba per nutrire i cavalli dei guerrieri Un che sorvegliano chi entra e chi esce nell'edificio. Potendo scorrazzare liberamente dappertutto, gli escrementi degli inseparabili compagni di questi esseri insozzano pavimenti e intarsi, scale e balconi. Dove un tempo marmi lucidati riflettevano la grandezza del Luminoso Signore Nostro davanti alle Genti, mucchi di avanzi di cibo, ossa e sporcizia umana incrostano e insudiciano ogni cosa. Presumo che i guerrieri Un non abbiano compreso l'utilizzo dei gabinetti, perché i muri sono trasformati in orinatoi e le camere in latrine. Nella calura autunnale i profumi che ammorbano l'aria sono quanto di più sgradevole e greve si possa immaginare. Centinaia di anni di sapere, trasformati in pochi mesi in stalla per animali e latrina a cielo aperto. Che il Luminoso Signore mio mi sia testimone se dico il falso: Questo è ciò che attende un visitatore, oggi, nel luogo dove fino a poche decadi fa, risiedeva l'autorità più elevata delle Nove Marche. Ma oltre a me che ne ero il custode, a patire più di tutti per il trattamento subito dal Tempio del Sole Invitto, sono i Taurini di questa città e di questa Marca, di cui sono Setmin Man Cauda: furono loro a costruirlo mattone su mattone, centinaia di anni fa con le mani e con la fede. Furono a lungo felici che anche altre genti potessero godere del grande amore che portano verso il Signore Luminoso del Cielo. Vederlo ora profanato da questi mangiatori di carne cruda, li fa soffrire profondamente. In molti, incrociandomi lungo la via, mi domandano protezione e benedizione, come se io, povero vecchio inerme, potessi dargliela. Nonostante tutto il male che hanno dovuto subire, ancora hanno fede in me che rappresento il potere del loro Dio. Solo Lui sa quanto mi senta indegno di tanto affetto, anche se, devo ammettere, la forza dimostrata da questo popolo mi è stata di grande aiuto nel varcare la soglia del Tempio.

Salendo lungo le scale imbrattate di escrementi, facendomi forza con la fiducia che essi mi riservano, non faccio caso al fetore che mi accompagna fino allo stanzone dove un tempo potevano attendere fino a duecento persone contemporaneamente. Non c'era nessuno, solo panche vuote lungo i muri e rifiuti. I passi dei due guerrieri che mi accompagnano rimbombano sul soffitto e sulle pareti dello stanzone vuoto. In fondo, davanti alla porta che introduce a quello che era il mio angolo da lavoro, un altro capannello di guardie gioca in terra senza badare a noi che ci avviciniamo. Il marmo del pavimento fa rimbalzare i loro dadi in modo divertente, perché ogni volta che uno di loro li lancia si mettono a ridere. Sono quattro, quanti sono i cavalli che brucano liberamente da un mucchio di erba fresca ammucchiata a poca distanza. Gli archi e le armi sono posate a terra accanto a loro, apparentemente dimenticate.

I due che mi accompagnano mi dicono dove sedermi e se ne vanno. I quattro che giocano continuano come se non esistessi; nemmeno mi degnano di uno sguardo, eppure sono certo che se osassi alzarmi in piedi senza permesso, mi ritroverei circondato prima di poter fare un passo. Rimango seduto per ore ad attendere invano che mi vengano a chiamare. Sento le campane battere la gloria del Signore mio fino alla decima ora. Nel frattempo ho potuto contare centoventisei macchie di sangue rappreso sul pavimento e sui muri: macabro modo di passare il tempo, anche se temo che fosse quello lo scopo di una così lunga attesa. Volevano intimorirmi, spaventarmi e stancarmi. Finalmente la porta si apre. Un dignitario Un fa un cenno ai quattro: uno di loro si alza dondolando come una barca e viene da me. Gracchia qualcosa nella loro impossibile lingua, mi fa un cenno. Non capisco cosa vuole, ma mi alzo e mi dirigo verso il dignitario che attende sulla porta e si sposta per lasciarmi passare. Quando lo raggiungo, lo annuso: puzza come tutti gli Un. L'odore del suo cavallo è talmente impregnato nella pelle e nei vestiti che indossa, da farlo puzzare come l'animale. In tutta la stanza aleggia un tanfo di putrefazione da far venire il vomito. Le finestre sono aperte, ma l'umidità è stagnante. Faccio il possibile per non farmi accorgere che lo annuso e mi dirigo verso il tavolo. Dietro, seduto su quella che un tempo era la mia poltrona, c'è Singaruk-ba-Balai.

Con sorpresa noto che veste come noi Eridani e sembra essersi fatto un bagno. Almeno lui non puzza come l'ultima volta. Un piccolo miglioramento. Ma è l'unica nota positiva in un brutto quadro sbagliato: quando si alza e mi fissa, sento scricchiolare il legno della sedia. Vedendo le sue grosse mani e le braccia muscolose penso che da un momento all'altro potrebbe succedere la medesima cosa alle mie ossa. Sarebbe capacissimo di farlo.

È enorme, forse solo un po' più grasso dell'ultima volta per il cibo e la vita sedentaria. Mi viene accanto, mi sovrasta di tutta la testa. Il suo alito puzza di carne avariata. Su di lui i nostri vestiti stanno come appesi a un albero, ma evito di dirglielo. In un Eridano incerto e sgrammaticato mi spiega quello che vuole da me e non posso non notare che l'altra volta non parlava una sola parola della nostra lingua. Ne sono lieto e sorpreso, ma quello che mi dice, mi fa rabbrividire.

Vuole che gli consegni il Dono del Fuoco. Adesso che parla e veste come uno di noi, dice che è diventato un Eridano come me, che siamo uguali lui e io: entrambi serviamo il Disco Solare, entrambi siamo sacerdoti del Dio Luminoso ed entrambi dobbiamo possedere il medesimo Dono. Lo pretende. Dice che ha già avuto troppa pazienza con me e che il tempo dell'attesa è terminato. Vuole il Potere del Fuoco per illuminare le tende del suo popolo, perché possa riscaldarsi dal freddo dell'inverno. Vuole sapere come faccio, dalle nude mani, ad accendere un fuoco. Le sue parole sono quasi gentili, ma i suoi occhi bruciano. Temo quello che potrebbe fare un essere ingordo come lui, con un potere tanto grande a disposizione. Gli dico di no, che non è possibile.

Mi sorride, non urla, non mi minaccia. Torna a sedersi. Fa un cenno al gerarca fermo dietro di me. Mi ero dimenticato di lui. Lo sento allontanarsi, va verso un angolo lontano e ne torna con un sacco attorno al quale ronzano nugoli di mosche infastidite. Me lo getta ai piedi, facendolo aprire. Davanti a me si spandono decine e decine di orecchie destre, grandi e piccole. Il tanfo è insopportabile. Sono gialle, viola, rosse, sporche di sangue e umori: i colori della decomposizione. Sopra di esse centinaia di mosche si accaniscono per cibarsene.

Singaruk mi dice che sono cento e domani ce ne saranno altre cento, se non gli consegnerò il Dono quella sera stessa. Dice che sarà così ogni giorno, fino a quando non mi deciderò a consegnargli quello che vuole. Farà prendere ogni mattina venti Taurini dalla mia Marca e dieci Eridani per ognuna delle altre otto. Sceglieranno a caso, senza distinzioni. Entro sera tutte le orecchie mozzate saranno portate a casa mia, per ricordarmi la mia cocciutaggine e la mia crudeltà verso la mia gente.

Cerco di non vomitare e mi rifiuto, però gli offro la mia persona in cambio della mia gente. Gli prometto che accenderò per tutta la vita i fuochi delle loro tende se lascerà in pace il popolo Eridano. Gli ricordo le sue stesse parole: ora anche lui è un Eridano e mozzare le orecchie ai propri simili, per noi, è un abominio di fronte al nostro comune Dio. Invano. Sarà rozzo, ma non è uno stupido. Singaruk mi dice che conosce quello che piace al dio del cielo: lui non mozza le orecchie a Eridani vivi. Prima li uccide, poi mozza le orecchie.

Terrorizzato, colmo di orrore, vengo rimandato a casa allo scoccare dell'undicesima ora. L'ora di cena, per mangiare insieme alla mia famiglia, mi dice Singaruk accompagnandomi alla porta. Arrivato a casa controllo che tutti, compresi i servi, abbiano le orecchie attaccate, poi mi scuso dicendo che non avrei cenato e mi dirigo nella mia camera. Di getto ho scritto queste righe e ora vado a chiedere perdono al mio Signore per non aver saputo evitare una tal tragedia al suo popolo. Il bagno attenderà ancora un poco.

Ora prima, quinto viaggio dSN

2° decade mese di Noah

anno 626 dsdSI

Ancora una notte insonne, passata a invocare il perdono del Signore Luminoso che vedo sorgere a Oriente: anche ieri Singaruk ha mantenuto la sua parola e io sono sempre più indeciso su quello che devo fare. Sono otto giorni che ricevo sacchi contenenti orecchie mozzate da tutte le nove marche Eridane e sono otto notti che non dormo che poche ore agitate alla volta. Che il Disco Luminoso che ci dona la Vita mi perdoni, però mai come in questi giorni ho desiderato non vederlo salire oltre l'orizzonte, perché in questo preciso momento altri cento Eridani stanno per essere catturati per colpa mia e tra breve la loro anima sarà liberata dal loro corpo. Altre pire si leveranno alte, oggi; altri Eridani piangeranno i loro cari per colpa mia, che attendo ancora un cenno, un segno qualunque del Suo volere per guidarmi nel mio dubbio. Per quanto affaticato nel corpo e nella mente sono pronto ad affrontare i miei doveri verso l'Altissimo e verso la mia gente, sebbene fatichi a sostenerne il loro sguardo quando osservano estasiati il Dono che scaturisce dalle mie mani. Mi sento in colpa, vorrei fare di più e non so cosa. Mi seguono senza timore, fiduciosi che saprò trovare una soluzione. Ma l'unica cosa di cui sono realmente certo e che questa sera un funzionario Un mi domanderà cosa dovrà riferire a Singaruk-ba-Balai da parte mia. Io risponderò ancora di no e domani avrò altre cento anime Eridane sulla coscienza. Signore Mio Altissimo, perché mi hai caricato di questo basto! Temo per coloro che mi hai affidato, per i miei figli, per la mia famiglia e per me.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top