L'offerta oscura
POV Belshazzar
Sfumature rosse e dorate riempivano i miei occhi mentre il sole calava. Babilonia sembrava trattenere il respiro in attesa dell'imminente cerimonia di Tamūz, ma forse ero solo io a essere così inquieto per quella preliminare che mi riguardava. Quattro persone mi preparavano con cura nella mia stanza, adornandomi con gioielli e vesti cerimoniali bianche, simbolo di purezza e sacrificio. Un onore e privilegio; tuttavia, ero terrorizzato.
La tradizione richiedeva che, prima della cerimonia al tempio di Tamūz, venissero fatte delle offerte alla dea, sua moglie e amante, Ishtar. Questo perché, dopo la morte cerimoniale di Tamūz, tutte le donne, compresa la dea, assumevano lo stato di lutto e digiuno che durava, appunto, quattro lune. E questa volta, l'offerta ero io. Per la mia bellezza, dissero.
A Dormìn non era permesso vedermi da solo fino alla fine del lutto; lei avrebbe saputo calmarmi o truccarmi in modo che lo sembrassi. Il mio servo eunuco entrò in silenzio, annunciando che era giunto il momento. Annuii, cercando di nascondere il tremore delle mani.
Lungo il cammino verso il tempio, i miei pensieri vagavano tra le storie che avevo sentito su Ishtar. Dea dell'amore e della guerra, benevola ma anche capricciosa e potente, era conosciuta per i suoi favori imprevedibili e per le punizioni spietate inflitte agli amanti che non riuscivano a soddisfarla. Le leggende parlavano di uomini trasformati in animali, condannati a soffrire per l'eternità. Il cuore mi batteva all'impazzata, e ogni passo sembrava avvicinarmi sempre di più al mio destino oscuro e inevitabile. Come potrebbe un vergine soddisfare una divinità?
Arrivammo. Le alte colonne esterne erano avvolte da edera e gelsomini profumati, e l'aria era densa di ambra e incenso. Le sacerdotesse, vestite di veli trasparenti, ci accolsero, mi fecero bere la bevanda rituale e ci condussero verso un altare di marmo nero, intarsiato di oro e gemme azzurre, dove avrei offerto me stesso alla dea.
Non fui lasciato solo; l'eco dei passi delle sacerdotesse si spense appena le stesse raggiunsero il cono d'ombra circolare intorno all'altare. Oltre a loro, c'erano i miei genitori, i parenti, i ranghi più alti della corte e i tre scribi di palazzo che avrebbero testimoniato per i posteri.
Salii sull'altare, recitando le preghiere che mi erano state insegnate. Mi feci spazio tra pani lievitati, datteri, fichi, uva, melograni, pesche, una brocca di acqua, una di vino e una statuetta di Ishtar stessa. La voce di una sacerdotessa mi ordinò di stendermi. Percepivo il lino contro la pelle della mia intimità, tutt'altro che pronta al rito. La paura mi stringeva la gola, e sentivo il rumore dei battiti del mio cuore rimbombare nella sala vuota.
All'improvviso una luce abbagliante mi costrinse a chiudere gli occhi; fui accecato dalla sua intensità. Quando riuscii a riaprirli, vidi una figura emergere dal bagliore e salirmi sopra, sormontandomi a cavalcioni con tutto il peso. Era Ishtar, e la sua presenza travolse i miei sensi, tutti insieme. Era al contempo meravigliosa e terribile; le sue forme morbide si adagiavano sul mio corpo come burro, i lunghi capelli scuri come la pece le cadevano sulle spalle in una cascata di seta, e gli occhi erano candidi, con iridi d'oro e pupille lattee. Impossibile mantenere lo sguardo su quella luce.
"Belshazzar," la sua voce era un sussurro che rimbombava nel silenzio della mia mente. "Hai paura di me?"
La dea si avvicinò al mio viso, il suo sguardo penetrante come una lama faceva male. Sentii il suo tocco gelido sul mio ventre, e un brivido mi attraversò il corpo. "Sei venuto a offrirmi il tuo amore," disse con un sorriso benevolo. "Ma ricorda, se non sarò soddisfatta, il tuo destino sarà peggiore della morte."
Le sue parole mi paralizzarono. Ripercorsi le storie sui suoi amanti; era tutto vero, e l'istinto vinse: provai a scappare e a scendere dall'altare. Le sacerdotesse mi bloccarono spalle e gambe, Ishtar mi tappò la bocca. È un onore, mi ripetevo. E continuai a ripeterlo anche quando la dea risalì il mio corpo per montare a cavalcioni sul mio viso. Afferrò una brocca, la sollevò e lasciò che il vino colasse sul proprio petto, scivolando poi tra i seni, lungo il ventre, fino a bagnarle i peli sul pube. Il liquido proseguì la sua corsa sul fiore di carne tra le sue gambe e infine gocciolò copiosamente sulle mie labbra.
"Apri la bocca," mi intimò. "Fallo per me."
Avvertivo il sentore, il sapore e l'odore della fonte divina per la quale altri mortali avrebbero ucciso pur di abbeverarsi. Eppure, malgrado mi sforzassi di fare ciò che mi veniva richiesto - dischiudere le labbra per lei, bere il vino e leccare il suo nettare, succhiare la gemma rigonfia nascosta in cima al fiore di carne - la mia virilità non cedeva il passo alla paura. E il pensiero che, dopo essersi dedicata alla mia bocca, sarebbe scesa a soddisfarsi con il mio membro del tutto impreparato, mi impediva di adempiere come avrei voluto al mio ruolo.
Ero comunque convinto che le stesse piacendo, perché in qualche modo percepii che mi stava dando uno sprono per superare la prova. La dea addensò i suoi lunghi capelli in creature simili a code di serpente e mi avvolse con questi; polsi, spalle, caviglie, polpacci, cosce, il pene. Non ero più il principe Belshazzar, ma soltanto uno strumento nelle sue mani divine.
Emisi un verso a metà tra un urlo smorzato e un piagnucolio quando sentii che una delle propaggini della dea si infilò nel solco tra le mie natiche. Strinsi i denti e mi rilassai, lasciandola scivolare dentro di me con la conseguente sensazione di pungente dolore e caldo eros. Potevo sentire le mie carni espandersi intorno a quel serpente, mentre lei si divertiva a farsi largo nel mio corpo. Iniziò a mangiare tutta la frutta succosa che le era stata donata.
A quel punto, anche la mia mente si convinse a lasciare spazio alla libido. Quei capelli scuri mi fecero pensare a lui, al ragazzo dalla pelle di miele, e ogni resistenza svanì. Le sacerdotesse e i serpenti continuavano a tenermi fermo; tutto quello che potevo gestire erano piccoli movimenti con il bacino e contrazioni cadenzate. E gemetti, gemetti come una giumenta in calore, senza controllare i miei vocalizzi poiché tanto venivano ovattati dall'intimità umida e grondante della dea.
Non riuscivo più a controllare il mio piacere, ero assalito dall'estasi data dall'immaginare che a muoversi dentro di me ci fosse il ragazzo dalla pelle di miele invece che Ishtar. Fu strano, raggiungere l'orgasmo in quel modo. Ancora più strano fu l'apice della dea: mentre la mia lingua era tutta dentro di lei, Ishtar fu pervasa da spasmi potenti, le sue pareti interne pulsarono come i battiti del cuore. Svanì nella luce da cui era venuta, e il mio viso era ricoperto da una maschera d'oro fuso, ma per nulla ustionante.
Le sacerdotesse si riunirono curiose intorno a me, scostarono con delicatezza la maschera solidificata e la avvolsero nel lino. Continuavano a fissarmi sorridendo, una mi diede un bacio sulla fronte tanta era la gioia. Loro non erano autorizzate a parlare, quindi, solo dopo, fu mia madre a dirmi che Ishtar mi aveva donato il colore oro per adornare le mie iridi. Ero stato bravo: le stagioni a venire avrebbero portato ricchi raccolti per la benevolenza di Ishtar.
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