·4·2· La marchiata

Quando trovai la forza di uscire dalla camera di Lucien mi sembravano passate delle ore. Mi chiusi la porta alle spalle e rimasi per qualche minuto con la schiena appoggiata alla parete del corridoio, gli occhi chiusi e la fronte che doleva per il pianto. Dolore e rancore erano evaporati di nuovo, lasciandosi dietro solo muscoli intorpiditi e una grande sensazione di vuoto.

Poi, all'improvviso, mi ricordai di non essere neanche lontanamente sola come mi sentivo.

«Clothilde» mormorai tra me e me, staccandomi dal muro e guardandomi intorno.

Seguendo l'istinto attraversai il corridoio fino alla piscina e la trovai inginocchiata sul bordo della vasca, lo sguardo fisso sul proprio riflesso.

L'orlo del suo vestito era bagnato, ma lei era ancora umana, immobile e tesa come un felino in agguato.

Feci un passo dentro la stanza e i suoi occhi si alzarono su di me con uno scatto. Le mie viscere si contrassero, ma sostenni il suo sguardo. Ci separavano appena sette metri e sapevo che mi vedeva, ma non era su di me che si stava concentrando.

Aspettai in silenzio.

La temperatura nella stanza si fece improvvisamente più fredda, poi più calda. L'acqua era talmente piatta da sembrare solida.

Notai il movimento delle labbra di Clothilde molto prima di registrare la sua melodia. La sua voce era bassa e debole, vibrante e delicata. Si arricciava nell'aria come fumo, sovrapponendosi a se stessa come schiuma della risacca e intrecciandosi come l'anima di un coro, fatta di tanti timbri diversi modulati all'unisono. Si alzò lentamente, come nebbia dal mare, in qualche modo amplificata e frammentata allo stesso tempo. Parole in arcaico si amalgamarono sulla sua lingua, rotolando l'una sull'altra fino a fondersi indistinguibilmente.

Nonostante la mia immunità faticai a mantenere la mente lucida. La sua voce era più che onde di suono. Era una corrente, fluida e concreta, amorfa ed elastica, un'arma divenuta disciplina.

La melodia proseguì nel suo crescendo, e l'acqua della piscina cominciò a muoversi. Si spostò senza produrre onde, allontanandosi dal centro e colando verso l'alto come se la gravità stesse cambiando. Risalì le pareti della vasca e poi si arrampicò nell'aria come su lastre di vetro invisibili.

Allungai una mano per sfiorare il velo d'acqua davanti a me. Il flusso aggirò le mie dita e si riunì poco più in alto, proprio come sotto una cascata al contrario. Potevo vedere Clothilde dall'altra parte, in piedi e con le mani premuta sul ventre.

Al centro della vasca il fondo era già rimasto scoperto. In pochi minuti, la massa d'acqua aveva finito di risalire le pareti e si era accumulata in una sfera sul soffitto.

La melodia di Clothilde si fece più costante, le parole della sua canzone più distinte. Parlavano di orizzonti rosso sangue e creature degli abissi, ma anche di vigneti bagnati dal sole e veleni dal sapore di frutta – probabilmente di qualsiasi cosa le venisse in mente. Il segreto era forse solo nella musica e non nel significato?

La sfera d'acqua roteò per un po' sopra le nostre teste senza spostarsi veramente, poi prese a deformarsi e a riscendere, arrotolandosi nell'aria come vapore caldo e disegnando spirali sempre più larghe. La voce di Clothilde la guidò di nuovo nella vasca, modellandola e controllandola come impasto in una teglia.

Il silenzio che seguì fu assordante, l'immobilità nella stanza innaturale.

Clothilde si puntellò con le braccia sulle gambe, il respiro pesante e le spalle che tremavano per la fatica, ma gli occhi più brillanti che mai.

«È stato...» non sapevo neanche io cosa. «Come...» No, non era neanche questo che volevo chiedere. «Lo avevi... mai fatto prima?»

Aprì la bocca per rispondermi, ma poi si limitò a scuotere la testa.

«Non ho mai...» visto niente del genere? C'erano fin troppe cose che non avevo mai visto. «Pensi che anche altre sirene potrebbero riuscirci?»

«Sì.» Si raddrizzò e aggirò la vasca per raggiungermi. «Ma noi lo usiamo solo per cacciare, non per giocare.»

«Un effetto del genere in mare aperto--»

«Sarebbe limitato. Con troppa acqua perderei il controllo.»

«Ma tante sirene insieme...» lasciai cadere la frase e Clothilde non la riprese. Le sirene erano creature antiche, ma per quanto si fossero evolute nei secoli rimanevano molto più animali che uomini. Gli uccelli si preoccupavano forse di osservare l'effetto del loro canto sugli altri esseri viventi se non era loro utile?

«Quanto pensi di rimanere qui?»

La domanda mi colse alla sprovvista. Sbattei le palpebre e mi guardai intorno per un momento prima di rispondere: «Non ho nulla da fare qui.»

«Allora possiamo andarcene.»

«No!»

Mi fissò sollevando le sopracciglia.

Esitai. «Aiutami... aiutami a portare via i libri.»

Girai le segrete per recuperare il borsone di chimera e qualsiasi altro tipo di valigia – lo zaino da viaggio di Lucien e altri sacchi usati per conservare attrezzi. Li riempimmo con tutti i volumi che potevano entrarci. Mi concentrai sui taccuini che Lucien aveva completato e lasciai indietro tutti i libri probabilmente rubati – tranne quelli che aveva pesantemente annotato.

Chiusi a chiave la camera di Lucien senza rientrarci, rinchiudendo all'interno tutti i suoi quaderni incompiuti e la mappa dei suoi viaggi.

Riordinai la mia stanza, smontai l'amaca in cui avevo dormito per anni e svuotai l'armadio dei pochi vestiti che conteneva.

Radunai poi tutti i lenzuoli che riuscii a trovare e li usai per coprirci i mobili.

Quando mi arrampicai di nuovo sulla scala a chiocciola con Clothilde mi lasciai alle spalle scaffali vuoti e fantasmi di tavoli e armadi.

Spensi tutte le luci finché non rimasero solo quelle del cielo stellato artificiale. Per un momento meditai di spegnere anche quelle, ma ci ripensai. Il meccanismo del cielo era l'anima delle segrete, fermarlo sarebbe significato seppellirle per sempre, lasciarlo in funzione solo di addormentarle.

Clothilde non proferì parola finché non fummo di nuovo all'aria aperta, affamate e cariche di bagagli.

«Vuoi tornare subito ad Arles?»

«Dove altro potrei andare?»

Si strinse nelle spalle e non rispose. Canticchiò finché non fummo fuori dalla Reggia e nessuno fece caso ai borsoni che portavano con noi. Cominciavo a pensare che le sirene avrebbero potuto dimostrarsi delle infallibili rapinatrici – poi ricordai che nessun'altra sirena poteva uscire dall'acqua e aggirarsi tra gli umani su due gambe.

C'era ancora luce, ma la temperatura aveva già cominciato a scendere parecchio. Quando raggiungemmo di nuovo il cimitero dei Gonards avevo cominciato a battere i denti. Fissai le ginocchia nude di Clothilde mentre mi stringevo nel cappotto e mi chiesi come facesse a sopportare il freddo.

Ritrovammo l'albero cavo per scendere sottoterra, poi la strada per la stazione arborea.

Il trasporto che l'elfo ci aveva prenotato per ritorno non sarebbe partito prima di un'ora dopo, perciò sfruttammo il tempo di attesa per procurarci del cibo.

«Cosa pensi di farci?» chiese Clothilde mentre si sedeva a terra, la schiena appoggiata ad un pilastro della banchina. «Con i libri» specificò accennando ai nostri bagagli con la testa ma senza distogliere lo sguardo dal cartoccio di ogopogo e calamari.

«In teoria sono miei» risposi a bocca piena.

«Perché?»

«Se devo subire condanne e restrizioni per essere una marchiatrice quantomeno devo essere considerata loro erede.»

«...mmh» fu l'unico commento di Clothilde. Addentò un anello di calamaro, poi si sporse per guardare dentro al mio sacchetto di carta.

«In'ol'ini--» per poco non mi strozzai. «Involtini.» Annusò una volta e si ritrasse. «Verza e formaggio. Non so che formaggio.»

«Non so cosa sia il formaggio» replicò Clothilde tornando al suo cartoccio.

«È un...» Aggrottai le sopracciglia. «... una specie di latte solidificato.»

Mi fissò come se fossi pazza. «Latte?» esclamò. «Quello... ?» mi indicò il seno mentre deglutiva con espressione schifata.

«Sì. No! Quello degli animali. Mucche più che altro, ma anche capre e pecore. Sai cosa sono capre e pecore?»

«Sì che lo so!» Seguì con lo sguardo i miei movimenti mentre prendevo un altro involtino dal sacchetto e ne prendevo un morso e non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto. «Quindi ti tieni i libri?»

«Hanno un valore.»

«Quindi li vendi?»

«No io... non lo so. Ma non potevo lasciarli lì e avrò tempo di pensarci. Ah!» Posai il sacchetto a terra, in mezzo alle mie gambe incrociate, e mi sporsi per afferrare lo zaino da viaggio di Lucien. Vi rovistai finché non trovai il taccuino che cercavo. «Penso che questo dovresti averlo tu.»

Clothilde lo guardò senza muovere un muscolo per prenderlo.

«È il quaderno che Lucien aveva su di te.» Lo aprii per mostrarglielo. «Questo è il tuo nome scritto in arcaico, questo è lo Jäger, lo yacht. Sono più che altro disegni, e qualche appunto ogni tanto. Questo credo sia il posto dove ti ha trovato e...»

«Io non lo voglio» dichiarò con freddezza.

La fissai, sorpresa.

«Non saprei che farmene.»

Voltai pagina. La parola "Autopsie" occupava la parte alta della pagina altrimenti vuota.

Il silenzio si protrasse a lungo. Clothilde continuò a mangiare, io a fissare il quaderno.

«Non aveva mai portato nessuna creatura solo per ucciderla» dissi alla fine, a bassa voce. «Per farmela marchiare sì, ma mai solamente per ucciderla.»

«Studiarla

Alzai lo sguardo sorpresa.

«Studiarla, non ucciderla» mi corresse lei.

«Studiarti, non ucciderti» la assecondai. «Fa differenza per te?»

Smise anche lei di mangiare. «Se è una questione di caccia allora sì» rispose. «Chiedilo anche ai tuoi amici arborei, non è omicidio se è per nutrimento.» Non ero sicura che avesse ragione, ma neanche che si sbagliasse. «È caccia per la sopravvivenza.»

«Non ti ha catturata per mangiarti!» protestai raddrizzandomi.

Mi fissava come se improvvisamente fossi diventata stupida. «Per voi sì. È per... il cervello.»

«Per noi... marchiatori?» La mia mente sembrava lavorare a rilento. «È... è questo quello che si dice? Che non possiamo fare a meno di fare del male, che marchiamo solo perché dobbiamo fare esperimenti? Per saziare la nostra sete di conoscenza?»

«È questo che si dice di noi, che cantiamo solo per trascinare le persone in mare? Per riempirci lo stomaco e non avere fame per un altro giorno?»

«Io non...»

«Cosa?» mi sfidò. «Non hai agito d'istinto e corso dei rischi pur di fare un esperimento?» Si sfilò di scatto cappello e parrucca. «Non stai correndo dei rischi, adesso, solo per osservare i tuoi risultati?»

«Non dici sul serio» sussurrai, con molta più freddezza di quanto volessi.

«Io ero la preda e voi i cacciatori. Tu non eri più una bambina e invece di sottometterti sei entrata in competizione.»

«Non è vero!»

Produsse un verso di esasperazione e si guardò intorno come se avesse voluto tirare qualcosa contro un muro. «Se pensi che il tuo sia stato un gesto di generosità stai solo illudendo te stessa. Negando te stessa.»

«Smettila.» Non riuscivo a guardarla e non sapevo dove posare lo sguardo.

«Il tuo maestro non l'ha mai fatto, per questo è sopravvissuto così a lungo.»

«Per favore!» implorai, il viso voltato di lato e gli occhi serrati come se mi avesse schiaffeggiato. «Smettila» la voce mi uscì con un sussurro tremante. Stavo piangendo di nuovo. Odiavo l'idea di piangere davanti a Clothilde, ma quando feci per asciugarmi le lacrime con una mano mi resi conto che lei dovesse odiarlo altrettanto. Mi costrinsi a fissarla dritto negli occhi, anche se la mia vista era troppo appannata per mettere a fuoco.

Non disse nulla, ma io percepivo il suo disagio.

«Sei tu che sei tornata da me» le rinfacciai. «Sei tu che mi hai consegnata ai mutaforma la prima volta, poi però mi hai nascosta mentre ero morta e seguita fino a Mariglia. Sei tu che mi hai uccisa in mare e sei tu che sei tornata da me.» Il sacchetto di carta con il mio pranzo giaceva ancora vicino alle mie gambe. Lo richiusi, infilai nello zaino e scattai in piedi.

Clothilde rimase seduta.

«Io non ti sto trattenendo. Sei libera di andare» le feci notare.

Non rispose. E prima che potessi trovare qualcos'altro da dire le luci sul binario si accesero e una sfera di pietra rotolò fuori dal tunnel davanti a noi e si fermò al centro della banchina. Era un trasporto a quattro posti come quello dell'andata ma fortunatamente questa volta non c'erano altri passeggeri oltre noi.

Caricai lo zaino e il borsone di chimera su un sedile. Quando mi voltai per recuperare gli altri bagagli Clothilde li aveva già sollevati. Li buttò dentro la sfera di pietra senza delicatezza, poi mi precedette all'interno del veicolo.

«Dove altro potrei andare?» ringhiò voltando appena la testa, ma a voce così bassa che avrei potuto essermelo immaginata.

Mi sedetti dalla parte opposta rispetto a lei e trascorremmo l'intero viaggio in silenzio. Ad un certo punto mi addormentai e Caliane mi svegliò con una stretta intorno al braccio mentre rallentavamo.

Clothilde si rinfilò la parrucca a caschetto e il cappello sopra di essa. Io recuperai il cappotto abbandonato sul sedile affianco e me lo misi sulle spalle senza infilarlo.

Quando la metà superiore della sfera di pietra si aprì sopra le nostre teste la prima cosa a cui feci caso fu la luce oraria alla base della banchina – dovevano essere quasi le otto di sera. La seconda fu il vocio concitato – così insolito tra gli arborei. La terza la mano sulla mia spalla che mi impediva di alzarmi.

«Lasciami!» protestai istintivamente divincolandomi. Caliane divenne immediatamente una daga nella mia mano, ma Clothilde mi afferrò il braccio prima che potessi usarla e mi tappò la bocca con la mano libera.

«Mmh!» protestai spalancando gli occhi.

«Sono io, Lorelle, va tutto bene.» La voce dell'elfo. Dovetti reclinare la testa all'indietro perché la sua faccia entrasse nel mio campo visivo. Aveva una mano ancora premuta sulla mia spalla, l'altra che frugava in una tasca e il viso rivolto verso l'entrata della banchina.

«Sono ancora qui?» chiese Clothilde, in arcaico. Avevo smesso di dimenarmi, ma lei non mi aveva lasciato andare.

«Sì, quei bastardi. Sono come cani con il loro osso preferito.»

«Mmh?» cercai di chiedere.

Sentimmo delle voci e dei passi in lontananza. L'elfo imprecò una volta, poi mi lasciò andare e si raddrizzò.

«Non c'è qualche legge che dice che non possono toccarla?» domandò Clothilde, ancora in arcaico.

«Credi che sarebbero ancora qui se avessero davvero qualche riguardo per le nostre leggi?» replicò lui nella stessa lingua.

Voci e passi erano cessati. Non come se fossero diventati troppo distanti, ma semplicemente come se qualcuno avesse spento un registratore.

L'elfo e la sirena si scambiarono un rapido sguardo d'intesa, poi lei si fece da parte e lui saltò all'interno del veicolo. Io rimasi immobile anche se ero finalmente libera.

L'elfo estrasse da una tasca uno stiletto inciso – un altro biglietto per chissà dove – e lo inserì nell'apposito scomparto. Neanche un minuto dopo la cupola si stava richiudendo sopra le nostre teste.

«Cosa?» esclamai dopo che ci fummo rimessi in modo.

«Mutaforma» rispose l'elfo. «Sono qui da stamattina.»

«Da...» Sentii una stretta allo stomaco. «Tu lo sapevi!» mi rivolsi a Clothilde. «Lo sapevi fin dall'inizio.»

«Se ne sarebbero dovuti andare prima che tornaste» proseguì l'elfo. Mi guardava piuttosto accigliato. «Ho fatto i biglietti in più per sicurezza e...» si voltò verso Clothilde con aria contrariata. «Non glielo avevi detto! Perché non glielo hai detto?»

Lei si limitò a stringersi nelle spalle.

«Lorelle mi dispiace, avrebbe dovuto dirtelo.» Si passò le mani sul viso, poi si rilassò contro il sedile accanto al mio e si concesse un momento per prendere fiato. «Sono arrivati stamattina. Un gruppo di mutaforma sta setacciando da cima a fondo la città arborea da allora mentre un altro gruppo finge di essere qui per sporgere ufficialmente denuncia verso di te. Sai come sono queste cose per gli arborei, anche se sanno che è inutile non rinunciano alle formalità.»

«Carino come a volte ti scordi di essere anche tu un elfo» commentò Clothilde.

Lui alzò gli occhi al cielo. «Probabilmente li hanno lasciati fare perché sapevano che non c'eri, ma è comunque irritante.»

Tirai su le gambe e mi abbracciai le ginocchia. «Sapevano di avere la meglio e non si sono lasciati sfuggire l'occasione di far perdere tempo ai mutaforma. Ti hanno dato loro i biglietti?»

L'elfo rise e annuì. «Me ne hanno dati una decina! Così non mentono dicendo di non sapere dove ti trovi.»

«Ora dove stiamo andando?» chiesi.

«Roma. Mi serviva un posto non gestito dagli arborei, così nessuna fata scrupolosa registrerà dove passi la notte, e i mutaforma non hanno mai scoperto dei tuoi contatti con l'ambasciata.»

Annuii. «Tu rimarrai con noi?»

Lui scosse la testa. «Sono il tuo più strenuo difensore e sono richiesto in prima linea.»

«Quale prode cavaliere.» Clothilde si era levata il berretto e ora giocava a farlo roteare intorno ad un dito senza lanciarlo. Avevo l'impressione che troppe ore chiusa in una sfera che rotolava sottoterra avessero un brutto effetto sul suo umore.

L'elfo la ignorò. «La denuncia dei mutaforma è evidentemente un pretesto per venire a ficcare il naso, ma c'è qualcun altro che si sta documentando su di te Lorelle, qualcuno che a differenza loro sa muoversi nel mondo arboreo.»

Mi sfuggì una risata nervosa. «Tra quanto non sarò più al sicuro nemmeno lì?»

Si strinsi nelle spalle. «Chi può dirlo? Se è qualcuno che fa sul serio potrebbero volerci anche anni. Di chiunque si tratti, ho l'impressione che non si farà prendere dalla fretta pur di far le cose a regola d'arte.»

«Pensi che potrebbe riuscire a rivoltare le cose contro di me?»

L'elfo si curvò in avanti, i gomiti appoggiati sulle gambe e le mani giunte, lo sguardo fisso nel vuoto tra di noi. «Spero di no. La mia logica dice di no, che non sei nel torto e che nessuna corte arborea arriverebbe ad una conclusione diversa.» Alzò gli occhi su di me senza raddrizzarsi. «Ma sai anche tu come vanno queste cose, a volte è questione di retorica più che di giustizia.» Si passò una mano sul volto e poi tra i capelli. «E io...»

«Tu sei un arboreo solo di sangue» concluse Clothilde per lui. Il cappello le sfuggì di mano.

«Il mio sostegno potrebbe essere un vantaggio quanto uno svantaggio per te» confermò lui.

«Lo so.» Mi sporsi per stringergli l'avambraccio. «E per me il tuo sostegno significa molto.»

Rimanemmo in silenzio per un po', io con la testa appoggiata alle ginocchia e l'elfo chino in avanti, i dreadlocks scuri che gli coprivano il volto ma le spalle tese come non mai. Gli posai delicatamente una mano tra le scapole, ma lui sussultò e io mi ritrassi di scatto.

Clothilde seguì i nostri movimenti con insolita attenzione.

Mi grattai nervosamente dietro l'orecchio, senza sapere cosa fare esattamente con le mani. Poi lo sguardo mi cadde sui borsoni accatastati a terra e sul sedile vuoto e fui lieta di avere una scusa per cambiare discorso.

«Perché donarli?» chiese lui appena ebbi finito di spiegare. «Perché proprio agli arborei?» A differenza di quelle di Clothilde, le sue domande non avevano una chiara valenza di critica, erano il suo modo di studiarmi, di conoscermi in base alle mie scelte.

«Perché so che ne comprenderebbero il valore.» Riabbassai le gambe e mi appoggiai allo schienale. «Perché li custodiranno meglio di qualsiasi ricco mutaforma» continuai ad elencare «e perché ci studieranno veramente e non si limiteranno a impilarli in uno scaffale.» Feci una pausa e incrociai le braccia al petto. «Perché voglio che il lavoro del mio maestro sia riconosciuto» aggiunsi a voce molto più bassa, gli occhi che cercavano quelli di Clothilde. «Qualsiasi siano le motivazioni per cui ha creato questi quaderni, voglio che possano essere utili a qualcuno.»

«Potresti semplicemente lasciarli in eredità a qualcuno.»

«E dare al mondo un altro valido motivo per aspettare la mia morte?»

«Mettili all'asta per chi riesce a offrirti più protezione» propose Clothilde.

«Vincerebbe qualcuno con un bunker sotterraneo autosostenibile» ribatté l'elfo. «Che smetterebbe di essere sicuro nel momento in cui vincendo all'asta tutti verrebbero a sapere della sua esistenza.»

«E poi per quello c'era Versailles» ricordai loro.

Passammo ciò che restava del viaggio a discutere come sarebbe stato meglio comportarsi una volta a Roma e a concludere che la strategia migliore era andare dritte all'ambasciata e chiudersi in una camera.

L'elfo mi diede dei documenti falsi e tutti i biglietti arborei che non aveva utilizzato. Sapendo che sarebbe tornato ad Arles prima di ripartire per qualche paese sperduto in Olanda decisi di lasciargli i libri di Lucien perché li portasse nel mio appartamento.

Meno di due ore dopo esserci fermate ad Arles, Clothilde ed io emergemmo dalle viscere dall'antico acquedotto nel cuore di Roma e attraversammo il parco verso l'ambasciata.

La via degli acquedotti era buia, proprio come la notte che me ne ero andata, ma infinitamente più silenziosa senza il mercato ad affollarla.

Appena sentimmo delle voci umane provenire dall'altra parte degli archi, Clothilde ricominciò a canticchiare, molto più sommessamente di quanto avesse fatto a Versailles, e procedemmo nella nostra bolla attraverso gli stretti sentieri sterrati.

Ricordavo la strada, ma non sapere di preciso deve si trovasse l'ambasciata mi innervosiva. Quando sarebbe comparsa? Quando saremmo state ad una decina di metri di distanza? Cinque? Uno? Ci saremmo andate a sbattere?

Quando l'aria cominciò a pizzicarmi la pelle, carica di elettricità statica, e i miei piedi sembrarono incapaci di fare dei passi dritti se non con estrema concentrazione, mi rilassai.

Mezzo metro più avanti avvertii lo spazio contrarsi intorno a me, il mio corpo adattarsi alla nuova forma della realtà e abbassai le palpebre sotto una fastidiosa pressione. Quando riuscii a scrollarmi di dosso la sensazione di avere un tenda pesante schiacciata sulla mia faccia e riaprii gli occhi l'ambasciata era lì, davanti a noi. E mi chiesi, più di una volta, come avessi potuto dimenticarla. No, come avessi potuto non notarla la prima volta. Forse avendo vissuto a lungo sottoterra non ero abituata a fare caso all'esterno degli edifici.

Ma sapevo che quello che avevo davanti era a suo modo un capolavoro. Barocco nel suo essere irregolare, aggraziato perché non imponente, elegante nella sua modernità. Persino nel buio sempre più intenso della notte potevo distinguere il bianco immacolato delle mura – così improbabile all'interno di un parco – e l'oro rosato delle decorazioni che lo adornavano in ogni spigolo, ogni davanzale, ogni intercapedine, ogni rientranza senza mai essere davvero superflui.

«Wow» mormorai.

Clothilde incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte. «Credevo fossi cresciuta a Versailles.»

Non volli risponderle.

Versailles era un tripudio di esagerazione, affascinante perché incontenibile. L'ambasciata di Roma in confronto era un servizio da tè di una casa di campagna. Ma mentre Versailles era artificiale, un'aura di familiarità circondava l'ambasciata.

«Andiamo.»

Attraversammo il portico ed entrammo dal portone principale, l'unico ingresso che in un'ambasciata sconosciuta doveva rimanere sempre aperto. Ci ritrovammo in un atrio che assomigliava vagamente a quello di un albergo, con panche imbottite disposte intorno a tavolini da salotto, teche con vecchie macchine da scrivere e telefoni, qualche quadro mal illuminato e una parete quasi completamente ricoperta di articoli di giornali e schizzi e planimetrie dell'edificio stesso. Sul fondo della sala, seduta dietro un lungo tavolo di marmo, c'era Amelia.

La strega si alzò in piedi quando ci vide entrare e ci venne incontro, allargando le braccia appena mi ebbe riconosciuta.

«Elle» esclamò come di fronte ad un figlia finalmente tornata a casa e avvolgendomi in un abbraccio. «Che gioia rivederti.» Si scostò per salutare anche Clothilde ma la sirena la tenne lontana con un'occhiataccia.

«A cosa devo questa visita inaspettata? L'ultima volta che ci siamo sentite le cose ad Arles andavano bene.»

Annuii. «Devo solo uscire di scena per un po'. Tornerò appena mi daranno il via libera.»

«Nel frattempo sei la benvenuta come nostra ospite» mi assicurò mentre ci conduceva verso il tavolo di marmo, sulla cui superficie giacevano le carte di un solitario abbandonato e un grosso registro aperto con segnati pochissimi nomi.

«Non abbiamo molti ospiti al momento» spiegò Amelia seguendo il mio sguardo. «E sono tutti sufficientemente discreti, ma vi darò una stanza in un piano non occupato.»

Sorrisi, incapace di ringraziarla adeguatamente. «Ti serviranno dei nomi» dissi accennando al registro sul tavolo.

«Suvvia, non--»

«L'ultima cosa che voglio è che tu passi dei guai per colpa mia.»

«Metterò dei nomi qualsiasi, quelli sul registro sono più che altro simbolici.»

«Puoi continuare a chiamarmi Elle allora.»

Clothilde rise. «E io chi sono "Tilde"?»

«Se lo desideri» fu la risposta di Amelia. La strega le tesa una mano. «Io sono Amelia De Angelis, la moglie dell'ambasciatore.»

Clothilde le strinse la mano. «Tilde Verlor,» si presentò, decidendo che la moda di troncare i nomi poteva estendersi anche al mio cognome «parente di Elle.»

«Cugina?» suggerì la strega mentre si risedeva dietro al tavolo e apriva un cassetto grande quasi quanto tutta la superficie e pieno di chiavi, ognuna in un apposito scomparto.

«Cugina può andare» assicurai ad entrambe.

Amelia scelse una chiave dall'aria fin troppo generica, con una conchiglia incisa nel manico e appesa una targhetta con il numero 080 inciso sopra. «Io non posso lasciare la mia postazione per altre quattro ore,» ci informò, improvvisamente molto seria. «Oltre quella porta ci sono delle scale, sorpassatele e procedete per il corridoio del piano terra quasi fino alla fine. La vostra stanza sarà sulla destra.»

Riconobbi vagamente la strada mentre raggiungevamo la nostra camera. In cima alle imponenti scale a chiocciola che aggirammo doveva esserci la stanza in cui mi ero risvegliata. E al primo piano, proprio sopra di noi, dovevano trovarsi la sala da pranzo e la cucina in cui avevo incontrato Xerxes.

Il primo piano era quello dedicato alle aree comuni, mi aveva spiegato Amelia per telefono qualche mese prima, il secondo e il terzo camere per gli ospiti dell'ambasciata. Il piano terra era quello a cui solo ambasciatore e impiegati diplomatici potevano accedere. Avevo immaginato ospitassero quasi esclusivamente dei loro uffici, ma mi resi conto che invece doveva trattarsi degli appartamenti privati.

La camera 080 era quasi alla fine del piano, come aveva detto Amelia. Io e Clothilde restammo qualche istante immobili davanti alla porta, fissando la serratura senza toppa. Mi acquattai e passai una mano sull'intarsiatura a forma di conchiglia in cerca di buchi nascosti ma non trovai nulla se non una sottile fenditura.

«Infilaci la targa» suggerì Clothilde.

Sollevai un sopracciglio, poi intuii cosa intendesse e inserii nella fenditura la targhetta con il numero della camera. La porta si aprì con un click quasi immediatamente.

All'interno ci aspettava un vero e proprio piccolo salotto, arredato in bianco, legno scuro e oro rosa come quasi tutta l'ambasciata.

«Meglio di Arles» commentò Clothilde attraversando la stanza a grandi falcate. Sull'intera parete di fondo di aprivano delle finestre ad apertura scorrevole con un davanzale imbottito su cui avrei potuto passare intere giornate a leggere.

Clothilde premette le mani sui vetri come per testarne la resistenza, poi chiuse le veneziane come meglio poteva.

Io intanto posai la chiave e lo zaino che mi portavo dietro sul divano a L e continuai l'ispezione. Le porte di lato davano su un'ampia camera con un enorme letto a terra e un bagno con una vasca antica in cui non dubitavo Clothilde avrebbe passato volentieri la notte. Non prima che mi fossi fatta un bagno io, però.

Chiusi la porta alle mie spalle facendo scattare la chiave e cominciai a spogliarmi prima ancora che l'acqua avesse cominciato a riempire la vasca.

oOo

L'acqua calda era così piacevole che avrei potuto veramente passare la notte così, il corpo nascosto sotto un velo di schiuma e la testa reclinata all'indietro, appoggiata al bordo arrotondato della vasca.

Sentivo Clothilde vagare inquieta nel salotto, ma mi bastava scivolare un po' perché l'acqua mi coprisse le orecchie e cancellasse ogni suono.

Gli abissi erano così pacifici? Forse se mi fossi trasformata in una sirena invece che in una qualche sottospecie di gatto mannaro, la mia vita sarebbe stata più semplice. Forse sarei riuscita a trovare un po' di pace.

Il rumore di qualcosa che andava in pezzi mi fece sobbalzare e scattai a sedere, in allerta.

Clothilde imprecò senza entusiasmo e mi rilassai.

Ero al sicuro, per ora. Dovevo recuperare qualche ora di sonno finché potevo.

Mi feci forza e issai a sedere sul bordo della vasca prima di scavalcare, poi recuperai uno degli asciugamani più grandi e me lo avvolsi intorno al corpo. Con uno più piccolo mi tamponai la testa fino ad asciugare il grosso dei capelli, poi raccolsi i vestiti sporchi e uscii dal bagno.

Clothilde era impegnata a raccogliere i cocci di un vaso di ceramica e accumularli sul tavolo. Mi degnò a mala pena di uno sguardo.

Lo zaino era ancora sul divano, dove lo avevo lasciato. Frugai tra i vestiti che avevo ritrovato a Versailles fino a recuperare delle mutande pulite e una maglietta lunga e larga in cui dormire.

Feci per andare a cambiarmi in camera da letto, ma poi una parte di me volle prendersi una piccola rivincita su Clothilde. Con tutta la nonochalance di cui ero capace lasciai cadere lasciugamano ai miei piedi.

Lei non sembrò nemmeno accorgersene. Adocchiò il cestino in un angolo e andò a buttarci una manciata di cocci.

Mi diedi mentalmente della sciocca e mi affrettai ad infilare slip e maglietta.

«Quello cos'è?»

«Cos'è cos--» in un attimo fu alle mie spalle e mi scoprì la schiena. «Oh.» Con una mano teneva sollevata la maglietta, con l'altra mi sfiorò la pelle. «Sono i loro nomi» risposi mentre tracciava le linee del tatuaggio. «I nomi dei miei marchiati.» Uno sotto l'altro, allineati alla mia colonna vertebrale come al margine di una pagina. «Così anche io dovrò portare una traccia di loro sulla pelle.» Mi spostai tutti i capelli su una spalla perché potesse vedere meglio.

«Li sai?» chiese, quasi sovrappensiero.

Non li avevo saputi quando l'elfo me li aveva chiesti. Mi ero vergognata e sforzata, ma non ero riuscita a ricordarli tutti. E lui mi aveva aiutata a ricostruire le loro identità da quel poco che sapevo di loro.

«Nasir,» cominciai, il respiro incerto, perché il nome dello skinwalker era il primo. «Yeheven,» il coboldo. «Holly,» la vampira depressa. «Corentin,» il farshee le cui grida mi avevano svegliato dalla malia delle sirene. «Nash, --»

«Allegra e Diego» mi precedette Clothilde.

La veela il cui sangue aveva ucciso me e il mio maestro e l'umano che era venuto a cercarla.

«Li conoscevo» rivelò Clothilde.

Voltai la testa di lato per poterla vedere in faccia, ma lei teneva lo sguardo abbassato, fisso sul tatuaggio.

«Il suo sangue ha quasi ucciso me una volta, per questo sapevo che era tossico.»

«Sapevi--» Realizzai con un attimo di ritardo cosa stesse dicendo e trattenni il fiato. «È stata una tua idea?»

«Io ho chiamato i mutaforma e io ho detto loro che c'era una veela.»

Chiusi gli occhi e mi concentrai sul mio respiro mentre cercavo di ricacciare indietro rabbia e lacrime. Mi morsi un labbro finché non cominciò a pulsare forte.

La mano di Clothilde ricominciò a scendere.

«Duke,» sussurrai continuando con la mia lista, il licantropo che aveva lavorato per i mutaforma prima che Lucien lo catturasse. «Lin» Lin Lee, l'anziana maga asiatica, l'ultima marchiata della mia lista.

Le dita di Clothilde raggiunsero la base della mia schiena e rimasero lì anche quando lasciò andare la maglietta. La stoffa scivolò di nuovo sopra pelle e inchiostro e io feci per girarmi, ma lei era troppo vicina.

Le sue dita scorsero sull'elastico dei miei slip come su un binario.

«Ne manca uno» sibilò afferrandomi per la vita. Il suo fiato mi fece drizzare i peli della nuca. «Manca il mio.» La sua voce era direttamente nel mio orecchio, direttamente nella mia testa, e il mio cuore cominciò a battere forte.

«Tu sei viva» mormorai.

Allentò la presa quanto bastava perché potessi sfuggirle. Misi un passo di distanza tra di noi prima di voltarmi e fronteggiarla.

Fui più consapevole che mai che fosse più alta di me.

«Tu sei viva» ripetei, con più decisione.

Il suo sguardo era fisso sul mio collo, sulle vene che pulsavano sotto la pelle, come se sapesse esattamente che sapore potesse avere la mia carne. E che consistenza. Io invece non avevo idea di che sensazioni potesse provocare la sua bocca.

Poi i suoi occhi scattarono in alto, sul mio viso, le pupille appena dilatate e una concentrazione da predatrice. Indietreggiai e lei mi afferrò per un braccio. Si avvicinò e io indietreggiai. Indietreggiai finché non incontrai un ostacolo.

«Sì,» confermò lei, premendo le mie dita tra le proprie gambe «io sono ancora viva.» Mi lasciò andare, ma io non ritrassi la mano.

Mi sporsi verso di lei, gli occhi fissi nei suoi, e cercai di orientarmi in un corpo che non fosse il mio. Lei ruppe per prima il contatto visivo. Si piegò sull'incavo della mia spalla e mi accarezzò il collo. Prima con la punta del naso, poi dei denti, poi della lingua, generando il principio di un brivido.

Inclinai la testa di lato, offrendole più pelle possibile. Scivolai dentro di lei nel momento in cui cominciò a mordicchiarmi e scariche elettriche mi esplosero sottopelle. Mi aggrappai alla sua spalla e le sue mani furono sulle mie gambe. Mi issò sul tavolo e mi ritrovai a sovrastarla di quasi tutta la testa.

Le avvinghiai le gambe intorno alla vita e lei strinse i miei fianchi. Mi baciò la gola e le clavicole, succhiando tutto il sapore della mia pelle.

Mi puntellai al tavolo con la mano libera e mi avvicinai l'altra al viso, cercando di cogliere il suo odore sulle mie dita ma senza riuscire a concentrarmi davvero. Mi portai un polpastrello alle labbra, ma prima di poter davvero assaggiare Clothilde mi costrinse a sollevare le braccia per sfilarmi la maglietta.

Mi appoggiai sui gomiti, intreggiando mentre la sua bocca trovava le mie costole e mi attraversava lo stomaco e--

«Ah» I cocci. I cocci erano ancora lì.

Clothilde ringhiò mentre alzava lo sguardo e notava il graffio sul mio palmo. Roteò gli occhi una volta, poi mi tirò giù dal tavolo e mi spintonò verso la camera da letto. La lasciai fare. Avvinghiai le braccia intorno alle sue spalle così da trascinarla con me. Respirai il fiato che le usciva dalle labbra e le strappai la parrucca dalla testa.

Risi, come ubriaca. Poi deglutii. Poi sorrisi di nuovo, inevitabilmente, perché il suo viso inumano era bellissimo.

Le accarezzai la nuca, e la carne soffice dietro le orecchie. E intanto eravamo arrivate al letto.

Mi allontanò e mi lasciai cadere sulle coperte, un braccio a coprirmi il seno nudo e una mano che cercava di nascondere il mio sorriso.

Rimase immobile un istante, poi socchiuse le palpebre e si sfilò il vestito grigio dalla testa, arcuandosi mentre si liberava dalla stoffa.

Avevo già visto il suo corpo nudo. E mi ero sforzata di non guardarlo. Di non cogliere i dettagli. Ora la divorai con gli occhi, ora mi protesi in avanti per reclamarne ogni centimetro.

Le strinsi le gambe sopra le ginocchia e feci correre la punta della lingua dalla coscia attraverso il suo ventre fino allo sterno, e intanto la guidai a cavalcioni su di me. Le presi un capezzolo tra le labbra. Si inarcò appena, e io mi guadagnai di nuovo una via tra le sue gambe. Assecondai le sue forme e questa volta la trovai più calda e più umida. Mi feci strada dentro di lei e la sentii contrarsi intorno alle mie dita.

Le baciai la gola e la carne sotto il mento, poi la sentii ringhiare in dissenso e mi immobilizzai.

«Non ho idea di cosa sto facendo» ammisi in un sussurro. Avvertii del calore infiammarmi il viso e non riuscii a sollevare lo sguardo.

Ringhiò di nuovo, ma questa volta sembrava più una risata.

Ci fece rovesciare di lato e allontanò la mia mano da sé. Cercai di portarmi sopra di lei, di baciarle di nuovo il collo, ma lei mi trattenne giù. Mi fece stendere sulla schiena, ancorandomi con il suo peso. Percorse l'incavo delle mie clavicole con la lingua e mi sfuggì un respiro tremante. Mi baciò la base della gola e le mie viscere si contrassero.

Qualcosa, qualcosa si stava svegliando dentro la mia carne, sciogliendomi lentamente le ossa.

Le sue mani erano sul mio seno, ma la sua bocca ricominciò a scendere, infiammando ogni centimetro di pelle che sfiorava. E certi punti oh certi punti erano sensibili – lì, lì dove avrebbe dovuto essere il mio ombelico, una carezza dei sui denti scatenava brividi in tutta la schiena – e i nervi dietro le ginocchia... le sue dita li sfibravano e riassemblavano. E dal ginocchio risalirono lungo il retro della coscia. Le mie gambe tremarono. La sentii ridere contro il mio fianco e fu come essere percorsa da corrente elettrica.

Le sue labbra si sollevarono dall'osso del bacino e ricomparvero nel mio internocoscia. Mi contrassi, pronta a raggomitolarmi su me stessa, ma le sue braccia mi ancoravano le gambe ormai.

«dèi» sussurrai mentre il mio internocoscia prendeva fuoco e sapevo dov'era che la volevo. E sapevo che ci sarebbe arrivata.

«Non ci sono dèi qui» rispose. E il suo fiato sulle mie mucose scatenò un altro brivido di piacere. «Ci sono» un po' più su «solo» appena un po' più su «io.»

Lei era una sirena – una sirena. Avrebbe dovuto vivere sul fondo degli abissi, esistere nelle leggende. Avrebbe potuto smembrarmi e divorarmi. Invece... invece mi stava accendendo.

E se per un po' non ci furono altro che i cerchi della sua lingua in superficie e piccole onde in profondità, presto la tensione cominciò a farsi insopportabile. Mi coprii la faccia con le braccia mentre producevo suoni irriconoscibili. Ogni muscolo del mio corpo era contratto, teso fin quasi al punto di rottura. E nella tensione, nella salita, c'era il piacere, come una fiammella sfuggevole che danzava in profondità.

Se solo avessi resistito un altro po', solo un altro po', solo--

Ma ogni volta che credevo di aver raggiunto un limite, una soglia di sopportazione, ogni volta mi ritrovavo risucchiata in un nuovo crescendo, a lottare per essere abbastanza forte e sopportare qualche altro istante.

E intanto nient'altro esisteva, nient'altro aveva senso, niente che non fosse il mio corpo, le mie membra e il modo in cui rispondevano a quell'unico stimolo. Ad ogni nuova spirale la lingua di Clothilde andava più a fondo, ma ogni volta non abbastanza, e nuove parti di me bruciavano di vita troppo velocemente. Se solo-- se solo fosse andata un po più a fondo-- solo un po', dèi solo un po'--

E infine il crescendo divenne caduta. La tensione improvviso rilascio. E nella caduta, in quell'implosione di sensi, mi persi davvero.

Spalancai gli occhi senza vedere.

E,
   finalmente,
         pronunciai il suo nome.

Quando riaprii gli occhi non erano passati che istanti, ma già mi chiedevo se fosse stato reale. Se la mia carne inerme fosse la stessa che pulsava e si rovesciava fino ad un attimo prima.

«Clo- Clothie», la mia voce era appena udibile sopra il mio stesso respiro.

Era sparita. Era sparita. Le sue mani non arpionavano più le mie gambe, i suoi baci si erano dissolti, il suo peso non mi ancorava più alla realtà.

Cercai di alzarmi ma il mio corpo non rispondeva correttamente ai comandi. Mi limitai ad aprire gli occhi e la trovai che mi fissava dall'alto, le mani puntate ai lati della mia vita e l'espressione di chi sa di avere l'assoluto controllo.

«Sì, è quello il mio nome.»

Cercai di sorridere, ma riuscivo a mala pena a respirare. «Non eh, non credo che me lo tatuerò.»

«No, infatti.»

Risi. E ridere non mi aveva mai fatto stare così bene perciò non mi fermai. Risi finché non rimasi di nuovo senza fiato. Quando smisi lei mi stava ancora fissando dall'alto.

Pensai di sollevarmi e baciarla, ma la mia schiena rimase ancorata al letto. Mi limitai a sollevare un braccio e accarezzarle l'incavo del gomito. La mano sembrava così pesante, ogni sensazione così lontana.

«Credo che questo sia il mio turno» sussurrai.

«Gli dèi non vogliano» replicò lei lasciandosi cadere accanto a me senza delicatezza e voltandosi su un fianco in modo da darmi le spalle. «Me la cavo meglio da sola.»

Rimasi qualche istante immobile a fissare il soffitto in silenzio. Poi raccolsi le energie per girarmi a mia volta su un fianco.

Le accarezzai la spalla, poi il braccio, poi l'avambraccio. Appoggiai un gomito al cuscino e mi puntellai la testa con la mano libera, poi ripresi la mia discesa.

Percorsi il dorso della sua mano e lasciai scivolare le mie dita tra le sue.

«Mostrami» mormorai nel suo orecchio, in arcaico, e la sua schiena si irrigidì appena. «Mostrami» ripetei.

Non rispose, e per un po' nessuna delle due si mosse. Poi lei cambiò leggermente posizione e portò ancora una volta le nostre mani intrecciate tra le proprie gambe. Le sue dita premettero sulle mie, guidandole nei movimenti come un'estensione delle proprie.

Navigai tra le sue pieghe finché non riuscii a farmi strada all'interno. Spinse sulle mie nocche e strinse il mio polso e cominciai a fare pressione e esplorare in modi che io immaginavo spiacevoli ma che le fecero accelerare il respiro e contrarre il ventre.

Mi avvicinai e feci aderire il mio corpo al suo, la sua schiena contro il mio petto e la mia pancia. Le baciai la spalla, poi la clavicola, e il collo, e solleticai con la lingua la carne tra mandibola e orecchio. Più la mia bocca saliva più lei mi spingeva in profondità. L'interno il suo corpo si stava facendo più scivoloso, difficile da saggiare come avrei voluto. Due dita si unirono alle mie per riprendere il controllo e darmi un ritmo.

La sentii stringere le labbra e trattenere un gemito quando una gamba iniziò a tremarle. Mi mossi più rapidamente, ma mi stritolò il polso perché rallentassi di nuovo.

Cominciavo a capire quali fossero i punti più sensibili, quelli che la facevano contrarre ogni volta che mi avvicinavo e ansimare quando mi allontanavo. Uscii e rientrai e mi mossi dentro di lei, gustando ogni scarica che dal suo corpo tremante si propagava al mio.

Cercai di nuovo di velocizzare i miei movimenti, di replicare i cerchi della sua lingua che mi avevano fatto impazzire, ma il suo ritmo era diverso, la sua carne più sensibile e di nuovo mi costrinse a rallentare, ringhiando per l'interruzione e poi gemendo di nuovo.

Mi premetti ancora di più contro di lei, quasi avessi voluto inglobarla, respirando contro il suo collo e premendo le labbra sulla sua spalla.

Avvertii il momento in cui raggiunse la massima tensione e il suo corpo intero prese a tremare di fatica e trepidazione e insistetti nelle aree sensibili come non avevo fatto fino a quel momento. Mi scontrai con le sue dita e seguii la loro scia e lavorammo all'unisono mentre lei rovesciava la testa all'indietro e smetteva di respirare.

Si afflosciò contro di me come se le sue ossa si fossero squagliate. La sua mano sparì, ma io non mi fermai e i suoi muscoli continuarono a fremere senza controllo. Quando riprese a respirare, affaticata come non lavevo mai sentita, mi sentii inebriata. E esaltata. E stordita.

Mi sentii come dopo aver marchiato qualcuno.

Il mio cuore fece una capriola. Ritirai la mano quasi di scatto e mi fissai le dita, ma il fluido lattiginoso che le ricopriva non era sangue.

Il sollievo fu così intenso che mi rovesciai sulla schiena e massaggiai la fronte con la mano pulita.

Clothilde respirava ancora affannosamente. Si girò su se stessa e quasi arrampicò su di me. Aveva il viso arrossato e lo sguardo vacuo e io mi sentii di nuovo pervasa di entusiasmo.

Intrecciai le gambe alle sue e le strinsi la vita. Lei sollevò leggermente il busto e ci ritrovammo finalmente faccia a faccia.

Fissai i suoi occhi lucidi, e le sue labbra tremanti. E intanto mi ritrovai a muovere le dita quasi involontariamente sulla sua pelle, tracciando marchi umidi e invisibili. Una C in arcaico sulla sua coscia, una L sulla natica, una O alla base della schiena.

E un bacio che sapeva di sale.

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