·3·2· Le scoperte

Amelia mi guidò attraverso l'edificio finché non fummo all'esterno. Mettere piede fuori dall'ambasciata mi fece rabbrividire, ma questa volta non esitai.

Avevamo percorso una decina di metri quando avvertii una specie di decompressione. Come se invece di avanzare nello spazio adesso stessi passando da un livello di realtà ad un altro, riemergendo da una zona molto più concentrata ad una più rarefatta.

Durò pochi secondi e mi lasciò solo vagamente stordita, ma mi fermai per guardarmi intorno. Nulla intorno a me era cambiato, ma quando mi voltai l'ambasciata sconosciuta era scomparsa.

«Quella era...» mi assicurai che Amelia mi stesse ascoltando. «Quella era la magia di cui mi parlavi?»

La strega annuì. «Affascinante, non è vero?»

«È una specie di ripiegamento spaziale!» esclamai entusiasta riprendendo a camminare.

«Non ne ho idea» ammise tranquillamente lei, poi sollevò le sopracciglia e recuperò il foglio di Xerxes dalla borsa. Inforcò un paio di occhiali e scorse velocemente le righe scritte. «Okay, questo per me non ha senso» annunciò prima di leggere ad alta voce. «"La magia ha modificato le geodetiche in questo punto del parco."» Ridacchiò. «Chissà da quanto Xerxes si preparava queste risposte!» commentò nello stesso istante in cui io dicevo: «Questo spiega perché ci si può arrivare solo intenzionalmente.»

Amelia mi rivolse uno sguardo comprensivo. «Ti piace riportare tutto sul piano scientifico, eh?»

Annuii, ma senza troppa convinzione. Era il modo di ragionare che Lucien mi aveva insegnato, ma dentro di me detestavo come in questo modo la maggior parte degli eventi perdessero il proprio fascino.

Non potevo tenere a freno la mia curiosità però, che dipendesse dalla mia natura di marchiatrice, dall'istruzione del mio maestro o semplicemente dal mio carattere. «Tu non saresti in grado di creare qualcosa di simile?» chiesi. «Prima sembravi divertita dall'idea» aggiunsi.

«Dimmi, cosa sai delle streghe, bambina?» Usò l'appellativo con una dolcezza intrinseca che mi fece sentire a mio agio invece che infastidirmi.

«Le streghe» cominciai «possono giocare con la realtà senza toccarla» ricordavo le esatte parole di Lucien. «Creano illusioni,» continuai «ma non possono fare davvero del male.»

Amelia sorrise, scoprendo leggermente i denti piccoli, resi particolarmente bianchi dal contrasto con la sua carnagione. «No?» Non c'era scherno nella sua voce, solo una discreta autoironia. «Che differenza c'è tra un braccio rotto e l'illusione di un braccio rotto?»

Per un momento credetti che stesse parlando con se stessa e risposi con qualche secondo di ritardo.

«Che uno è vero e l'altro no.» Suonava come la risposta più stupida del mondo.

«Sì, ma qual'è la differenza?» insistette. «Non puoi usare nessuno dei due, uno finché non guarisce e uno finché non smaltisce l'incantesimo. Il dolore è lo stesso. Che importa se la luce del giorno è un'illusione? Se ti consente di vedere, qual'è la differenza con quella vera? Se ti illudi di avere in tasca la lista della spesa e poi guardi la consulti, cosa cambia da un pezzo di carta reale?» le sue non erano semplici domande retoriche, era davvero interessata alle mie risposte.

Non risposi. Queste non erano le domande a cui ero abituata. Il mio maestro mi aveva sempre insegnato a studiare accuratamente la realtà, non a metterla in discussione con tanta facilità.

Dopo diversi minuti passati nel silenzio più assoluto, finalmente Amelia sorrise, non nel modo soddisfatto di chi ha messo a tacere il proprio avversario, ma in quello rassegnato di chi non ne ha trovato uno valido.

Qualcosa avvampò dentro di me e capii immediatamente di detestare quella sensazione. Fin da quando ero piccola mi ero sempre impegnata a non deludere le aspettative.

Non ero abituata alla mediocrità, non ero nata per essere nella media. Era una cosa negativa? Dipendeva dalla mia razza? Allora com'era possibile che questo aspetto di me si fosse mantenuto nella mia forma di gatto?

La strega mi lasciò ai miei pensieri mentre ci inoltravamo nell'erba alta. Avanzavamo con un ritmo pacato ma costante, io ispezionando continuamente i dintorni e Amelia chinandosi ogni tanto a raccogliere papaveri secchi.

Il parco era tranquillo ed effervescente di vita allo stesso tempo. Dalle rovine dell'acquedotto romano proveniva un vocio sempre più forte e luci colorate, ma finché rimanevamo avvolte nel buio notturno mi sentivo al sicuro.

Eravamo a metà strada quando un lampo azzurro mi fece sobbalzare. Attraversò l'erba alta a pochi metri da noi, nient'altro che una striscia azzurra sparita in un battito di ciglia.

Mi acquattai e rimasi immobile. Amelia mi fissò confusa. La ignorai.

Mi guardai intorno finché non individuai un puntino luminoso ad una decina di metri di distanza. Mi avvicinai di un paio di passi, gli occhi ridotti a due fessure, e la luce scattò di nuovo, questa volta nella nostra direzione.

Schizzò accanto al mio viso e ne sentii il calore sulla pelle, ma non mi sfiorò. Si fermò a mezz'aria, tra me e Amelia. Roteò lentamente su se stessa, disegnando una spirale sempre più stretta e generando una condensa bluastra intorno a sé. Aveva un nucleo bianco e pulsante e un corpo che era acqua e fuoco e nessuno dei due, blu e verde e azzurro.

Qualunque cosa fosse, era viva e bellissima.

Mi raddrizzai nella sua luce e protesi una mano fin quasi a toccarla. Tentacoli fiammeggianti si allungarono dal corpo centrale e si avvolsero lentamente intorno alle mie dita. Trattenni il fiato, ma il calore ustionante che mi aspettavo non arrivò. Sollevai la mano finché non fu quasi completamente dentro il globo azzurro, il nucleo bianco che danzava sul mio palmo. Aveva una consistenza fluida e gelatinosa, come albume d'uovo, piacevole e tiepida. La avvertivo sulla pelle così come all'interno della carne, come se ci fossimo compenetrati invece che intrecciati.

Affascinata, cercai lo sguardo di Amelia.

La strega mi guardava con la testa piegata di lato e un sorriso materno sulle labbra. «Non ne avevi mai visto uno» mormorò, quasi dispiaciuta.

«Che cos'è?» sussurrai muovendo le dita al suo interno.

«Un fuoco fatuo» rispose, pronunciando le parole come se le stesse coniando in quel momento.

«È...» Non trovai aggettivi adeguati, ma Amelia annuì lo stesso.

«Ce ne sono molti intorno al mercato. Andiamo

A quell'ultima parola il fuoco fatuo si inclinò verso l'acquedotto come se una folata di vento lo stesse spingendo in quella direzione. Strattonò il mio braccio dall'interno, tirando direttamente le vene intorno alle mie ossa, ma con delicatezza, come una calamita attirata da un magnete lontano.

Lo seguimmo fuori dall'erba alta fino ad un sentiero che andava ad incrociare quello lungo cui sorgeva l'acquedotto romano.

Decine di altri fuochi fatui e comuni torce illuminavano l'intera via e il fiume di gente che la percorreva.

Era un vero e proprio mercato. Solo completamente diverso da qualsiasi altro. Alcuni archi erano stati lasciati vuoti per permettere il passaggio, ma sotto ognuno degli altri era stato allestito un banco da cui i mercanti vendevano tutto ciò che poteva avere un valore, i clienti zigzagavano da uno all'altro come api in un campo fiorito, ognuna golosa di un particolare polline, e gli umani camminavano in mezzo alle altre razze come avevano fatto tanti secoli prima, quando ancora i loro antenati non le avevano esiliate nei libri di favole e la storia non le aveva costrette a vivere nascoste.

C'era così tanto in quel posto, in quel frammento di mondo, da sopraffare la mia mente. I miei occhi ingoiavano tutto ciò su cui posavano, le mie orecchie masticavano ogni suono, i miei pensieri erano spenti. Tutta la mia essenza era impegnata ad assorbire il momento, a stampare nella memoria ogni dettaglio che poteva assimilare.

Il fuoco fatuo mi sgusciò tra le dita. Raggiunse uno dei banconi più vicini e si andò a tuffare in una cesta di vimini piena di altre fiammelle blu. Un uomo che era un ragno dalla vita in giù vi agitò dentro la mano per accarezzarli tutti, poi alzò lo sguardo su di me e con un braccio indicò tutto il bancone.

I miei occhi seguirono il suo gesto.

Per prime notai le puffole, divise in un gruppi di tre o quattro dentro retini quasi invisibili, estremamente colorate e di dimensioni che andavano da una biglia a una pallina da tennis. Barattoli pieni di cubetti di ghiaccio, conchiglie e uova in grafite di niuhi tenevano fermi i retini. Dentro una teca di plastica, sporche di terra umida e grosse quanto dita umane, delle larve di minhocão si arrampicavano le une sulle alte o scavano tunnel nel terriccio.

Poi, appena cambiai angolazione, vidi che dei fili quasi invisibili erano arrotolati intorno alle enormi zampe da ragno del mercante. Quando sollevai lo sguardo scoprii che erano legati alle zampe delle fenici appollaiate sulla cima dell'acquedotto e del--

«Quello è un grifone?» esclamai strabuzzando gli occhi, ma Amelia non era lì a rispondermi. Per un attimo temetti di averla persa, poi la scorsi intenta a frugare nelle ceste di vestiti del banco successivo e la raggiunsi di corsa.

«Non ho mai visto niente del genere!» affermai entusiasta. Probabilmente i miei occhi brillavano. Sollevai un abito a caso – un pantalone con un buco per la coda – poi mi resi conto che non era la cesta dei vestiti umani e lo lasciai ricadere.

«Questo posto...» di nuovo le parole mi tradirono, ma Amelia sembrò capire ugualmente. «Insomma, come fa ad esistere? Credevo...»

«Che siccome gli uomini hanno dimenticato il mondo sconosciuto tutto il resto sia stato cancellato?»

Non risposi.

«Non siamo criminali né spaventati da loro. Non siamo nascosti né in guerra. Viviamo in mezzo agli uomini come pesci tra gli anemoni. Alcuni ci conoscono, altri semplicemente non ci notano.»

Tornai a guardarmi intorno, il cuore che batteva forte. Un coboldo estrasse un cappotto da una delle ceste vicine alla nostra e fece cenno alla donna-ragno che si occupava del banco.

Amelia mi fece segno di riprendere a camminare. «È stata una delle opere buone dei mutaforma dopo la guerra,» La mia guerra, ero sicura che si riferisse alla mia guerra. «riaprire questo mercato dopo quasi due secoli.»

«Non esiste niente del genere altrove?» chiesi mentre sorpassavamo una kitzune che abbozzava il ritratto di di una ragazza in posa e un tatuatore umano alle prese con la schiena da coccodrillo di uno sheti.

«Oh, il mercato nero esiste ovunque. Ma qui è perfettamente legale.» Accarezzò l'acquedotto con lo sguardo. «Roma vivrà per sempre nell'ombra della propria storia,» continuò «ma almeno il suo cuore sconosciuto è stato risanato.»

Due banchi consecutivi esponevano libri usati, alcuni ordinatamente impilati e altri accatastati alla rinfusa, in molte più lingue di quante una persona potesse conoscere, ma nessuno in arcaico. Ne soppesai uno con un fenicottero sulla copertina e lo portai al naso. Sapeva di carta vecchia e inchiostro secco, ma non di muffa. Sapeva di sale e menta.

Un gruppo di bambini zigzagò tra la folla inseguendo un fuoco fatuo. Noi riprendemmo a camminare.

«Mi dispiace che le circostanze siano avverse,» ammise Amelia «Roma era davvero il posto migliore una marchiatrice.»

Sussultai nel sentire quel nome pronunciato con tanta facilità e istintivamente mi guardai intorno per assicurarmi che nessuno ci avesse sentito.

«Non so cosa sia rimasto di lei» risposi alla fine, cercando lo sguardo della strega per assicurarmi che capisse. Mi strofinai il polso marchiato con la mano opposta, poi tirai giù la manica della giacca per coprirlo meglio.

«Non conosco l'arcaico,» rispose Amelia «ma so che eri morta e che ora non lo sei più. E vedo i tuoi occhi.» Sotto la luce delle torce e dei fuochi fatui le mie pupille dovevano essere tornate sottili. «So cosa sei.»

«Ho fatto ciò che dovevo per sopravvivere.» Dirlo ad alta voce mi fece sentire più leggera, ma rese anche le parole più vere che mai. «Non posso più cambiare ciò che sono diventata.»

La strega annuì. «Lo vedo. E spero che un giorno lo vedano anche altri.»

«Non stanotte, però.»

Ci fermammo alla bancarella gestita da una comeles con fragili ali da libellula e lunghe unghie di vetro. Amelia ispezionò l'assortimento di candele, filtri, oli vegetali, spezie e sacchetti pieni di insetti finché non trovò il suo infuso preferito. Litigò con l'arborea per la modalità di pagamento – la comeles accettava solo sementi, la strega aveva solo lire – poi proseguimmo oltre.

Sorpassammo qualche altro banco prima di fermarci di nuovo.

All'inizio pensai che l'arco fosse vuoto e che dovessimo solo passare dall'altra parte dell'acquedotto. C'erano delle scatole accatastate su un lato, alcune aperte per mostrare la tappezzeria e la bigiotteria di bassa qualità che vi erano contenute. Al centro erano stati impilate tre cassette di legno e un goblin vi sedeva a cavalcioni, i piedi vescicosi che oscillavano a qualche centimetro dal terreno e una mela mangiucchiata tra le dita con qualche falange di troppo.

«Ho degli anelli» disse il goblin con una voce roca e acuta allo stesso tempo. «Vuoi degli anelli?» I suoi occhietti vispi perquisirono Amelia dalla testa ai piedi prima che le rivolgesse un sorriso sdentato.

«Non voglio anelli» dichiarò la strega.

«Allora dei cuscini per le sedie!» trillò il goblin e per poco non si sbilanciò di lato.

«Non voglio cuscini.»

«Sei una streghetta difficile» brontolò lui dando un morso alla mela e assumendo un'espressione concentrata. «Sei qui forse per dei tappeti?»

«I tappeti mi interessano di più» rispose Amelia e il goblin ridusse gli occhi a due fessure.

Feci per chiedere spiegazioni ma poi mi ricordai che eravamo lì per trovare il modo di farmi tornare in Francia e mi limitai ad aggrottare le sopracciglia.

«Tappeti, eh? E che tappeti cerchi? Ho tappeti persiani! Sì, sì. E tunisini. E marocchini. Belli grandi, tanto grandi.»

«Mi serve un tappeto francese, anche piccolo.»

«Piccoli sono scomodi. Grandi--»

«Piccolo. Un tappeto piccolo» scandì Amelia con autorevolezza. «Francese. Provenzale sarebbe meglio.»

La conversazione proseguì a lungo e la mia attenzione fu attirata dal banco successivo. Sembrava vendere quasi unicamente gioielli di vario valore, ma ciò che mi colpì fu l'insegna appesa sopra l'arco.

"MARK" diceva.

Poteva trattarsi del nome del proprietario – doveva trattarsi del nome del proprietario – ma tutto ciò che la mia mente leggeva era la traduzione dall'inglese – "marchio".

Lanciai un'occhiata ad Amelia, ma la strega era ancora impegnata a procurarmi un biglietto per Arles – o forse un tappeto volante. Mi allontanai.

La bancarella era illuminata solo da vere torce e dietro al tavolo c'era solo un ragazzo che sembrava umano. Era giovanissimo, non poteva avere più di tredici o quattordici anni, con folti ricci neri e la faccia bruciata dal sole, magrissimo e con vestiti troppo grandi.

Mi rivolse un sorriso scocciato e basta. Non tentò di vendermi nulla. Si limitò a fissare il vuoto e giocherellare con una pallina tirata fuori dalla tasca.

Frugai tra gli amuleti riposti alla rinfusa in delle scatole di latta. Amuleti veri – pietre di più o meno valore marchiate in arcaico – erano praticamente impossibili da trovare. Quando vi passai sopra le dita, però, il mio sangue sembrò scaldarsi.

Mi fermai e sollevai un ciondolo a caso, il primo la cui catenina si districò dalle altre.

"Anti-fuoco" recitava l'incisione nera su pietra lavica. La scritta in arcaico era corretta. Le lettere della parola "fuoco" erano tutte ben delineate e il cerchio esterno che stava per "anti-" era praticamente perfetto.

Presi una manciata di amuleti da un'altra scatola e li osservai uno ad uno, sempre più inquieta. "Anti-ghiaccio" su un blocco di sale. "Fortuna" e "anti-zanzare" su trifogli e citronella imprigionati nella resina.

Li scorsi uno ad uno senza riuscire più a leggerli per quanto mi tremavano le mani. Cercai di controllarmi. Potevano essere scritti bene, ma non c'era modo di sapere se funzionassero davvero. Non c'era motivo di agitarsi.

E invece sì.

Me ne accorsi all'improvviso, capii che cosa mi aveva messa in allarme fin dall'inizio.

L'odore.

Mi portai la manciata di amuleti al naso e ispirai a pieni polmoni. Tra le erbe, le pietre e la resina c'era qualcos'altro. Ferro, sale e... Lucien. Era l'odore del suo sangue.

Persi la presa sulle catenelle che si rovesciarono sul bancone. Mi piegai in due e mi premetti una mano sullo stomaco mentre trattenevo dei conati di vomito.

«Ehi! Quelli sono roba buona!»

Cosa i mutaforma avessero fatto con il corpo di Lucien era un pensiero che avevo sotterrato nelle profondità della mia mente ma che in quel momento esplose in un gigantesco fuoco d'artificio, fervido e vivido, plasmato sui racconti che lui stesso aveva rianimato per me e alimentato dall'orrore e dal panico.

Avevano succhiato via il suo sangue dal suo corpo ancora caldo. Vi avevano intinto pennelli e armi. Avevano tracciato marchi in un arcaico barbaro e violato, sfruttato gli ultimi brandelli della sua essenza per rubargli delle ultime parole.

E per cosa? Per inutili oggetti da bancarella o immobili pezzi da collezione.

Cos'altro?

Lo avevano squartato come macellai? La sua pelle scuoiata era ora impagliata e conservata come un orrido trofeo di caccia? Le sue ossa gli erano state strappate? Che forma avevano adesso, di armi o di gioielli? E il resto della sua carne? Si erano limitati a dissezionarla e scoprire che non era diversa da quella umana? O l'avevano divorata pezzo dopo pezzo, nella vana speranza di potersi trasformare a loro volta in marchiatori – gli unici esseri in cui i mutaforma non potevano piegare la propria pelle?

«Elle?» La voce di Amelia sembrava lontana anni luce, un'eco di galassie lontane. «Elle

Le sue mani furono sulle mie spalle e mi accorsi di essere a terra, le gambe piegate sotto il mio corpo, la schiena appoggiata ad una gamba del bancone e le braccia premute contro il petto e il ventre.

«Cos'è successo?»

«Niente. Stava guardando della roba.»

«...Lorelle...»

«C'è qualcosa di velenoso qui?»

«Non ti permettere, strega. Non avveleno i miei clienti!»

Tornai alla realtà e cominciai a tremare. Ero nauseata e sconvolta e esausta dalla mia stessa immaginazione. «Sto... sto bene» biascicai.

«Cos'è successo?» Amelia mi stava aiutando ad alzarmi.

Scossi la testa in risposta, cercando di scuotere via i miei pensieri allo stesso tempo. Ero a Roma, in mezzo ad un mercato. Ero viva. No ero più una marchiatrice.

«...Lorelle...»

«Mi dispiace» dissi voltandomi verso il ragazzo della bancarella, praticamente arrampicatosi sul suo stesso banco per vedere dove fossi caduta.

Registrai diverse cose contemporaneamente. C'erano i passanti incuriositi e le mille espressioni diverse sul volto del ragazzo. Ma i miei occhi trovarono la pallina che gli stava scivolando fuori dalla tasca.

L'attimo prima di prenderla al volo perché non cadesse, notai gli occhi in mezzo al pelo corto, la contrazione di quel corpicino durante il salto.

La puffola – la mia puffola – balzò a terra e rotolò verso un borsone in un angolo dell'arco.

Immaginai una parte di me stessa – vidi una parte di me stessa – tuffarsi dall'altra parte del bancone per recuperare puffola e borsona, un'altra scaraventare lontano tutti gli amuleti e mandarli in frantumi contro l'acquedotto e un'altra ancora prendersela con il ragazzo e colpirlo e supplicarlo finché non mi avesse come aveva ottenuto quegli oggetti e cosa sapeva.

«...Lorelle...»

Rimasi immobile invece, il sangue ghiaccio nelle mie vene. «Sto bene» ripetei, stavolta con tanta decisione che convinsi anche me stessa.

Ero viva. Non ero più una marchiatrice.

Mi costrinsi ad incontrare lo sguardo del ragazzo e a cancellare ogni traccia di orrore dalla mia espressione. Per quanto ne sapevo questo ragazzo stesso poteva essere un mutaforma. Questa poteva essere una trappola.

«C'è... c'è per caso della nepeta cataria qui?» La domanda di Amelia colse il ragazzo alla sprovvista. «O della valeriana?» Accennò prima agli amuleti e poi al resto del banco.

Sentii il battito del mio cuore accelerare e il mio petto riempirsi di gratitudine nei confronti della strega. «Qualcosa che possa far male ad un gatto?» aggiunsi, annuendo.

Il ragazzo sbatté le palpebre una paio di volte, all'inizio confuso, poi sorpreso. Tornò a fissarmi con le sopracciglia sollevate. «Un gatto?»

Non risposi, mi limitai a fissarlo intensamente, aspettando che cogliesse come la luce delle torce rendesse sottili le mie pupille.

«...Lorelle...»

«Io... suppongo di sì. Mi dispiace.»

«È tutto a posto» gli assicurò Amelia. Con la mano sulla mia spalla mi spinse a muovermi per allontanarmi, ma i miei piedi non si mossero.

I miei occhi tornarono al borsone di chimera come se dita fantasma avessero delicatamente ruotato il mio viso. Questa volta, però, osservai cosa vi era contenuto.

Nelle pieghe di pelle nera giaceva un piccolo tesoro che brillava alla luce pulsante delle torce. Non riuscivo a identificare delle forme precise, ma ogni oggetto aveva superfici lucide, curve fluide e angoli affilatissimi. Rispetto all'ambiente circostante, smussato dal buio della notte e ingiallito della torce, avevano una nitidezza che feriva gli occhi.

E qualcosa in quel mucchio mi stava chiamando.

«Cosa c'è lì?»

Il ragazzo esitò, intenzionalmente. «Cosa credi che ci sia?»

«Elle, dobbiamo andare.» Mi scrollai di dosso la mano di Amelia.

Il ragazzo prese il borsone e lo issò sul bancone producendo rumore di metallo contro metallo. Con un gesto mi invitò ad osservare più da vicino.

Alcune erano spade o daghe. Altre coppe. Altri bracciali o anelli. Un paio di occhiali. Delle penne, piccole giare e spille di varie dimensioni. Avevano colori diversi, ma la stessa lucidità e lo stesso modo distorto di riflettere la luce come se si trovassero sott'acqua.

«...Lorelle...»

Allungai la mano sinistra e la immersi nel mucchio prima che il ragazzo potesse notare il mio marchio. Non avevo ancora toccato il fondo quando con uno scatto qualcosa si chiuse intorno al mio polso.

«...Lor--»

Non mi ero resa conto, prima, che mi girasse tanto la testa. O che fossi così tesa. O che ci fosse stata una voce a chiamarmi da quando mi ero avvicinata al banco. Ma appena quella morsa fredda mi baciò la pelle qualcosa scattò dentro di me e tutto tornò tranquillo, fermo, silenzioso. Il mondo intorno a me era tornato quello di sempre.

Estrassi il braccio. Un bracciale troppo stretto per essere passato per la mia mano era avvolto intorno al mio polso, abbastanza spesso da nascondere completamente il marchio. Lungo la sua superficie argentata, in una calligrafia spessa e rotondo spaventosamente simile alla mia, era incisa un'unica parola – un nome.

«Caliane» lessi. Passai le dita sulla scritta e avvertii in contatto come se il bracciale fosse parte di me e potessi sentire i polpastrelli attraverso il metallo. Trattenni il fiato. «È normale?» esclamai.

Dopo un momento, il ragazzo annuì.

«Elle, non abbiamo più molto tempo» mi informò Amelia. Sopra le nostre teste, il cielo aveva cominciato a schiarirsi.

«Hai ragione» ammisi. «Quanto volete?» chiesi al ragazzo premendomi il bracciale contro il petto. Con un attimo di ritardo mi resi conto che non avevo nulla con cui pagarlo, ma non mi sarei sfilata quel bracciale. Era mio – e quella era una certezza inconfutabile quando infondata.

«Non ha un prezzo» rispose lui scuotendo la testa.

«Vorreste levarmelo?» Il tono di sfida nella mia voce sorprese anche me.

«Neanche per sogno!» fu la sua reazione, come se avessi detto la cosa più assurda del mondo. «Quello è un djinn, o jinn se preferite.»

«Un oggetto in cui delle chimere hanno intrappolato un'anima» tradusse Amelia.

«Trovano da sé il loro padrone» continuò il ragazzo. «Sarebbe illegale vendervi un djinn che è già vostro.»

Lucien mi aveva parlato di simili manufatti, ma ancora una volta la realtà dei suoi racconti mi lasciava stupefatta.

«Allora non c'è nient'altro che ci trattenga» affermò Amelia.

Salutai il ragazzo con un sorriso, poi mi voltai e seguii la strega, il mio sollievo che si accresceva ad ogni passo.

La luce stava aumentando velocemente. Le torce venivano spente una dopo l'altra e fuochi fatui messi a riposare nelle ceste. I commercianti cominciarono a smontare i loro banchi.

Amelia ed io proseguimmo fin dopo l'ultima bancarella e oltre, dove gli archi diventavano troppo bassi e murati.

Il goblin dei tappeti ci aspettava seduto sul primo gradino di una scaletta che permetteva si scavalcare l'acquedotto. «Un tappeto piccolo provenzale» gracchiò appena fummo abbastanza vicine.

«Precisamente» confermò Amelia.

«Vieni a riscuotere il tuo tappeto allora.»

«Non è per me» disse lei mettendomi una mano sulla spalla.

Il goblin sorrise. «Lo so che a te non piacciono i tappeti.»

«Mi accontento della mia casa così com'è.»

Il goblin balzò in piedi e Amelia mi prese per entrambe la spalle, costringendomi a guardarla negli occhi. «Il nostro tempo è stato poco, mi dispiace.» Mi accarezzò una guancia. «So che la mia fiducia nei tuoi confronti sembra immeritata, ma è sincera.»

Mi presi un momento per assimilare le sue parole, poi abbozzai: «Forse ci conoscevamo già nel futuro e non c'era bisogno di presentazioni.»

Rise. Poi mi abbracciò e mi tenne stretta.

Con un moto di meraviglia mi resi conto che nessuno mi aveva mai abbracciato così prima. Non Lucien di sicuro.

«Sai sempre la benvenuta nell'ambasciata di Roma, Elle» sussurrò contro il mio orecchio. Poi mi lasciò andare, mi regalò un delicato bacio sulla fronte e fece un passo indietro.

Seguii il goblin fino alla cima delle scale. Da lì, invece di scendere dall'altra parte, passammo da sotto il corrimano sull'attico dell'acquedotto.

Il goblin mi indicò delle pietre sporgenti che formavano una rudimentale scale verso una sporgenza laterale dell'acquedotto nella quale si poteva entrare.

Mi guardai indietro solo la una volta, quanto bastava per vedere Amelia annuire, poi mi infilai dentro l'acquedotto.

M ritrovai in un corridoio lungo solo qualche metro e aperto da entrambi i lati. Escluse le uscite, non c'erano aperture da nessuna delle due parti, né verso l'esterno né verso l'interno dell'acquedotto e gli antichi condotti dell'acqua. Solo mattoni.

Stavo per tornare indietro e chiedere spiegazioni – sempre che Amelia e il goblin non se ne fossero già andati – quando notai il pixie seduto a terra, al centro del piccolo passaggio.

L'arboreo registrò la mia presenza con un cenno del capo, poi mi ignorò completamente.

Mi sedetti a terra a mia volta – il soffitto era così basso che la mia testa lo sfiorava. Sotto terra, formiche e vetri rotti, il pavimento era liscio e solido, quasi nuovo.

Passarono appena un paio di minuti, poi sentii il rumore di qualcosa di grosso che rotolava all'interno del condotto. Aggrottai le sopracciglia e rimasi in attesa.

Una parte della parete di mattoni davanti a noi scivolò di lato come una porta scorrevole, rivelando una gallerie e dei binari dove una volta doveva scorrere l'acqua.

Delle strisce fosforescenti tinsero di verde l'aria intorno a noi.

Un attimo dopo un'enorme sfera di pietra scivolò sui binari e si fermò davanti a noi. Il pizie balzò in piedi mentre la metà superiore si apriva in quattro rivelando un unico posto a sedere all'interno. In pochissimi istanti l'arboreo fu dentro, la sfera si richiuse e scivolò oltre. Il muro di mattoni davanti a me si richiuse.

Annuii tra me e me. Dovevo solo aspettare il prossimo trasporto. Non avevo idea di quanto ci sarebbe voluto, ma non avevo poi molto altro da fare che aspettare.

Appoggiai la schiena al muro dietro di me e appoggiai le braccia alle ginocchia piegate. Il bracciale intorno al mio polso era ormai delle stessa temperatura del mio corpo. Premendovi le dita potevo sentivi attraverso il mio stesso battito, eppure non lo sentivo ancorato alla pelle diversamente da un normale gioiello.

Caliane, pronunciai nella mia mente. E il bracciale – il djinn – mi sentì. Si mosse sulla mia pelle per sistemarsi meglio, come un serpente che stringeva le sue spire. Percepivo la sua coscienza con una chiarezza disarmante. Si stava sovrapponendo alla mia, ma non ci saremmo fuse. Ci stavamo solo... sincronizzando.

Il metallo cominciò a muoversi come una massa fluida e densa, cambiando forma in continuazione. Si allungò, colando per tutto il mio braccio, avvolgendolo e girandoci intorno, abituandosi al contatto e lasciandosi dietro una scia di cellule cariche di elettricità statica.

Raggiunse la mia mano e scivolò sul mio palmo, si avvolse intorno alle dita, zigzagò tra le nocche. Accarezzò il mio marchio con una delicatezza inaspettata.

Come facevano le chimere a intrappolare le anime alla materia? Caliane aveva sofferto? Qual'era la sua storia? Com'era arrivata a me? Perché era destinata a me?

Cosa la rendeva mia?

Non ricevetti nessuna risposta. Sospirai. Evidentemente non era questo il tipo di comunicazione che potevamo intrattenere.

Misi le mani a coppa. Allineata con i miei pensieri, Caliane formò una sfera nella conca dei miei palmi. Provai a farla rotolare a terra, ma rimase attaccata alla mia pelle come se fossi io il suo centro gravitazionale.

«Lorelle Overlord?»

Trasalii, e Caliane tornò intorno al mio polso con uno scatto.

Una sagoma si stagliava in uno degli ingressi, un ritaglio nero contro il cielo sempre più chiaro alle sue spalle. Era il ragazzo degli amuleti – lo seppi prima ancora di riconoscerlo.

«...Mark?» azzardai.

Il sangue mi si era gelato nelle vene appena avevo sentito pronunciare il mio nome per intero. Amelia aveva sempre usato solo "Elle" e l'unico che conosceva il mio cognome era chi l'aveva ideato per me, Lucien.

«Come puoi essere viva?»

La sua voce sovrastava appena i battiti del mio cuore.

«Forse non importa» concluse da solo, a bassa voce, quando fu chiaro che non avrei risposto. Non riuscivo a vedere la sua faccia dato che il suo corpo schermava la poca luce esterna, ma sentivo i suoi occhi su me. Soppesandomi.

«Sei un mutaforma?»

«Sei la marchiatrice?» La sua non era davvero una domanda. E nemmeno la mia.

"Come?" avrei voluto chiedergli, "Come lo sai? Dove ho sbagliato?"

Lucien era morto. Amelia era mia amica. Due affermazioni vere solo perché volevo che lo fossero. Eppure inconfutabili.

Mi alzai evitando movimenti bruschi e Mark si chinò. Nel momento in cui le sue mani toccarono terra la sua sagoma si deformò senza sforzo in quella di un lupo.

Sentii il fantasma di un pianto annidarmisi nella gola e dietro gli occhi. «Non deve per forza andare cos--»

Mi fu addosso e mi scaraventò a terra. La mia testa sbatté e rimbombò.

Caliane avvolse la mia mano in un guanto di metallo e sferrai un pugno che aveva il doppio della forza. Sentii il rumore di ossa che si spezzavano e un gemito animale, ma il mutaforma si scrollò di dosso dolore e frattura nel tempo di un respiro e mi fu addosso di nuovo.

Rotolai di lato, ma lo spazio era troppo angusto per sfuggirgli del tutto. Mi afferrò con mani né da bestia né da uomo. Scalciai e urlai mentre mi trascinava verso un'uscita.

Caliane mi aiutò. Diede forza al mio braccio mentre si condensava in un pugnale nella mia mano. La conficcai alla cieca nel corpo del mutaforma che gridò e mi lasciò andare.

Indietreggiai e mi sedetti sui talloni.

Non poteva volerci molto per il trasporto arboreo, Amelia non mi avrebbe lasciata così tanto tempo da sola. Dovevo tenere duro. Forse era solo questione di minuti.

Forse non avevo minuti.

Quello che sentivo era il rumore di qualcosa che rotolava?

«È inutile combattere!» ruggì il mutaforma, lupo, uomo e nessuno dei due. La sua carne era fluida, la sua pelle un velo pronto a cambiare. «Non puoi scappare.» Sentivo delle voci all'esterno. «Ti troveremo sempre, marchiatrice.»

Oh in quel momento avrei combattuto fino a morire di fatica piuttosto che arrendermi. Se combattere significava vivere anche solo un secondo in più allora avrei combattuto, avrei strappato al mio fato quei secondi con le unghie e con i denti.

Ma non avrei avuto speranze contro un mutaforma nemmeno se fossi stata ancora una marchiatrice.

Quando mi attaccò di nuovo non era che una nuvola di carne e sangue. Non mi afferrò, mi avvolse e la sua morsa mi soffocò e stritolò e dilaniò. Era lupo e piovra e avvoltoio.

Artigli mi inchiodarono alla parete, braccia mi tagliarono il respiro, zanne mi affondarono nella spalla e nel collo.

Il dolore fu così intenso che il mio grido fu senza voce.

Lo sentii ritrarsi per paura del mio sangue – forse l'unico motivo per cui non mi aveva ferita prima – ma ormai ne aveva assaggiato il sapore sulla lingua.

Esitò. E di nuovo ebbe occhi e faccia e corpo.

La parete accanto a me scivolò di lato e la luce verde si riversò nel corridoio.

Il mutaforma non mi era più addosso, ma rimasi appoggiata alla parete. Incapace di parlare, mi portai una mano alla clavicola, da dove sentivo il sangue zampillare fuori dal mio corpo. Caliane scivolò sotto le mie dita andando a tamponare la ferita, ma avevo già perso troppo sangue e c'erano tanti altri piccoli tagli su tutto il mio corpo. Troppi. Sentivo già un senso di vuoto allo stomaco.

Spostai lo sguardo sul mutaforma, di nuovo umano. Lui fissava la mia mano. Il sangue rosso di cui era sporca e il marchio sul polso, il numero 5 che proprio in quel momento si stava illuminando e preparando a cambiare.

La sfera di pietra – il passaggio arboreo – era arrivata. La sentii aprirsi, ma non voltai il viso per controllare. Le mie gambe mi avrebbero retto ancora per poco. La mia testa era troppo leggera.

Fissai gli occhi nei suoi. Ero stata attenta a non farlo prima, perché tramite contatto visivo i mutaforma potevano prendere le sembianze di ciò che la loro vittima temeva di più. O amava di più.

Forse ero curiosa di vedere in cosa si sarebbe trasformato. Forse ero solo troppo stanca per trattenermi. Tutto ciò che pensai in quel momento, però, era che volevo vedere la faccia del mio terzo assassino – e forse anche del primo.

Stava per scattare di nuovo nella mia direzione. Invece gemette e rotolò a terra mentre la sua carne si modellava in una nuova forma. Non riuscii a capire quale. Sembrava umana, ma continuava ad alternarsi con quella animale e la mia vista si stava appannando.

Mi inclinai di lato e mi rovesciai all'interno della galleria. Riuscii ad aggrapparmi alla sfera e mi issai all'interno, atterrando su un fianco e rannicchiandomi sul fondo. La sentii chiudersi sopra di me e smorzare la luce. Avvertii solo vagamente che cominciava a muoversi.

Non vedevo niente, ma non ero sicura che fosse buio. La testa mi girava violentemente. Non riuscivo a concentrarmi. Volevo... piangere? Urlare?

Non riuscivo... non riuscivo a trattenere i pensieri.

Ero-- stavo--

Riconoscevo i sintomi della morte con una familiarità che avrei preferito non avere. Dannazione! Cosa me ne facevo di altre vite se duravano poche ore e dovevo passarle a scappare? Dove mi sarei svegliata?

Caliane continuava a premere sulla ferita, ma i miei vestiti erano sempre più bagnati. Quando il marchio sul mio polso cominciò a bruciare per diventare un 4, la djinn scivolò di nuovo lungo il mio braccio e tornò ad essere un bracciale.

Alla prossima vita, salutai la mia nuova compagna.

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