·3·1· Le verità
La vita scivolò di nuovo nel mio corpo all'improvviso. Mi gonfiò di aria i polmoni, mi spremette il cuore e mi accese il cervello con una scarica. Il tutto in un unico spasmo di dolore.
Un attimo prima non ero che carne spenta, un corpo inerme intento ad una lenta decomposizione al contrario. Un attimo prima non c'ero.
L'attimo dopo ero sveglia, dolorante, pensante.
Da cadavere a persona era questione di un respiro.
Tossii e gemetti mentre l'aria mi riapriva i polmoni con tanti piccoli strappi. Mi contorsi e i miei muscoli bruciarono mentre il sangue tornava ad ossigenarli.
Il mio ultimo ricordo, vicino e vivido, era il combattimento con Clothilde sullo scoglio. Mi ero già portata le mani al collo, lì dove le sue braccia mi avevano stretta, ma trovai solo la mia pelle.
Riuscii finalmente a prendere un respiro indolore e a ritrovare lucidità.
Non ero più sullo scoglio, non ero più in mare, non ero più con Clothilde. Mi aveva uccisa, ora ero di nuovo viva. Nella mia mente non erano passati che pochi istanti, ma era impossibile sapere per quanto tempo effettivamente fossi rimasta morta.
Quella del risveglio dopo la morte era una sensazione a cui non mi sarei mai abituata del tutto. La parola risveglio, in realtà, era assolutamente inappropriata – il dolore del primo respiro, lo spaesamento, la scarica di coscienza e la velocità con cui avveniva tutto mi facevano pensare ad una vera e propria rinascita.
In ritardo la mia mente registrò anche gli impulsi visivi e mi resi conto di essere al buio. Poi gli odori – ero al chiuso. Poi i suoni – ero sola.
Mi rilassai di colpo e rimasi distesa sulla schiena in attesa che i miei occhi si abituassero all'oscurità.
Lentamente un cielo stellato cominciò a definirsi sopra la mia testa. Per un momento mi illusi di essere nelle segrete della Reggia, nella mia stanza, al sicuro. A casa. Per un momento mi dissi che era stato tutto un brutto sogno.
Poi notai un riflesso – il segno che uno strato di vetro mi separava dal cielo vero – e che la posizione delle stelle non mi era familiare. Senza sapere che periodo dell'anno fosse era praticamente impossibile capire dove mi trovassi, e viceversa.
Mi sollevai sui gomiti e mi guardai intorno. Ero distesa su una chaise longue al centro una stanza quadrata grande quanto un soggiorno. Sue tre lati c'erano finestre a parete che davano su un unico ampio terrazzo, sul quarto muro si apriva una porta ad arco.
C'era un'altra chaise longue di fronte alla mia, per il resto la stanza era arredata da lunghi tavoli da ufficio, cassapanche, basse librerie e un paio di teche con vecchie bussole e antichi sestanti.
E telescopi – di tutte le forme e dimensioni, alcuni troppo avanzati per essere umani.
Mi tirai su a sedere, poi mi alzai in piedi. Registrai che il pavimento era ricoperto di moquette, ma tenni gli occhi fissi verso il cielo.
Credevo di conoscere le stelle, ma avevo sempre fissato solo una riproduzione artificiale. Era come dire di sapersi relazionare con le persone solo per aver giovato con le bambole.
Il mio cuore batteva forte.
Il rumore meccanico, di qualcosa scatta, mi fece sobbalzare. Mi voltai in tempo per vedere la porta ad arco aprirsi.
Una figura entrò nella stanza e accese un interruttore prima che potessi metterla a fuoco. La luce di una lampada da scrivania mi accecò e d'istinto mi voltai, una mano premuta sul petto e l'altra a schermarmi gli occhi.
«Oh perdonami.» La luce si affievolì.
A parlare era stata una voce femminile calda e gentile, in un italiano con uno strano accento vibrante.
Sentii le pupille restringersi e mi girai di nuovo.
Davanti alla porta c'era una donna minuta dai marcati tratti sudamericani che avrebbe potuto avere qualsiasi età tra 20 e i 50.
Le lanciai una prima occhiata puramente pragmatica, poi una seconda più interessata.
C'era qualcosa di insolito ma stranamente accomodante in lei. Indossava una larga veste di lino chiaro e un'unica collana di perle di legno, i capelli scuri erano chiusi in due lunghe trecce.
Era bella – non di una bellezza adolescente e formosa, ma di un fascino più grezzo. Quando mi sorrise, mi sentii subito più tranquilla.
«Alla fine ti sei svegliata davvero» disse con delicatezza.
«Dove sono?» fu la prima cosa che chiesi.
«Questa è l'ambasciata sconosciuta di Roma» rispose la donna con un certo orgoglio. Sorrise di nuovo. «Benvenuta.»
Decine di campanelli suonarono nella mia testa. Le ambasciate del mondo sconosciuto erano sparse su tutto il pianeta, erano un rifugio sicuro per tutti coloro che volevano tenersi alla larga dagli umani inconsapevoli, dai mutaforma, dagli arborei. Erano luoghi di mezzo, in cui nessuno aveva giurisdizione e in cui persino i criminali non potevano essere arrestati – le uniche leggi che vigevano erano quelle del rispetto del luogo e degli altri ospiti.
Secondo Lucien però tutto questo non era mai stato sufficiente. La notizia della nostra permanenza in un'ambasciata si sarebbe diffusa velocemente e quale ambasciatore avrebbe fermato i mutaforma dal catturarci o qualsiasi altra creatura dall'ucciderci di propria iniziativa?
«Come sono arrivata qui?»
«Ti abbiamo trovata su una spiaggia del litorale laziale due mesi fa.» Notai che la donna non si era avvicinata, ma non sembrava intimorita da me. Forse stava solo cercando di non risultare invadente. «Mio fratello è un veggente» aggiunse dopo un momento, «erano anni che mi parlava di questo momento.»
Due mesi fa. «Che giorno è oggi?»
«30 ottobre» rispose prontamente. «Da pochi minuti.»
«Del 1960?» mi assicurai.
Trattenne una leggera risata e annuì.
«Sapevate che mi sarei svegliata oggi?»
«Non esattamente. Sapevo che ti saresti svegliata di notte, in questa stanza, in autunno. Questo è quello che mi ha detto mio fratello.»
«Tu non sei una veggente?» Le mie domande si susseguivano sempre più rapide.
«Sono una strega.» Fece un cenno di saluto con il capo. «Mi chiamo Amelia De Angelis.»
Capii dal suo sguardo che si aspettava che ricambiassi. «Lorelle» risposi, senza riuscire ad inventarmi prontamente un cognome. «Sono...» esitai.
Cosa avrei dovuto dire? Che ero una marchiatrice?, no escluso, specie se non lo ero più. Una marchiata?, ma avrei dovuto raccontare la mia storia. Una gatta?, una risposta così semplice era abbastanza?
«So cosa sei» sussurrò Amelia e nonostante avesse parlato a bassa voce, nel suo tono non c'era timore, solo gentilezza. Per la prima volta fece dei passi verso di me. Mi irrigidii ma non mi ritrassi. «Ti ho cambiata.»
Il mio cuore perse un battito. La mano che tenevo ancora premuta sul petto si strinse intorno alla stoffa che indossavo e abbassai lo sguardo.
Non erano i miei vestiti.
Rialzai lo sguardo sulla donna, per la prima volta seriamente allarmata dalla sua presenza.
Cosa sapeva? Cosa credeva di sapere? Cosa aveva visto?, solo il marchio sul mio polso?, il mio ventre senza ombelico?, come spiegava il fatto che fossi morta e ora di nuovo in vita?
Si sedette sulla chaise longue di fronte alla mia. Io rimasi in piedi.
«Non temere bambina, nessuno sa che sei qui.» Non avrei dovuto, ma le credetti. «Mi fido di mio fratello quando dice che non ci farai mai del male. E del mio istinto che non sei pericolosa.»
Mi sedetti, improvvisamente sentendomi davvero una bambina. Abbassai lo sguardo e adocchiai la piccola cicatrice sul mio polpaccio lasciata dal dardo dei mutaforma. Nemmeno due morti erano riuscite a cancellarla.
«Sono certa che la tua è una storia interessante.»
«Che voi sapete già?» azzardai.
Scosse la testa. «Non c'è alcun modo in cui io possa conoscere il tuo passato. E per quanto riguarda mio fratello, può vedere solo ciò che lo riguarda. Sapeva quando ti saresti svegliata perché lo incontrerai tra poco. Del tuo futuro può dirti solo quante volte ancora vi rivedrete.»
Incrociai le braccia al petto come se sentissi freddo. Le domande che affollavano la mia mente erano così tante che non sapevo nemmeno da dove cominciare.
Come ero arrivata sulla costa laziale? Possibile che le sirene avessero lasciato galleggiare il mio corpo fino a riva? Cosa avrei fatto adesso? Dove sarei andata?
Il mio maestro era morto. I miei marchiati erano morti.
Ero definitivamente sola.
Forse dovevo solo aspettare che i mutaforma mi venissero a prendere. Prima o poi sarebbero arrivati.
Mi sentii fredda e vuota. Il disperato istinto di sopravvivenza che mi aveva tenuta in piedi mentre affrontavo Clothilde era solo un lontano ricordo.
«Hai bisogno di riposare» disse la Amelia.
Scossi la testa. «Ho riposato abbastanza.» Essere morta quantomeno non era stancante. «Però ho fame» ammisi timidamente dopo un po'. Cercai di ricordare l'ultima volta che avevo mangiato qualcosa. Per tutta risposta il mio stomaco brontolò rumorosamente.
Amelia si alzò prontamente e mi fece segno di seguirla fuori dalla stanza. Scendemmo una scala a chiocciola vetrata e mi sforzai di guardare fuori nonostante il buio.
La struttura era circondata da prato. In lontananza vedevo anche degli alberi e poco lontano un muro di mattoni fatto di archi apparentemente senza inizio e senza fine. Un antico acquedotto romano, realizzai dopo un momento, l'ambasciata doveva trovarsi all'interno del parco degli acquedotti.
«Questo luogo non è troppo esposto per un'ambasciata sconosciuta?» chiesi raggiungendo Amelia.
«Deve essere facilmente accessibile a chiunque ne abbia bisogno» replicò la strega. «E comunque un incantesimo impedisce che l'edificio sia visibile dall'esterno, non ci si può arrivare per spaglio.»
«Un tuo incantesimo?»
«Oh no!» La sola idea sembrava risultarle divertente. «È una magia molto più antica di me, plagiata da un mago insieme alle fondamenta.»
Raggiungemmo il primo piano e mi lasciai guidare attraverso una sala ristorante completamente vuota fino alle cucine.
Lì tutte le luci erano accese e un ragazzo che probabilmente sfiorava i due metri si aggirava dietro uno dei banconi canticchiando a bocca chiusa. Quando ci vide entrare il suo volto si illuminò.
«Mel, Lorelle, vi stavo aspettando!» esclamò. Indicò le sedie davanti alla penisola alla fine del bancone, poi ci diede le spalle.
«Lui è mio fratello» spiegò Amelia andandosi a sedere. «Xerxes.»
«Ciao» fece Xerxes.
Il mio primo pensiero fu che non si somigliavano. Poi ricordai che erano di due specie diverse, quindi al massimo potevano essere fratellastri. Il genitore che avevano in comune doveva essere un mutaforma.
«È quasi pronto!» ci informò il veggente.
«Perché non ti sei fatto trovare pronto se sapevi che stavano arrivando?» lo prese in giro Amelia.
«Sapevo che non avrei finito in tempo» replicò il ragazzo mentre impilava tre bicchieri e li teneva fermi con il mento. «Sono un veggente, non un indovino» continuò mentre recuperava le posate da un cassetto. «Posso sapere in anticipo quando bollirà l'acqua, non quanto tempo ci vuole perché la pasta sia cotta al punto giusto.»
Scaricò posate e bicchieri sul ripiano davanti a noi e mi rivolse una rapidissima occhiata, come per assicurarsi solo che fossi seduta al posto giusto. Annuì una volta, rivolto a nessuno in particolare, e si voltò di nuovo.
Amelia rise mentre allineava i bicchieri.
Io aggrottai la fronte. «Perché non puoi vedere il momento giusto in cui scolare la pasta?»
«Ah, sapevo che lo avresti chiesto!»
Amelia alzò gli occhi al cielo.
Xerxes si guardò intorno in silenzio, in cerca di qualcosa, e per un momento pensai che non mi avrebbe risposto. Poi tirò fuori dalla tasca del grembiule un foglio piegato, lo aprì e lesse ad alta voce: «"perché l'ebollizione dell'acqua è un fenomeno indipendente da me a cui però posso assistere, il momento di cottura anche se lo vedessi non potrei riconoscerlo. Posso ricordare quando scolerò la pasta, ma non sapere se sarà cotta o no."» Sollevò la testa soddisfatto e infilò di nuovo il foglio nella tasca.
Amelia rise. «Te lo sei scritto?»
«Non è facile da spiegare.»
«Non sono sicura di aver capito» dichiarai.
«È perché sei a stomaco vuoto.» Xerxes mi mise davanti un piatto pieno di un poltiglia sconosciuta, una via di mezzo tra un polpettone schiacciato e un passato di verdure. Rimasi un momento interdetta.
«Xerxes!» protestò Amelia.
«Le piace, le piace» sbottò lui. «E per la cronaca no, non ho fatto davvero la pasta, mi serviva solo come esempio pratico. Tu ne vuoi un po'?» indicò il mio piatto.
Amelia scosse la testa e le perline di legno della sua collana sbatterono le une contro le altre a tempo.
«Donna senza fede» borbottò il ragazzo allontanandosi e tornando con un piatto per sé. Si sedette davanti a me e finalmente potei guardarlo in faccia.
Non era bello – i suoi tratti erano decisamente mal assortiti – ma l'attenzione che si rivolgeva al suo viso era attirata completamente dai suoi occhi, azzurri intorno alla pupilla ma per il resto di un violetto pazzesco.
Lo fissai imbambolata per qualche istante, poi, nel tentativo di fingere disinvoltura, mi infilai un cucchiaio di poltiglia in bocca. Mi irrigidii, ma poi sentii il sapore.
Era salato, di una consistenza che mi faceva pensare alle alghe, ma ero abbastanza sicura che fosse carne.
La mia bocca si allargò inevitabilmente in un sorriso mentre masticavo.
Xerxes sfoggiò un'espressione gongolante e lanciò un'occhiata soddisfatta ad Amelia. «È una ricetta arborea.»
«Chi te l'ha insegnata?»
«Un goblin che verrà qui tra un paio d'anni.»
«Che camera vuole?»
«Non ne ho idea. Ricordo solo che si lamenterà del cibo e verrà qui a dirmene quattro.»
Io mi resi conto che stavo fagocitando poltiglia senza nemmeno provare a masticare e cercai di darmi un contegno. Xerxes si sporse di lato e mi passò un tovagliolo prima che mi guardassi intorno per cercarlo.
«Quando dici che ricordi solo quello» chiesi mentre mi pulivo, «intendi che hai dimenticato il resto della visione?»
Lui fece per rispondere, poi sollevò un dito per dirmi di aspettare e recuperò il foglio piegato dalla tasca. Attesi che trovasse il punto giusto da cui leggere. «"I veggenti non hanno visioni come in certi film umani, in cui si concentrano e hanno dei flash a caso di eventi futuri. La nostra è una vera e propria memoria al contrario. Gli eventi della giornata a volte rievocano in noi ricordi di cose che devono ancora succedere."»
«Questo significa che non ci sono momenti in cui rimangono impalati e con gli occhi spalancati come se li avesse colpiti un fulmine» intervenne Amelia. «Solo che ogni tanto se ne escono con frasi del tipo "ho sempre voluto provare quella ricetta di cui mi parlerà il goblin l'anno prossimo" oppure "mi dispiace che non ti piaccia il film che sta per cominciare" e cose varie. Oh, una volta mi ha detto "tuo marito mi ha fatto bruciare la torta" – avevano undici anni. La parte peggiore è quando non ricorda se certe cose sono già successe oppure no.»
Annuii mentre ingoiavo un'altra cucchiaiata di poltiglia. «Mi piace l'idea della memoria al contrario.»
«Lo so» fece Xerxes. «Anche a me.»
«Spiega bene come mai possiate vedere solo cose vi riguardano» aggiunse Amelia. Accennò con il mento al foglio che Xerxes teneva ancora in mano. «Cos'altro hai scritto?»
«"Non te lo dico."» Xerxes scoppiò a ridere e girò il foglio per farci vedere che c'era scritto davvero.
Proprio mentre mi convincevo che essere un veggente dovesse essere più divertente di quanto pensassi, mi venne in mente un'idea molto più triste che anticipare delle battute. «Quindi ricordi già quando morirai?»
Abbandonai il cucchiaio nel piatto quasi vuoto. Lo sguardo mi cadde sul marchio sul mio polso, ormai a forma di 5.
Questa domanda sembrò cogliere Xerxes di sorpresa. Si incurvò sul proprio piatto e dondolò nervosamente sulla sedia prima di rispondermi. «Beh non è esattamente qualcosa che posso ricordare. E comunque a volte non riesco a mettere in ordine i ricordi di quando sarò vecchio, un po' come quelli da bambino. Ma saprò riconoscere il mio letto di morte, sì.» I suoi occhi viola si fissarono sulla sorella. «Ricordo quando moriranno tutti gli altri però.»
Amelia non sembrò particolarmente toccata dall'affermazione.
Xerxes rimescolò la poltiglia nel suo piatto.
Volevo chiedergli se sapeva quando sarei morta io. Se nonostante le cinque vite ancora a disposizione sarei sopravvissuta ancora a lungo. Ma a quanto pareva non erano il tipo di domande a cui poteva rispondere.
«Me ne andrò presto?»
Annuì mentre deglutiva, la sua risposta soffocata a metà. Si raddrizzò, sollevato, ma non sollevò lo sguardo. «Oh. Sì, in effetti sì. Stanotte stessa.»
Mi sentii sprofondare. «Così presto?»
«Ti accompagna Mel.»
«Ah sì?» fece la strega. «Allora vado a recuperare la borsa. Già che ci sono passo al marcato.»
«E dove andrò?» protestai mentre Amelia ci lasciava soli. Il mio cuore aveva cominciato a battere forte. «Lo sai?»
Il veggente mi fissò indeciso. «Un mio caro amico dice che ti ha conosciuta in Provenza. Un elfo.»
Mi sentii morire. «Vengo dal porto di Marsiglia» rivelai. Non poteva essere vero. Non potevo aver fatto quel viaggio a vuoto, aver perso una vita e tutti i mie marchiati solo per dover poi tornare indietro.
Xerxes scosse la testa. «Questo mio amico parlava di Arles. Sei mai stata ad Arles?»
Non c'ero mai stata. Mi sentii subito sollevata – quantomeno sapevo che ci sarei arrivata viva per conoscere questo misterioso elfo. «Tu hai già conosciuto questo caro amico?»
Il veggente rise. «No, credo proprio di no.»
Sospirai e finii di mangiare il mio piatto. «Vorrei restare almeno qualche altro giorno» ammisi. Mi chiesi quanto vincolanti fossero i suoi ricordi del futuro. Cosa sarebbe successo se fossi rimasta nonostante lui avesse previsto la mia partenza?
«Dei mutaforma saranno qui già domani mattina.»
Il mio desiderio di ribellione nei confronti del fato evaporò tanto velocemente quanto si era formato.
«E poi quella camera deve rimanere libera per il mio angelo bianco.»
«Chi?»
«Io la chiamo così. La conoscerai. Un giorno.» Aggrottò le sopracciglia. «Credo.»
«Noi due ci rivedremo?»
I suoi occhi viola si fissarono nei miei.
"Non me lo ricordo" probabilmente sarebbe stata la risposta peggiore.
«Non a breve» disse, pensoso. «Conoscerai Cornelio, il marito di Mel – sono già sposati, tranquilla. A lui non piaci, ma cercherà di non fartelo notare perché invece Amelia ti adora.»
«Tu ci sarai?»
Scosse la testa. «Me lo racconteranno.»
«Ti rivedrò?» insistetti.
Fissava il vuoto con espressione concentrata, ma non assente. Era lì con me, nel presente, non proiettato chissà dove nel tempo e nello spazio. Mai come in quel momento mi fu chiaro che le sue visioni non erano filmati proiettati nella sua testa, né sogni particolarmente vividi. Non venivano fuori all'improvviso, ma nemmeno erano sempre il suo primo pensiero. Erano sensazioni, immagini, suoni a cui nessuno avrebbe mai avuto accesso dall'esterno. Avremmo sempre ricevuto qualcosa di filtrato dal suo racconto, di concentrato sul suo punto di vista.
«I ricordi più vicini sono più nitidi, più mi allontano e più sono confusi. Il mio unico punto di riferimento è il mio angelo bianco» mi spiegò. «Se ci rivedremo sarò così anziano che l'ho dimenticato.»
Era una prospettiva allettante. Ma vaga quanto la promessa di chiunque altro.
Mi limitai ad annuire e a guardarlo attentamente, sforzandomi di memorizzare quanti più dettagli possibili del suo volto.
«Non credo che io mi dimenticherò di te.»
Quelle mie parole lo colpirono così tanto che non trovò il modo di replicare, né io nient'altro da dire. Finii di mangiare poco prima che Amelia tornasse.
La strega mi porse un cappotto marrone e delle scarpe di tela. Prese il foglio con gli appunti del fratello quando lui glielo porse e se lo infilò nella borsa.
Prima di uscire rimasi a lungo sulla soglia. Osservai quella cucina degna di un ristorante, fatta di legno imbiancato e metallo, di vetro colorato e ceramica decorata, ordinata e viva allo stesso tempo.
E osservai il ragazzo che mi guardava dall'altra parte di uno dei banconi, il grembiule ancora addosso e il cucchiaio di legno che girava nel piatto senza uno scopo. Curvo perché troppo alto, tranquillo perché consapevole di non poter essere colto di sorpresa.
E se restassi?
Ma io cosa potevo sapere cosa mi aspettava o a cosa avrei rinunciato? La mia scelta non era che tra due identici salti nel vuoto.
Mi voltai e sentii i suoi occhi viola sulla schiena, il suo sguardo che mi accompagnava fuori.
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