·1·1· Il maestro

Di solito quando si muore la coscienza scivola via lentamente. Si disgrega poco a poco mentre il corpo diventa troppo debole per trattenerla, come acqua che evapora dai panni stesi.

Se si tratta di morte violenta, però, è più come un vetro mandato in frantumi da un sasso. Rimangono schegge ovunque, sparse tra i cadaveri, così come le urla rimangono nell'aria anche quando le bocche tacciono. Alcune anime penso che rimangano addirittura all'interno dei corpi, inchiodate per sempre alle ossa come ombre impresse sui muri dalle radiazioni.

Non so cosa avesse di diverso quel massacro, quell'ennesima battaglia agli sgoccioli di una guerra ormai prossima a prosciugarsi. Forse fu solo la goccia che fece traboccare il vaso, il momento in cui la natura scelse di ribellarsi alle sue stesse regole. O forse fu solo una questione di probabilità, di possibilità antientropiche di abiogenesi.

Che fosse magia o fisica – se davvero le due cose vanno distinte – quella volta brandelli di cadaveri e pezzi di macerie si erano uniti a schegge di anime. Insieme, si erano plasmati in una nuova vita.

La mia.

Non lo ricordavo ovviamente, ma mi era stato raccontato decine di volte.

Me ne stavo lì, in un angolo, tra le radici morte di un enorme tronco reciso, semicoperta dalla stoffa di quella che una volta era una tenda. Non piangevo, non urlavo, mi muovevo appena, tentando di mettere a fuoco il mondo intorno a me. Non agognavo di essere trovata, non lottavo per la sopravvivenza. Non appartenevo a ciò che era stato appena distrutto. L'eco della battaglia mi circondava, mi avvolgeva, formava ciò che di me era ancora incompleto.

Poi, solo quando i sopravvissuti si erano fatti finalmente largo tra le strade, gioendo increduli che tutto fosse finito, qualcuno mi trovò.

Qualcuno che sapeva dove guardare. Che mi sollevò con mano ferma liberando il mio corpo dalla stoffa e dalla terra. Un uomo che riconobbe il mio ventre piatto, senza ombelico, e seppe che doveva portarmi via.

Un uomo che il 25 Agosto 1944 non aveva ancora 26 anni.

Che cosa ci facesse in Francia in quegli anni della guerra, che cosa ci facesse così vicino a Parigi e come avesse fatto a trovarmi, per me sarebbe rimasto un mistero. Come molto altro su di lui.

Mi piaceva rifletterci la mattina presto, prima di alzarmi dal letto, quando i miei occhi erano ancora assonnati e la mia mente ancora fresca dei sogni della notte. Ogni congettura mi risultava così affascinante che di certo la preferivo alla realtà.

Mi accarezzai il ventre piatto, naturale per chi non era stato concepito, per chi non era stato nel grembo di una madre.

Io ero la figlia della seconda guerra mondiale, così come Lucien era figlio della prima.

A quanto pareva nella Storia mai due della nostra razza erano vissuti nella stessa epoca. Ma nella Storia non c'erano mai state due guerre così cruente e di tale portata nel giro di così poco tempo.

Sospirai. Quando i miei pensieri mattutini prendevano questa piega, era il momento di alzarmi.

Aprii gli occhi e battei più volte le palpebre per mettere a fuoco. Non c'era luce.

Le lucciole che avevo catturato la sera prima dovevano aver trovato il modo di uscire dal loro barattolo, oppure erano morte. Sospirando, mi issai fuori dalla mia amaca. Non ero mai riuscita a dormire in un letto vero. Detestavo le coperte e preferivo essere rialzata rispetto a tutto ciò che avevo intorno quando dormivo.

I miei piedi nudi toccarono il terreno ruvido e lo riconobbero. Tastai la parete di roccia fino a trovare la cordicella che vi avevo lasciato la sera prima. La seguii finché la mia mano non toccò un quadro metallico appena fuori dalla mia stanza. Lo feci scorrere di lato e infilai le mani nel rettangolo aperto. Tastai delicatamente gli ingranaggi fino a trovare il sasso cubico che avevo usato per bloccarli. Erano pensati per non fermarsi mai e autoalimentarsi, ma avevo approfittato della solitudine per farli riposare e godermi il silenzio assoluto almeno durante la notte. Li sentii rimettersi in funzione gradualmente, finché il suono di sottofondo non fu quello di sempre. Di giorno mi tranquillizzava, ma di notte mi infastidiva.

Attesi ancora qualche istante, poi il soffitto cominciò ad accendersi. Quando guardai in alto mi ritrovai sotto un magnifico cielo stellato. Anche se creato meccanicamente, era più bello di uno vero. Incredibile.

Osservandolo, ritrovai a colpo sicuro tutte le costellazioni che conoscevo. Lucien mi aveva cominciato ad istruire sulle stelle molto prima che potessi comprenderle, quando tutto ciò che potevo fare, seduta sulle sue ginocchia, era fissarlo con i miei occhioni scuri.

Quello che stavo guardando, però, era il cielo di stanotte, quella appena passata. Prima di richiudere il pannello, mandai un po' avanti gli ingranaggi. La differenza poteva non sembrare molta, ma Lucien se ne sarebbe sicuramente accorto subito, e mi avrebbe rimproverata.

Mi stiracchiai. Erano tre mesi che non lo vedevo e stavo cominciando a prendermi le mie libertà. Ero salita di sopra, nella Reggia. Mi ero persino avventurata un po' nei dintorni di Versailles, ma per poco, perché avevo paura che Lucien tornasse da un momento all'altro e non mi trovasse.

Non si stancava mai di ripetermi quanti e quali pericoli mi attendessero fuori e sapevo che parte del fascino che il mondo esterno esercitava su di me era dovuto proprio ai quei pericoli, che sarei stata sempre attratta da ciò che non poteva avere – era umano. Solo che io non ero umana, ero una marchiatrice, io potevo resistere a certe tentazioni.

Ero uscita, comunque.

E non era stato né perché mi mancava l'aria, né per ammirare il paesaggio, né per l'ebbrezza di una fuga segreta. Era stato per i miei marchiati.

Nove in tutto.

Conquistati nel corso degli anni quali prove ultime di fiducia e autocontrollo. Ero grata a Lucien per avermi aiutato, per avermi impedito di crearne troppi, per avermi fermato ogni volta, per avermi evitato di divenire dipendente dal mio stesso potere.

Nove marchiati e tutti e nove sopravvissuti – a quanto pareva non era la normalità. Non mi vantavo di conoscerli bene, visto che parlavano con me solo se costretti ed evitavano ogni contatto come se fossi fatta di acido, ma non potevano allontanarsi da me e, esclusi gli occasionali turisti, erano gli unici oltre a Lucien con cui potessi interagire.

Lavoravano tutti nella Reggia e io mi divertivo a stuzzicarli, comparendo all'improvviso al loro fianco quando erano distratti o seguendoli per giornate intere come un cucciolo particolarmente fastidioso.

In fondo, cosa mai avrebbero potuto farmi? Di qualsiasi razza fossero, io ero più potente di loro e li avevo marchiati perché non potessero nuocermi.

Ridacchiai.

Lucien mi avrebbe definita "infantile", con quel suo tono seccato e distratto, ma cosa mai avrebbero potuto farmi tutti loro? Essere tanto potenti doveva darci almeno il privilegio di vivere indisturbati.

Lucien non era del tutto d'accordo visto che si ostinava a vivere nelle segrete sotto il parco. Segrete che si trovavano almeno venti metri più in basso di qualsiasi cella o cantina, segrete talmente segrete che probabilmente non le conosceva neanche la Reggia stessa.

Io detestavo vivere sottoterra, ma ci ero cresciuta, perciò bene o male ci ero abituata.

Tornando sui miei passi fino alla mia camera riordinai le cose che avevo sparso per terra la sera prima. Penna e quaderno erano finiti sotto l'amaca. Le pagine gialle e umide, più che scritte, erano bruciacchiate.

Lucien mi aveva avvertita che la nostra lingua aveva potere in tutte le sue forme, ma in sua assenza avevo provato a scrivere qualcosa che non fosse un marchio, con comunque inchiostro invece che non sangue.

Pessima idea. Peccato, mi piaceva guardare le parole in arcaico. Le trentasei lettere non erano altro che cerchi con ghirigori diversi da scrivere una intorno all'altra per formare le parole. Quasi tutte erano brevi e semplici, ma quelle più complesse erano vere e proprie opere d'arte. Le frasi non si estendevano in linee dritte, ma in spirali che partivano dal centro del foglio.

Quelle che la carta non poteva sopportare, come "fuoco" o "metallo" o semplicemente i nomi di animali, avevano lasciato solchi carbonizzati o strappi. Quelle come "carta" stessa o "cellulosa" o "inchiostro" oppure verbi come "guardare", "leggere" o "non leggere", scintillavano potenti, nonostante fossero fatti solo di inchiostro.

Chiusi il quaderno lasciando la penna tra le pagine e lo infilai nell'amaca. Vista da fuori sembrava un enorme bozzolo di chissà quale animale. Mi piaceva pensarlo. L'idea che ogni notte andassi a dormire per risvegliarmi con qualcosa di diverso mi elettrizzava.

Mi guardai allo specchio.

Purtroppo, e per fortuna, la mattina ero sempre la stessa.

La camicia da maschio che indossavo per dormire stava cominciando a starmi bene in vece che larga, però ora rimanevano sempre più scoperte le gambe. Tra poco non sarebbe più bastata da sola. Provai inutilmente a tirarla un po' giù, ma le mie forme la tirarono di nuovo su.

Sorrisi al mio riflesso, poi feci scorrere di lato la lastra con lo specchio per poter prendere qualcosa dall'armadio. Non avevo molto assortimento, ma non ne sentivo la necessità. Quasi tutta la mia roba era marrone, il mio colore preferito.

Avevo intenzione di salire in superficie anche quel giorno, perciò optai per i pantaloni da cavallo, marroni e lucidi, aderenti ma non stretti, a vita alta. Li sentii scivolare intorno alle mie gambe lisce, prive di qualsiasi peluria – altro particolare non-umano del mio corpo.

Uscii dalla mia camera ancora a piedi nudi, gli stivali che mi pendevano dalle mani per i lacci. Non c'erano vere e proprie camere nelle segrete, solo un corridoio su cui si affacciavano sei celle identiche e due spazi più grandi ai due estremi, uno occupato da una piccola piscina e l'altro da scaffali, tavolo e la scala a chiocciola da cui si entrava e usciva.

Avevo già una mano sul corrimano e un piede sul primo gradino quando sentii dei rumori. Prima solo i suoni meccanici delle botole che si aprivano, poi dei passi, infine dei soffi attutiti, come di un gatto in un sacco. No, un coccodrillo, decisi pian piano che si avvicinavano.

L'ultima botola, al centro del soffitto a cupola della stanza, si aprì senza far rumore e Lucien comparve sulla cima delle scale, come un moderno dio vichingo che scende dal suo cielo stellato artificiale.

In tre mesi i suoi capelli biondi erano diventati lunghi abbastanza per essere legati in una coda. La sua pelle pallida era abbronzata.

"Tedesco" lo avevo soprannominato quando con le lezioni di storia eravamo arrivati alla seconda guerra mondiale. Lo era in effetti, ma aveva passato molto più tempo in Francia che in Germania. Pur essendo figlio della prima guerra mondiale, era nato in modo da poter sopravvivere alla seconda.

Gli sorrisi, poi notai che oltre al solito zaino trasportava il suo borsone di pelle di chimera, pieno come non mai e dall'aria insolitamente pesante. I sibili venivano da lì dentro, insieme al suono di qualcosa che mi muoveva nell'acqua.

Il mio sguardo si accese di curiosità. Lucien aveva forse catturato uno squalo? Era per questo che aveva passato tre mesi fuori? No, probabilmente, ci avrebbe messo molto meno. C'entrava uno squalo nel borsone? Forse uno di medie dimensioni, forse costringendolo a stare in qualche posizione strana. La pelle di chimera era impermeabile e resistente abbastanza.

Feci tutte le mie considerazioni nel giro di qualche istante.

Lucien non perse tempo con i saluti. «Prepara la vasca» mi ordinò immediatamente.

Mi voltai senza dire una parola e tornai sui miei passi. Attraversai il corridoio fino all'estremità opposta dove si apriva la stanza che ospitava la piccola piscina che Lucien aveva costruito sfruttando il corso d'acqua che ai tempi era stato deviato per alimentare tutte le fontane della Reggia.

Accesi qualche altra luce e raggiunsi uno degli armadi addossati alla parete. Tirai fuori un'enorme rete semirigida che spianata era simile ad una grata di filo spinato. Ne ancorai due vertici ai due estremi del lato corto della vasca, poi cominciai a srotolarla in modo che arrivasse quasi a sfiorare il pelo dell'acqua. Agganciai un terzo angolo, ma lasciai libero il quarto.

Lucien arrivò trascinando il borsone per terra. La creatura all'interno si dimenava più che mai.

Ero così eccitata che quasi mi misi a saltellare sul posto – comportamento di cui Lucien mi avrebbe sicuramente fatto pentire.

«I guanti» ordinò abbandonando il suo carico ad un metro dall'angolo libero della vasca.

Glieli passai in silenzio. Anche quelli erano in pelle di chimera. Dovevo ancora capire come fosse riuscito a procurarsene così tanta.

Lo guardai inginocchiarsi dietro al borsone e voltarlo su un fianco, in modo che l'apertura fosse rivolta verso la vasca. Tastò il contenuto dall'esterno finché non fu nella posizione giusta. La creatura all'interno non gradì affatto.

Lucien strisciò su un fianco finché la sua testa non fu vicinissima al bordo della vasca, il borsone stretto tra braccia e gambe come un enorme cuscino.

«Devi essere pronta con la rete» mi istruì. «Prima di lasciarla andare devo toglierle i legacci agli arti superiori e liberarle la bocca. Appena la lascio devi chiudere la rete. Non lasciarti incantare, dopo avremo tutto il tempo di rimirarla.»

Parlava al femminile, quindi non era il mio squalo. Per un attimo mi sentii delusa.

Mi avvicinai tenendo il quarto angolo della rete e preparai il gancio. Gli feci un cenno con la testa quando fui pronta.

Controllò un'ultima volta i guanti, poi si allungò per arrivare all'apertura del borsone.

A terra si riversò così tanta acqua e così all'improvviso che all'inizio non vidi niente. La creatura si dimenava troppo per poterla mettere a fuoco e persino Lucien, che sapevo essere un uomo di straordinaria potenza, faticava a trattenerla. I guanti di chimera lo protessero dai morsi e dai graffi mentre la inchiodava a terra.

La pinna possente e priva di squame si dispiegò con uno spasmo, molto più lunga di quanto mi aspettassi, ma le gambe di Lucien la trattennero mentre con le mani rompeva tutti i legacci che le immobilizzavano gli arti superiori.

Quando ebbe finito, spinse la creatura nell'acqua e io chiusi immediatamente la rete.

Solo allora mi voltai e riconobbi la creatura che gridava nell'acqua e si lanciava verso l'alto per poi scontrarsi violentemente con la grata.

I miei occhi si spalancarono e trattenni il fiato.

«Una sirena!» esclamai senza riuscire a contenermi. «Come hai fatto?» la mia voce era salita di un'ottava.

«In questa stagione non è difficile trovarne.»

Ne ero sicura, ma trovarle era distante milioni di anni luce dall'avere la benché minima possibilità di catturarne una.

«Ma...» provai ad insistere.

«Lorelle» mi riprese.

Giusto, non dovevo parlare in arcaico in presenza di altri – lui, effettivamente, si era sempre rivolto a me in francese.

Tornai a guardare la sirena. Ancora non stava abbastanza ferma per poterla ammirare. Sfrecciava da una parte all'altra ad una velocità impressionante, ruotando su se stessa con la flessibilità di un elastico. Continuava a sferrare con la pinna colpi terribili alla rete nel vano tentativo di liberarsi.

L'acqua, limpida e calma fino ad un attimo prima, stava iniziando ad agitarsi e a farsi torbida. Delle onde si alzarono, guidate dalle urla della sirena, abbattendosi contro i bordi della vasca e sciabordando fuori in grande quantità.

Mi avvicinai, affascinata.

«Non correre rischi inutili» inutili mi ammonì Lucien.

«Non corro nessun rischio» ribattei, attenta ad usare il francese questa volta.

«Il fatto che tu possa ucciderla non cambia il fatto che lei possa strapparti a morsi gambe e braccia» abbaiò. Le mie repliche lo irritavano quasi sempre.

«Sì, maestro.»

Mi ero domandata spesso cosa fossimo io e Lucien. Si occupava di me come un padre, ma il suo atteggiamento era più quello di un fratello maggiore.

"Maestro" era l'unico modo in cui voleva farsi chiamare.

«Ora allontanati. E vieni con me.»

Di malavoglia, mi alzai e lo seguii.

Tornammo nell'atrio. Io rimasi accanto al tavolo di ebano, accarezzando la parola "legno" che avevo scritto chissà quanto tempo prima, mentre Lucien recuperava il suo zaino da dove lo aveva lasciato.

Lo lasciò cadere sul tavolo e lo aprì. Per primi ne tirò fuori i suoi quaderni, poi, con un piccolo sorriso ed estrema delicatezza, mi porse un sacchetto di spessa stoffa, liscia e morbida.

Allentai il laccio e vi infilai la mano. Entrassi una pallina di pelo, grigia come la polvere e più morbida e soffice di qualsiasi cosa avessi mai visto. Mentre ancora la studiavo nella mano, due grossi punti neri si aprirono nella peluria, la pallina di contrasse e saltò giù dalla mia mano. Sul tavolo cominciò a rotolare verso il bordo.

La ripresi subito, seppur con delicatezza.

«Una puffola!» esclamai. Già la adoravo. Provò di nuovo a saltare giù dalla mia mano, ma questa volta la trattenni.

Lucien mi strinse una mano sulla spalla e appoggiò le labbra alla mia tempia. «Buon compleanno» disse prima di allontanarsi.

Sorrisi alla sua schiena. Poi mi imbronciai. Certo. Il mio regalo era una puffola. Perché voleva la sirena tutta per sé. Come se fosse l'unico in quelle segrete ad avere un'inestinguibile sete di conoscenza. Aveva forse dimenticato che era stato lui a crescermi curiosa?

Scuotendo leggermente la testa, mi appollaiai su una sedia di paglia e posai la puffola grigia sul tavolo.

Compievo sedici anni e Lucien sperava ancora di potermi incantare così facilmente.

«Ciao» sussurrai alla puffola, solleticandola con un dito. Tutto il pelo si drizzò e cominciò a contrarsi leggermente. Soffriva il solletico.

Ridacchiai.

Boom, pensai all'improvviso, senza un motivo, e la puffola grigia dovette accontentarsi di quel nome. Rotolando, mi risalì il braccio fino alla spalla, dove si accoccolò.

Inclinai la testa in modo da poter rimirare il mio batuffolo di polvere personale.

Afferrai uno dei quaderni di Lucien, il più nuovo. Come speravo, parlava della sirena.

Clothilde. Doveva essere il suo nome. Era l'unica parola scritta in arcaico, al centro della prima pagina, sopra il francese "Sirène, mer Méditerranée". La grafia di Lucien non mi era mai piaciuta. Era fina e spigolosa e avanzava su righe inesistenti ma perfettamente orizzontali. Tutte le lettere erano uguali tra loro come avrebbero potuto essere solo in una stampa, ma nel complesso non trasmetteva nessun senso di ordine. Tutto sembrava inciso con forza sul foglio, come ferite sulla carta.

La mia era proprio il contrario. Il tratto era spesso e scuro, ma non calcato, pieno di ghirigori inutili, curve accentuate e un disordine minimo che Lucien definiva "umano" con tono sprezzante.

Con un sospiro, tornai a concentrarmi sul quaderno. Voltai pagina attenta a non muovere troppo la spalla sa cui si trovava Boom.

Affermare che Lucien prendesse appunti sarebbe stato tremendamente inesatto, anche se assolutamente vero. Non si lasciava sfuggire nemmeno un singolo particolare. E disegnava. Con una maestria, un'eleganza e una rapidità per le quali i migliori artisti avrebbero ucciso.

Quelli nel quaderno non erano che schizzi a matita, ma sapevo che, appena ce ne fosse stato il tempo, li avrebbe colorati affidandosi alla sua infallibile memoria. E sarebbe stato come avere finestre spalancate tra le mani invece che fogli di carta rilegati insieme.

Istintivamente alzai lo sguardo sugli scaffali addossati alla parete più vicina al tavolo. Erano stracolmi di quaderni che erano solo una minima parte di quelli che il mio maestro custodiva gelosamente nella sua camera. Avevo divorato ognuno di quei volumi, con un'insaziabilità spaventosa. Nei punti in cui erano carenti di informazioni o imprecisi, Lucien aveva inserito fogli e fogli di aggiunte nel corso del tempo, continuando a documentarsi. Sapeva tutto di qualsiasi creatura al mondo. Vivente o estinta da un pezzo.

Aspettavo con ansia il giorno in cui mi avrebbe portato con sé nelle sue spedizioni.

Accarezzai il primo disegno del quaderno. Non era altro che una barca a motore, la sua barca, uno yacht estremamente vissuto ma perfettamente funzionante che avrebbe potuto trasportare anche una ventina di persone. Per quanto ne sapevo, aveva un posto di ormeggio fisso nel vecchio porto di Mariglia, praticamente dall'altra parte del Paese. Io non c'ero mai stata, ma l'avevo vista disegnata così tante volte che l'avrei saputa riconoscere tra mille. Con quali soldi l'avesse comprata o come la mantenesse era l'ennesimo mistero.

Nel quaderno non c'era quasi nulla della sirena in sé, perché della sua razza per Lucien non era rimasto essenzialmente nulla da scoprire.

Saltai gli appunti su come l'aveva trovata e catturata. Tutte le pagine successive erano bianche eccetto qualche sporadica parola negli angoli in alto.

Analyses: sang, organes, squelette.

Feci scorrere le pagine velocemente, poi tornai indietro, alla prima pagina bianca.

Autopsie.

Sussultai così all'improvviso che Boom saltò giù dalla mia spalla.

Un barattolo di vetro comparve nel mio campo visivo.

Trasalii, non mi ero accorta che Lucien si era avvicinato. Posò il barattolo sul tavolo davanti a me. Riconobbi subito i cadaveri delle lucciole che c'erano dentro. Sapevo che avrei dovuto liberarle la sera prima e avevo avuto tutte le intenzioni di farlo, ma mi ero addormentata prima.

«Sei stata in superficie» sentenziò in arcaico.

La voce del mio maestro mi fece tremare persino le ossa. Per un attimo mi chiesi chi me lo avesse fatto fare, nei giorni precedenti, a disobbedire ai suoi ordini.

«Quante volte ti ho detto che non devi farlo?» La sua rabbia non si esprimeva in urla, ma in espressioni così ferme da far gelare il sangue nelle vene. I suoi occhi, azzurro ghiaccio, mi trapassarono. Era assurdo che mi facessero ancora questo effetto, mi rifiutavo di mettermi paura come una bambina!

«Volevo vedere gli altri.» Volevo rispondere con tono sicuro, invece la mia voce strozzata si sentì appena.

«Quella gente ti odia Lorelle!» Se mi avesse tirato uno schiaffo avrebbe fatto meno male. «Il fatto che i tuoi marchi impongano loro silenzio e obbedienza non significa che non possano trovare il modo di aggirarli.»

«Non possono nulla contro di me» replicai istintivamente, e mi sarei messa in punizione da sola per non essere stata zitta.

«Non possono nulla?» ripeté lui. Stava perdendo la pazienza e alzando leggermente la voce, cosa che lo rese meno spaventoso. Mi diede più forza. «Possono riuscire a chiamare dei mutaforma. E quelli si riverserebbero qui a decine se sapessero che ci sono due marchiatori.»

«I mutaforma non sono immuni al nostro potere» anche se, lo sapevo, su di loro aveva solo un effetto temporaneo.

«I mutaforma possono e vogliono ucciderci. Vuoi farci uccidere, Lorelle?»

Dovetti mordermi le labbra fino a sentire un sapore metallico in bocca per non rispondere. Non distolsi i miei occhi dai suoi, pietra contro ghiaccio. E mi ricordai del quaderno.

Senza distogliere lo sguardo da lui, allungai la mano per afferrare il quaderno e glielo misi davanti alla faccia.

Autopsie.

«L'hai portata qui per ucciderla!» urlai.

Lucien mi strappò il quaderno dalle mani. «Beh, non avrai pensato che ci saremmo tenuti per sempre una sirena da compagnia? Tranquilla, ti sarai già stufata di lei quando verrà il momento.» Si voltò e fece per andarsene.

«Come puoi dire questo?» gli urlai dietro con rabbia. Non mi riferivo solo alla sirena.

Quando si voltò la sua espressione era di nuovo calma. Non era più arrabbiato. Passarono diversi secondi prima che parlasse di nuovo.

Raggiunse di nuovo il tavolo e mi sollevò il mento con un dito perché lo guardassi negli occhi.

«Lorelle» il mio nome suonava sempre come una parola nuova quando lo pronunciava lui. «Quelli come noi, Lorelle, sono il simbolo della sete di potere e della distruzione. Nasciamo dalla cenere dei roghi, dalla polvere delle guerre e dalla disperazione di persone morenti. Siamo rari e soli, dobbiamo continuamente sforzarci per sopravvivere in un mondo che ci vuole morti perché non ci conosce. Io posso insegnarti a sfruttare le tue capacità, ma solo tu potrai decidere chi essere e come impiegarle. Posso insegnarti tutto ciò che so sul mondo conosciuto e su quello sconosciuto, ma solo tu puoi decidere cosa fare di queste conoscenze.»

Quando ebbe finito di parlare, vi fu un altro lungo istante di silenzio.

«E questo che vorrebbe dire?» sbottai alla fine.

Sospirò.

«Che siamo potenti, è vero, tanto da poter sfidare le leggi della natura in un modo che va al di là della semplice influenza che possono avere altre creature, ma siamo troppo pochi. Lo siamo sempre stati nel corso della storia. Le creature che si ricordano della nostra razza sono quelle che ne hanno conosciuto i misfatti, se scoprissero che in quest'epoca ci sono marchiatori, non esiterebbero ad ucciderci. Ci temono così tanto che non si illudono nemmeno di poterci controllare.»

«Ma non è giusto!» protestai banalmente. «Quei marchiatori non hanno nulla a che fare con noi, non sono neanche nostri antenati. Non abbiamo il loro sangue.»

Mi fulminò con un'occhiataccia. «So che la superficie ti sembra invitante, che la prospettiva di una vita libera è allettante, ma non è possibile per noi. Anche se ci imponessimo di non marchiare nessuno, siamo troppo diversi. Ci scoprirebbero lo stesso.»

«Perché?» insistetti facendo un passo avanti.

«Perché non sono solo la mancanza di un ombelico, la pelle liscia e il sangue nero a distinguerci» si avvicinò ulteriormente a me con lentezza studiata. Mi toccò i lati della testa con la punta delle dita. «Noi siamo diversi qui» mormorò fissandomi negli occhi. I suoi ora erano del colore del mare. «La nostra mente è superiore. Ciò che ti sembra solo desiderio di conoscenza è un bisogno fisico di imparare cose nuove, di continuare ad apprendere. Dobbiamo andare costantemente alla ricerca di qualcosa di sconosciuto. È un comportamento innato. Così come non ti ho mai insegnato a parlare o scrivere l'arcaico, non ti ho mai spinto ad essere intelligente e curiosa.»

Mi sentii improvvisamente a disagio per quella vicinanza tra noi.

«Mi stai dicendo» cominciai dopo un po' «che dissezionerai una sirena solo perché non puoi farne a meno?» Non avevo mai provato così tanta repulsione.

Lucien mi rivolse un sorriso stanco che mostrava ben più dei suoi quarantadue anni. «Già. Io non ho mai saputo contenermi, Lorelle, non mi sono mai dato un limite, non mi sono mai accorto di quanto mi stessi spingendo oltre.»

«Te ne stai accorgendo adesso.»

«Davvero? Una sirena può essere meno sirena solo perché sa di esserlo?»

«Noi abbiamo il potere di cambiare la natura di qualunque cosa, di qualunque essere, possiamo cambiare anche noi stessi» replicai con decisione.

«Il potere? Ne parli come se si trattasse di magia. È forse un potere l'udito, il tatto, la vista? È forse un potere camminare, nuotare o volare?»

Non seppi cosa ribattere e mi sentii frustrata. Detestavo non avere l'ultima parola.

«Allora lo stesso vale per l'autocontrollo!» sbottai «Fermati adesso. Riporta Clothilde in mare.»

«Non posso» sussurrò. E non sembrava triste. Mi aveva dato la risposta sbagliata. Lui non voleva. Ed era qualcosa che non potevo combattere.

Con il quaderno in mano, si avviò lungo il corridoio delle celle, verso la vasca.

«Io sarò migliore di te!» gli gridai.

Lo sentii ridere. «Lo spero» mi disse senza voltarsi e non del tutto convinto.

Amareggiata, tornai a grandi passi nella mia camera e mi chiusi la porta alla spalle. Appoggiai la schiena al rivestimento di cuoio delle sbarre che isolava la mia cella dalle altre e mi lasciai scivolare a terra.

Avrei voluto piangere, ma i miei occhi erano asciutti e dalle labbra mi uscirono versi di rabbia piuttosto che singhiozzi. Forse era meglio.

Chiusi le mani a pugno fino a conficcarmi le unghie ancora corte nella carne dei palmi.

Sentii qualcosa rotolare sotto le sbarre e accanto alla mia gamba.

Boom.

Mi sforzai di sorridere.

Accarezzai la puffola in mezzo agli occhi che si chiusero di riflesso.

Andai a recuperare i miei colori e mi inginocchiai davanti al rivestimento di cuoio. Fin da piccola avevo cominciato a ricoprirlo di disegni. Alcuni erano ancora gli schizzi di una bambina e i migliori erano comunque lontani dalla bellezza di quelli di Lucien, ma avevo smesso di farmi aspettative sulle mie capacità artistiche.

Avevo sentito che certe persone sentivano il bisogno di tatuare la propria pelle in momenti particolari della loro vita – i tatuaggi mi ricordavano troppo dei marchi, ma disegnare sulle pareti della mia stanza doveva essere qualcosa di simile.

C'era uno spazio vuoto più o meno circolare dove prima mi ero appoggiata, era il momento di riempirlo con qualche disegno. Posizionai Boom sul mio ginocchio e cominciai a ricopiarla. Le puffole sono animali davvero curiosi.

Mentre provavo i colori su una pagina del mio quaderno, cercando di ottenere la giusta sfumatura di grigio, la mia mente continuava a pensare a Clothilde, all'orribile destino che l'attendeva e a cosa avrei potuto fare per salvarla.

Parlare con Lucien era fuori discussione, aveva già preso la sua decisione e io non sarei mai riuscita a fargli cambiare idea. Solo che questa era una cattiva idea.

Non potevo neanche immaginare quanto lo eccitasse la prospettiva studiare così da vicino il corpo di una sirena, di una creatura maggiore!, ma dovevo trovare il modo di fermarlo.

Boom rotolò giù dal mio ginocchio e io posai a terra i colori. Puntai i gomiti sulle ginocchia e mi coprii il viso con le mani.

Non essere stupida, cercai di ripetermi. Le sirene erano creature crudeli, forse le più crudeli al mondo. Se Lucien non l'avesse catturata, probabilmente Clothilde lo avrebbe ucciso. Chissà di quante persone aveva causato la morte! Mi stavo solo facendo incantare, né più né meno di un comune marinaio.

Avevo solo bisogno di rilassarmi. Dopo tre mesi mi ero quasi abituata a stare da sola, tutto questo nervosismo era dovuto solo al fatto che Lucien fosse tornato. Era normale, succedeva quasi tutte le volte, era parte della sua personalità.

Nulla doveva succedere nell'immediato futuro. Ne avremmo parlato, lui sarebbe riuscito a tranquillizzarmi. Forse in fondo era quello che volevo anch'io – forse tutto ciò di cui avevo paura era di farmi trascinare dal suo stesso entusiasmo. Forse--

No. In quel momento non si trattava di me.

Uccidere una sirena solo per studiarla era sbagliato. Se il mio maestro non se ne rendeva conto lo avrei aiutato io. Lo avrei fermato, come lui aveva fermato me quando si era trattato di imporre dei marchi.

Non ci sarei mai riuscita a parole, ma gli avrei impedito di procedere.

Clothilde doveva scomparire, così che non potesse più essere tentato.

Ma come?

Le sirene rimanevano sirene fuori dall'acqua, nessuna magia mutava la loro pinna in un paio di gambe. Per trasformarla ci sarebbe voluto... un marchio.

Per un attimo il mondo intero si fermò. I battiti del mio cuore rallentarono. Sollevai la testa dalle mani e fissai il vuoto.

Non potevo prenderla e portarla via, ma potevo far sì che scappasse. Mi sarebbe bastato dargliene la possibilità e avrebbe fatto tutto da sola.

Improvvisamente fui presa dalla fretta. Recuperai le matite e mi spostai con la schiena appoggiata alla parete.

Fissai la pagina vuota del quaderno.

Che marchio usare? Cosa potevo scriverci?

Doveva essere breve, altrimenti non avrei avuto il tempo di tracciarlo.

Gambe. Ma questo non le avrebbe levato le dita palmate, né gli artigli, o la forza. E magari non le sarebbero venuti i piedi.

Dovevo essere più precisa senza fare un elenco.

Umana. Sì, doveva diventare umana, ma mi avrebbe ucciso se le avessi fatto una cosa del genere. Era l'incubo delle sirene essere strappate dalla loro vita e dalla loro natura, forse proprio perché succedeva in così tante favole.

Le serviva avere le gambe solo per arrivare al mare, o forse anche solo ad un fiume.

Non esistevano marchi temporanei però.

Sbuffai e cambiai posizione. La parola in arcaico "umana" che avevo scritto sul foglio del quaderno lo stava lentamente bruciando. La carta non poteva contenere nemmeno quella parola.

Con la coda dell'occhio vidi Boom attraversare la stanza.

Ripensandoci non serviva che fosse umana sempre, ma solo fuori dall'acqua.

La carta resse con piacere le parole successive. Tre marchi, uno sotto l'altro, il primo grande quasi quanto la mia mano, il secondo e il terzo gradualmente più piccoli.

Umana fuori dall'acqua.

Rincuorata, mi alzai e andai a socchiudere la porta. Mi misi a giocare con Boom sulla soglia finché non vidi Lucien attraversare il corridoio e andarsi a chiudere nella sua camera. Probabilmente aveva passato la notte sveglio, doveva riposare.

Aspettai finché non sentii più alcun rumore venire dall'altra parte della porta chiusa.

Con un moto di orgoglio mi resi conto che non si era accorto che avevo spento il soffitto stellato.

Attesi qualche altro istante, poi sgusciai fuori dalla mia stanza.

Vidi Boom rotolare dalla parte opposta rispetto a me, tornare nell'atrio e saltare sul tavolo. Si ingegnò per poter aprire il barattolo e mangiare ciò che restava delle malcapitate lucciole.

Rimasi ad osservare la puffola per qualche istante, poi scrollai la testa andai in punta di piedi verso la piscina.

Lucien aveva spento le luci sul soffitto, ma lasciato accesi i fari dentro la vasca e ora la stanza intera era inondata da una soffusa luce azzurra.

Nascosta dall'oscurità, raggiunsi il bordo della vasca e mi inginocchiai a terra, l'estremità della rete che premeva sulle ginocchia.

La sirena nuotava freneticamente in cerchio sul fondo, come un pesce in una boccia troppo piccola, facendo ondeggiare i riflessi sul soffitto.

La osservai a lungo, in assoluto silenzio, e la sua bellezza mi colpì lentamente, come un sapore nuovo a cui mi dovevo abituare per gradi prima di rendermi conto di quanto fosse buono.

Nonostante le innumerevoli ore di studio passate con Lucien, l'idea che avevo delle sirene era estremamente fiabesca. Immaginavo una creatura la cui parte umana fosse nettamente distinta da quella animale, invece il suo corpo era un'unità continua e armoniosa. La sua coda non aveva né squame né colori vivaci, sul suo collo non c'erano branchie, le forme del seno e della vita erano appena accennate – era a tutti gli effetti un mammifero marino, non una specie di pesce ibrido.

La sua pelle era liscia e madreperlacea, i capelli neri come la pece.

Avanzava con movimenti minimi, fatti di onde che partivano dalla testa e le attraversavano la colonna vertebrale fino alla coda. Teneva le braccia lungo i fianchi, usando le mani palmate solo per cambiare direzione.

Era elegante senza risultare artificiale, splendida senza essere umana.

Quando alzò la testa, scoprii che i suoi occhi erano dello stesso azzurro del fondo della piscina.

Scattò verso un angolo della vasca e con un istante di ritardo i resi conto che mi aveva vista. Nel giro di pochissimi minuti, l'acqua si fece così torbida che non riuscivo più a distinguere nulla al di sotto della superficie. Non avevo più idea di dove si trovasse.

Persino la luce dei fari era stata offuscata e fui costretta ad andare ad accendere le luci.

Presi da un armadio i guanti di chimera e delle corde prima di tornare alla vasca.

Salii sulla rete. Non era molto stabile, ma il mio equilibrio era ottimo. Mi portai molto vicina al centro, dove affossandosi arrivava a sfiorare l'acqua. Era gelida sui miei piedi nudi.

Le gambe mi tremavano leggermente. Non vedere altro che il mio riflesso e sapere quale creatura si nascondesse sotto la superficie mi inquietava.

Mi sembrò di scorgere un movimento proprio sotto di me.

Mi inginocchiai.

«Clothie?»

Forse aver usato non solo il suo nome ma anche un diminutivo, la colse abbastanza alla sprovvista da non farle usare tutta la propria forza.

Scattò verso l'alto, infilando le braccia nei buchi della rete e afferrandomi le gambe, ma io ero pronta. Le afferrai i polsi, li strattonai verso l'altro e li legai insieme, così stretti che le mani cominciarono subito a diventare bianche. Quando la lasciai andare e scivolò verso il basso si ritrovò incastrata, appesa alla rete dalle sue stesse braccia.

Si dimenò con tutte le proprie forze, ma la rete e i ganci che la ancoravano alla vasca non cedettero.

Sfruttai il momento di confusione. Mi sfilai uno dei guanti, allungai le mani oltre la rete e con un'altra corda glielo legai davanti alla bocca. Non mi morse per un pelo. Non sapevo quanto avrebbe retto quel bavaglio improvvisato, ma non potevo rischiare che usasse la propria voce – per controllare l'acqua, cercare di incantarmi o attirare l'attenzione di Lucien – prima che avessi finito di marchiarla.

La pelle di chimera resistette ai suoi morsi e le scivolò il bocca togliendole il respiro. Finalmente si fermò. Fece leva sulle braccia incastrate alla rete per tirarsi su il più possibile e reclinò la testa all'indietro per poter respirare aria.

Concessi ad entrambe un momento di stasi. Il mio cuore batteva così forte che avrebbe potuto schizzarmi fuori dal petto da un momento all'altro.

Chiusi gli occhi e feci due respiri profondi. Il grosso era fatto.

Quando riaprii gli occhi incontrai lo sguardo di Clothilde. Era intenso, ma non carico di rabbia come mi sarei aspettata. Lottare era qualcosa che conosceva, probabilmente lo scontro aperto l'aveva fatta sentire meno impotente. Mi stava sfidando a fare la prossima mossa.

«Farà male» la avvertii e la mia voce suonò particolarmente fredda.

Infilai in un buco della rete la mano ancora protetta dal guanto e gliela passai intorno alla gola. Lei fece di tutto per scostarsi, ma la mia presa era forte abbastanza da costringerla a seguire i miei movimenti per non essere soffocata. Le feci chinare il capo in avanti, quasi rispingendole tutta la testa sott'acqua, in modo che il cranio fosse rivolto verso l'alto.

I marchi sulla testa erano i più pericolosi, ma in simili circostanze era l'unico punto del suo corpo che potessi tenere sufficientemente fermo.

Spostai lo sguardo sulla mia mano libera.

La tensione del momento stava già facendo il suo effetto e le mie dita erano calde e rosse, già macchiate di nero come se mi fossi sporcata con dell'inchiostro.

Mi bastò aspettare, lasciare che la paura mi inondasse le vene – paura che da un momento all'altro Lucien irrompesse nella stanza, che Clothilde riuscisse a liberarsi, che il mio marchio potesse ucciderla invece che salvarla – accelerando il battito del mio cuore, acuendo i miei sensi e, infine, che scatenasse la reazione di difesa del mio corpo.

I pori dei miei polpastrelli si dilatarono e sangue nero filtrò attraverso la pelle. Era denso e caldo, così scuro da non riflettere la luce. Mi colò lungo le dita e si accumulò sul mio palmo finché non cominciò a traboccare.

Le prime gocce precipitarono nell'acqua e si dissolsero con uno sfrigolio di scintille. Spostai la mano affinché le successive cadessero sui capelli di Clothilde. Lì dove finivano le ciocche di capelli si spezzavano e disperdevano tutt'intorno. Quelle che restavano cominciavano ad essere corrose dalle punte, scolorendosi e assottigliandosi fino a disintegrarsi. Quando l'effetto che il mio sangue aveva provocato raggiunge il cuoio capelluto, l'intero corpo della sirena tremò per il dolore e il guanto di chimera non attutì del tutto le sue grida. Lasciai che si agitasse.

Nel giro di pochi minuti, sul suo cranio non era rimasto neanche un capello.

Feci un altro respiro profondo, poi tornai a stringerle la gola e la mascella con la mano guantata perché stesse ferma. Immersi quella libera nell'acqua per ripulirla dal sangue, poi la chiusi a pugno. Allungai solo l'indice – avevo bisogno di precisione – e premetti sulla sua testa.

Clothilde urlò ancora attraverso il bavaglio. Le spinsi il viso sotto il pelo dell'acqua per soffocare quel suono insopportabile e mi sforzai di escludere tutto il resto mentre mi concentravo sul marchio. Visualizzai le tre parole. Dovevo essere veloce senza sbagliare.

Feci scivolare il dito sulla sua pelle con tutta la fermezza che mi era possibile, lasciandomi dietro una scia nera e indelebile.

Fu come penetrare dentro la sua carne e violarne la natura stessa. Fu un innesto e una presa di potere. Il mio sangue e la mia lingua si legarono alle fibre del suo corpo, la mia volontà ne sfaldò l'essenza e la ricompose a proprio piacimento, lettera dopo lettera, cerchio dopo cerchio.

Fu intenso. Inebriante.

Il mio corpo intero era focalizzato sui movimenti infinitesimali delle mie dita. La mia mente era un concentrato di luce ed energia, svuotata e riempita allo stesso tempo.

Ero percorsa da brividi caldi. Mi contraevo ed espandevo al ritmo del mio respiro.

Ero solida, e fluida.

Ero ovunque. Nell'aria tutt'intorno, nell'acqua sotto di me, nella pietra delle segrete. Ero dentro Clothilde. Scorrevo nelle sue vene, scivolavo sotto la sua pelle. Stringevo il brandello pulsante di vita che era la sua anima.

Sentivo l'energia distruttiva che mi aveva creata riversarsi fuori poco a poco – un debole fiotto che oltrepassava la diga. E percepii il momento in cui quell'energia si impennò, densa e fremente – il momento prima che perdessi il controllo.

Mi ritrassi e rovesciai all'indietro con la forza di un'esplosione invisibile. La rete curvò sotto il mio peso e l'acqua mi baciò la schiena.

La mia vista era appannata da schizzi di colore, i miei muscoli tremavano. La mia mente era un caleidoscopio di suoni, immagini, sensazioni.

Ero ansante, sudata, ancora ubriaca di energia.

Chiusi entrambe le mani a pugno e le poggiai sul petto. Il guanto bagnato lasciò un'impronta umida in corrispondenza del mio cuore. La pelle di chimera era bucata in corrispondenza dei polpastrelli.

Il mondo smise di girare lentamente. Il mio cuore si fece pesante, il resto del mio petto parve svuotarsi.

Fui assalita dal freddo, dalla sete e dalla nausea. Lucien diceva che era come smaltire una droga. Era il momento in cui più desideravi averne ancora. Dovevo solo stringere i denti e aspettare che passasse.

Lucien.

Mi riscossi. Mi sollevai a sedere con uno scatto e mi buttai in avanti per raggiungere il punto in cui Clothilde era legata.

Era immobile.

Una parte di me si ricordò che aveva smesso di dimenarsi di colpo ad un certo punto.

Soffocando un'ondata di panico allungai una mano e le premetti due dita alla base del collo. Il battito del suo cuore era debolissimo, ma c'era.

Il sollievo fu così intenso che avrei potuto urlare.

Guardai il marchio sulla sua testa.

Umana fuori dall'acqua.

Era perfetto. Era il più bello che avessi mai tracciato.

Mi sentii orgogliosa. Invincibile. Mi sentii la più potente creatura sulla faccia della Terra.

Liberai Clothilde dal bavaglio, poi le slegai i polsi. Si limitò a scivolare sott'acqua, rimanendo sospesa a metà tra la superficie e il fondo, le braccia abbandonate davanti a sé, gli occhi aperti ma lo sguardo spento. Mi seguì con lo sguardo quando attraversai a gattoni la rete fino a tornare al bordo della vasca, ma non sembrava vedermi davvero.

Quando mi rimisi in piedi ero completamente bagnata, impregnata dell'odore di ferro e cloro.

Sganciai la rete e la levai da sopra la vasca, poi feci per andarmene.

«Vattene finché sei in tempo» dissi sulla soglia, voltandomi verso la vasca.

Clothilde era ancora sott'acqua. Non sembrava arrabbiata, né dolorante. Né intenzionata a scappare a dire il vero. Solo vuota.

Mi voltai e raggiunsi la mia camera praticamente di corsa. Mi guardai intorno mettendomi le mani nei capelli, senza sapere cosa fare.

Ero fradicia. Afferrai dei vestiti asciutti e uscii dalla stanza senza nemmeno chiudere l'armadio.

Le ultime due celle ai lati del corridoio erano state adibite a bagno e cucina perché per Lucien era stato più facile sfruttare gli stessi condotti che fornivano acqua alla piscina.

Sforzandomi di non sbirciare in direzione della vasca, andai a chiudermi in bagno.

Era grande quanto la mia camera – perché erano ricavati da celle uguali – e particolarmente rustico, con lavandino di pietra, un gabinetto alla turca, dei mobiletti che contenevano gli asciugamani e tutti i medicinali che avevamo e una doccia riparata solo da una tenda incastrata in un angolo.

Feci scorrere l'acqua nel lavandino e mi sciacquai la faccia. Scivolai fuori dai vestiti bagnati evitando di rivolgere lo sguardo al mio riflesso nello specchio e mi infilai in quelli asciutti. Mi infilai persino gli stivali – che avevo dovuto riempire di garze perché non mi stessero troppo grandi.

Quando non seppi più cos'altro fare cominciai a camminare avanti e indietro nello spazio tra la porta e il lavandino.

Volevo uscire e controllore che Clothilde se la stesse cavando – sarebbe stato inutile averla marchiata se non fosse riuscita a scappare – ma non lo feci. Parte di me però si sentiva troppo in colpa per aver disobbedito a Lucien.

Certo, di fatto non mi aveva ordinato di non marchiare la sirena, ma non aveva senso aggrapparsi a simili dettagli linguistici.

Si sarebbe arrabbiato? Ovvio.

Mi avrebbe punita?

Mi avrebbe lasciata sola per altri tre mesi o poi sarebbe comparso con una nuova sirena?

Era appena tornato, non volevo che se ne andasse di nuovo, non così presto.

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