5

Il giorno prima delle None di marzo (6 marzo)

La notte li avvolgeva col suo caldo mantello e ovunque regnava il silenzio. La diciottenne Livia Drusilla continuava a lanciare occhiate ansiose a Ecazia, la nutrice di Tiberio. La donna era piuttosto robusta e aveva braccia nerborute. Non lo avrebbero lasciato cadere. Il piccolo poppava, nascosto dalla palla foderata di pelliccia. Solo il suo visetto spuntava, illuminato dal chiarore della luna, che quella notte sembrava più brillante che mai. Pareva voler guidare i loro passi, ma al contempo, disgraziatamente, li rendeva più visibili ai loro nemici.

Livia non ricordava nemmeno quand'era stata l'ultima volta che aveva dormito. Certamente non durante l'assedio di Perugia, quando suo marito e gli altri soldati antoniani cercavano di difendersi dagli attacchi del giovane Ottaviano. Impossibile dormire nel frastuono della battaglia, impossibile calmare i vagiti terrorizzati di suo figlio, impossibile ignorare gli sguardi sempre più terrorizzati degli assediati. Di una in particolare, la ragione per cui erano finiti in quel pasticcio.

Fulvia, la moglie di Marco Antonio. Era stata lei ad asserragliarsi a Perugia, lei a pestare la coda a un leone che aveva già dato prova di tutta la sua ferocia.

Ora era tutto finito. Avevano perso. La cittadella era stata violata e Livia e gli altri erano fuggiti.

Camminando e utilizzando mezzi di fortuna erano giunti a Neapolis, da dove ora cercavano di imbarcarsi di nascosto. L'Italia non era più sicura per chi era stato dalla parte di Marco Antonio. E suo marito era tra questi.

Livia incrociò lo sguardo impaurito della sua migliore amica, Diotima. Avevano la stessa età ed erano nella stessa situazione. Madri da poco più di un anno, mogli di soldati in fuga, inseriti nelle liste di proscrizione.

Le strinse la mano per farle coraggio, ma sapeva cosa Diotima stava vedendo: la sua stessa paura, la sua stessa angoscia.

Il porto era sempre più vicino. I loro mariti scivolavano tra le ombre, riparandosi dietro muri, carri di fieno e ogni altro possibile nascondiglio.

Ecazia e la nutrice di Virginia, la figlia di Diotima, le seguivano. Virginia dormiva, fermamente sorretta dalla balia, e sembrava non rendersi conto del pericolo che stavano tutti correndo.

Livia si soffiò sulle mani, per scaldarle. Era il gennaio più freddo che avesse mai affrontato, ma forse la paura aumentava i disagi di quella notte. Il timore di non farcela, il terrore di essere catturata e giudicata per aver sposato l'uomo sbagliato. Non che avrebbe potuto opporsi alla decisione di suo padre. Nessuna donna poteva.

I loro mariti fecero cenno al gruppo di radunarsi. Erano solo in sei. Avevano dovuto lasciare i loro schiavi, non avrebbero mai potuto farli salire tutti di nascosto sulla nave. E non avevano abbastanza denaro da pagare il viaggio a più di sei persone, più due infanti di quattordici mesi.

«Ora più che mai dovete stare zitte» sibilò Tiberio Claudio Nerone, il marito di Livia.

Quattro teste femminili annuirono, occhi sgranati a mostrare il bianco della cornea. Livia osservò Ecazia, che osservava preoccupata Tiberio. L'ansia saettò tra i loro occhi. Livia avrebbe voluto dirle qualcosa, ma suo marito glielo aveva appena impedito.

Poi corsero. Corsero fino alla passerella che saliva sulla nave.

E fu lì che Tiberio emise il suo primo vagito. Il cambio di velocità lo aveva allarmato e si era staccato dal seno di Ecazia, liberando un lungo, assordante gemito.

Livia si voltò verso la nutrice, che era impallidita. «Continua a correre» le sussurrò, e così fecero, mentre intorno a loro sentivano risvegliarsi delle voci.

Arrivarono alla passerella e salirono i gradini a due a due, tenendo le vesti sollevate. E poi giunsero alla scaletta che saliva lungo la fiancata dell'imbarcazione.

Lì gli uomini fecero salire prima le mogli. Livia si arrampicò più in fretta che poté, impacciata dal mantello e dalla gonna. Una volta in cima, allungò le braccia verso il basso. Ecazia si tolse il bimbo dal petto e lo porse a Nerone, che era più alto e poteva spingerlo più facilmente verso la madre.

Il piccolo iniziò a urlare, sconvolto dal freddo - ora che era uscito dal caldo riparo del seno della balia - e dal brusco movimento.

Le voci dalla spiaggia si fecero più concitate.

«Muoviti a prenderlo!» ruggì Nerone alla moglie.

Lei implorò l'aiuto di Diotima con lo sguardo. L'amica le resse le gambe mentre Livia si gettava nel vuoto, riuscendo infine a circondare il figlio con le braccia e a issarlo a bordo. Poi fu il turno di Virginia, che non emise nemmeno un lamento. Nessun dramma pareva in grado di strapparla al suo dolce sonno. Le nutrici si arrampicarono in fretta, seguite a ruota da Nerone e Quinto Munazio.

La nave non era presidiata, a differenza della spiaggia attraverso la quale erano sgusciati. Il gruppetto si rifugiò in un angolo libero del ponte, sul quale erano accovacciate altre misere figure incappucciate. Altri fuggitivi, altri nemici della Repubblica.

Livia tenne stretto Tiberio, mormorando parole rassicuranti, canticchiando con un filo di voce, il solo che le rimaneva per tutta la paura che provava.

«Fallo stare zitto o siamo tutti morti!» le ingiunse infuriato Nerone.

Lei ci provò, le lacrime che le scorrevano lungo le guance. Infine, forse perché un dio provò pietà per lei, Tiberio si calmò. Lei lo nascose sotto il mantello, facendo spuntare solo il visino in modo che non soffocasse.

Diotima le si strinse contro. «Andra tutto bene, vero? Siamo in salvo ora.»

Livia annuì, incapace tuttavia di frenare il pianto. Sarebbe stata quella la sua vita, da quel momento innanzi? Una continua fuga nella notte, da una città all'altra?

Diotima l'abbracciò, attenta a non svegliare la figlioletta. E così rimasero fino a quando, alle prime luci dell'alba, la nave non lasciò le sponde di Neapolis, diretta verso il loro incerto futuro.

Livia aprì gli occhi e impiegò un po' di tempo a riconoscere l'ambiente in cui si trovava. Non era adagiata sul duro legno della nave, ma su un morbido torus imbottito di lana e rivestito di stoffe morbide. Sopra di lei non c'era il cielo d'inchiostro punteggiato di stelle e illuminato da una luna sfacciatamente bianca, bensì un soffitto di stucco bianco decorato da ramoscelli fioriti. Accanto a lei non c'era una Diotima terrorizzata che stringeva a sé la figlia di poco più di un anno, bensì...

Livia si tirò su sui gomiti, scrutando nel buio l'altra metà del letto, vuota e fredda.

Improvvisamente sveglia, scalciò via le coperte, indossò le crepidae da casa e coprì le spalle con una pelliccia, prima di uscire dal cubiculum. Ignorando le schiave subito pronte a prepararla per una nuova giornata, vagò per la casa seguendo il suono di voci maschili che proveniva dal vestibulum.

«Non è necessario» stava dicendo suo marito. «Possiamo partire tutti insieme. Ho promesso a Livia che saremmo rimasti qui qualche giorno.»

«Non voglio aspettare.» Quella era la voce di Agrippa. «Mia moglie è incinta e quella donna...»

«È solo una pazza. Non crederai davvero alle sue farneticazioni?»

«Tu sei il primo a credere ai segnali degli dèi.»

«Dei nostri dèi. Certamente non di divinità straniere che parlano attraverso la bocca di gente qualunque.»

«Tu torna quando vuoi. Io ho bisogno di assicurarmi che Claudia Marcella stia bene.»

Ottaviano sbuffò, contrariato. «E sia. Fa' buon viaggio.»

«Saluta tutti da parte mia.»

Le fauces si aprirono con uno scricchiolio, e solo allora Livia raggiunse il marito, in tempo per vedere Agrippa montare a cavallo e dargli di sprone.

«Agrippa torna a Roma?» chiese, anche se non ce n'era alcun bisogno. La verità era lampante davanti ai suoi occhi.

«Sì.»

Livia lo scrutò. Ottaviano era irritato. Lo capì dalla linea severa delle labbra serrate, dalla mascella contratta, dalla piega che avevano assunto le sue sopracciglia. «Ha paura...»

«Non lo credevo così sciocco e superstizioso» la interruppe lui, astioso. «Devo ammettere che sono deluso.»

Ottaviano detestava le situazioni che non poteva controllare. Se avesse ordinato ad Agrippa di restare, lui avrebbe obbedito. Ma lui era molto più di un sottoposto. Era il suo migliore amico e più fedele alleato e Ottaviano non gli avrebbe mai imposto la sua volontà.

Livia rifletté su quale fosse la mossa migliore. «Vuoi che torniamo anche noi? Possiamo fare i bagagli e partire dopo pranzo.»

Ottaviano si voltò verso di lei. E sorrise, prendendola per le spalle. «Ti ho promesso che avresti trascorso del tempo con la tua amica. E non vedo perché dovremmo cambiare i nostri piani. Non è successo nulla.»

Ovviamente avevano parlato della sacerdotessa di Iside, mentre rincasavano dal porto. Diotima era preoccupata, e anche le sue figlie. Druso scrutava la madre ansioso, mentre Tiberio era come sempre imperscrutabile e le sue emozioni tenute saldamente sotto controllo. Ottaviano aveva liquidato l'argomento come se fosse una cosa da nulla. Una matta che diceva assurdità. Voleva intimidire la folla, cercava di colpire lui. Ma non c'era riuscita. La Venus era partita e il suo viaggio si sarebbe concluso in pieno successo. Altre navi sarebbero salpate da Miseno e avrebbero pattugliato i mari. Iside non avrebbe certo potuto affondarle tutte.

Livia rispose al suo sorriso, forzandolo un po'. «No, infatti. Hai già fatto colazione?»

«Non ancora.»

«Andiamo, allora.»

Lo prese a braccetto, guidandolo verso il triclinio ancora vuoto. Era molto presto, la casa era ancora addormentata.

«Quali sono i tuoi programmi per la giornata?» le domandò Ottaviano davanti a un frugale piatto di pane e formaggio.

«Diotima mi ha parlato di una taberna che commercia pregiate stoffe per confezionare toghe. Volevo trovare qualcosa che vada bene per Tiberio.»

Ottaviano le indirizzò un'occhiata vacua. Realizzando che non aveva idea di cosa lei stesse parlando, Livia incrociò le braccia al petto, serrando le labbra.

Poi Ottaviano si rianimò. «Giusto. Quando avevamo detto che sarà?»

«Alla fine di aprile.»

Livia sospirò. Non poteva essere troppo dura con lui. Non era un uomo comune afflitto da preoccupazioni comuni. Era il padre di Roma e di tutti i suoi territori. Aveva molti più figli che non i soli Giulia, Tiberio e Druso.

«Non prenderti impegni per quella giornata» aggiunse, in tono più dolce. «Sai quanto Tiberio tenga alla tua presenza. È il tuo sguardo il primo che cerca quando ha un qualunque successo. Non quello della donna che ha lottato per metterlo al mondo e tenerlo in vita.» Alzò gli occhi al cielo, facendolo sorridere proprio come sperava.

«Non mancherei per nulla al mondo» le assicurò Ottaviano.

La cerimonia della toga virile era un momento importante per qualunque ragazzo. Rappresentava la fine dei giochi e delle spensieratezze, l'inizio degli obblighi e dei doveri. Tiberio avrebbe avuto una festa grandiosa, avrebbe sfilato per le vie dell'Urbe con indosso la sua magnifica toga d'avorio e tutto il popolo lo avrebbe guardato con occhi diversi. Perché non sarebbe stato più un ragazzo, ma un uomo che avrebbe contribuito alla gloria dell'impero.

«Tu invece? Cosa farai oggi?» gli chiese Livia, dopo qualche istante trascorso a mangiare.

«È una bella giornata. Penso la trascorrerò rilassandomi, cosa che non faccio da un po'.»

«Ottima idea. Porta le guardie, però.»

«Anche tu.»

«A me basta Zosimo.»

«Hai troppa fiducia in un solo uomo. Non è stato Zosimo a salvarti quando i Papiri hanno cercato di ucciderti.»

«No, ma non ci sono riusciti comunque.» Livia gli prese la mano, stringendola forte. «Smetti di pensare a quella brutta storia. Ora hanno minacciato te.»

«Quando?» Ottaviano le rivolse uno sguardo tanto genuinamente sorpreso che Livia si preoccupò seriamente. Ma poi il marito sorrise. «Ho già dimenticato ogni parola.»

Livia trattenne uno sbuffo e tornò al suo ientaculum. In quel momento furono raggiunti da Diotima, che si sedette con loro e iniziò a mangiare. Era pallida e aveva ombre scure sotto agli occhi stanchi.

«Hai dormito male?» le chiese Livia.

Diotima giocherellava con un pezzetto di pane. «Tanti pensieri.»

«Sei preoccupata per Calidio» intuì Livia, preparandosi a consolarla, ma il marito la batté sul tempo.

«Non esserlo. Nessuna dea lo sta perseguitando, ve lo garantisco.»

Diotima gli rivolse un sorriso tirato. «No, naturalmente no.»

Mangiarono in silenzio per un po', poi Livia chiese: «Ti va ancora di uscire, oggi?»

«Certo. È una giornata così bella.»

Così, dopo aver ripulito il vassoio, le due donne si ritirarono nelle loro stanze per cambiarsi. Muna e Hafa operarono la loro magia sulla testa e sul volto della padrona e pensarono anche a vestirla. Quando fu pronta, Livia scoprì che Diotima e Zosimo l'attendevano già nel vestibulum. Livia uscì dalla domus e fu subito abbagliata da un sole quasi aggressivo. Il cielo era azzurro, senza nemmeno una nuvola. L'aria scaldava le guance tormentate dal freddo notturno - Diotima era abbastanza parsimoniosa riguardo al riscaldamento e sia Livia che Ottaviano, freddolosi di natura, avevano patito molto in quei giorni, dentro la gelida casa di pietra, ma era stato un incentivo a riscaldarsi in un'altra maniera, sotto alle pesanti coperte e pellicce.

Non sembrava che quella giornata si accordasse con la maledizione di Iside.

Rincuorata da quei segni favorevoli, Livia prese a braccetto Diotima e si lasciò guidare lungo le strade. Tutto era tranquillo, mancava il traffico che regnava a Roma; lì le persone sembravano seguire un ritmo del tutto diverso, meno frettoloso, meno caotico, più rilassato, più in armonia con la natura, sebbene non fosse affatto un paesino di campagna. Ma Miseno era talmente diversa da Roma che Livia avrebbe potuto pensare di essere nella favolosa Arcadia, popolata da pastori e fanciulle ridenti con i capelli intrecciati di fiori.

Arrivate nella piazza principale, Diotima la guidò verso una taberna lanaria. Livia esaminò i vari tipi di lana in esposizione: cardata e non, filata e non, tessuta e non, bianca o colorata, a righe, con o senza bordi tinti. Diotima aveva ragione: erano tutti tessuti di prima qualità. Fecero una capatina anche nella taberna vestiaria adiacente, che vendeva abiti giù cuciti, tra cui anche splendide toghe, ma Livia voleva che Tiberio indossasse un capo fatto su misura per lui. Nonostante la giovane età, aveva già le spalle larghe e un fisico da lottatore. Trovare un abito che gli calzasse a pennello era un'impresa.

Livia scelse il tessuto più costoso e comandò che fosse consegnato a casa di Diotima, dove il venditore avrebbe ricevuto il suo pagamento dalle ancelle, cui aveva consegnato la chiave della piccola arca da viaggio. Lì dentro erano custoditi sesterzi, denari e aurei, una piccola parte del tesoro di famiglia. Livia si fidava abbastanza delle due egiziane da non temere furti o inganni. Erano due ragazze splendide e sapevano che non avrebbero mai trovato una padrona più generosa di lei. Inoltre conoscevano il suo carattere: sapevano che lei non perdonava gli sbagli, e anzi li faceva pagare a caro prezzo.

Mentre il venditore incaricava uno schiavetto di consegnare la stoffa, Livia e Diotima continuarono a passeggiare tra le varie tabernae, seguite come un'ombra da Zosimo. Livia pensò che, una volta a Roma, avrebbe portato il taglio di lana da un sarto, in modo che potesse tagliare e cucire la toga direttamente sul corpo di suo figlio. Tiberio doveva essere splendido, tutto doveva essere perfetto. Nessuna ombra doveva offuscare quella giornata. Nessuna maledizione doveva aleggiare sulla loro testa.

«Dov'è il tempio di Iside?» chiese improvvisamente Livia, come se la domanda le fosse giunta solo in quel momento e non ci avesse invece rimuginato sopra tutta la notte.

Diotima si irrigidì. «Perché me lo chiedi?»

«Mi piacerebbe visitarlo.»

L'amica non era convinta. «È un po' fuori mano...»

«Sei stanca?»

«No, ma...»

«Diamo solo un'occhiata e torniamo a casa.»

Diotima sospirò ma si arrese. Non si vedevano da più di un decennio ma ricordava che era impossibile tenere testa a Livia Drusilla. Nemmeno suo marito, l'imperatore, ci riusciva.

Uscirono dal centro cittadino e iniziarono a inerpicarsi su una piccola collina, in cima alla quale sorgeva un tempietto di marmo e pietra. Alcuni sacerdoti, che Livia riconobbe dalla processione del giorno prima, stavano intonando un inno, mentre purificavano un altare bianchissimo.

«Dea dalle molte facoltà, onore del sesso femminile, amabile, che fa regnare la dolcezza nelle assemblee, nemica dell'odio. Tu regni nel Sublime e nell'Infinito. Tu trionfi facilmente sui despoti con i tuoi consigli leali. Sei tu che, da sola, hai ritrovato tuo fratello Osiri, che hai ben governato la barca e gli hai dato una sepoltura degna di lui. Tu vuoi che le donne si uniscano agli uomini. Sei tu la Signora della Terra. Tu hai reso il potere delle donne uguale a quello degli uomini...»

Livia stava sbadigliando, profondamente annoiata, ma quell'ultima frase la destò improvvisamente. Forse quella dea non era poi così male, se dava un tale potere al suo sesso.

Attese rispettosamente che l'inno terminasse, quindi si fece avanti: «Buongiorno a tutti voi. Siete sacerdoti di Iside?»

Quelli si voltarono. Erano molto simili, con i crani rasati e le pallae bianche, ma diversi per altezza, stazza, età e corporatura. Il più anziano, che doveva essere sicuramente il sommo sacerdote, rispose: «Serviamo la dea. Volete essere iniziate ai suoi misteri?»

«Che idea profondamente ridicola. Sono qui per chiedervi se la donna che ieri ha scagliato una maledizione contro mio marito e i suoi uomini sia una vostra adepta.»

L'uomo non tradì alcuna sorpresa o panico. «Sappiamo a chi vi riferite, anche se avevamo già lasciato il porto prima che quella donna facesse la sua comparsa. Le voci corrono, specie in un piccolo paesino come questo. Non l'abbiamo mai vista, non crediamo sia di queste parti.»

«Ha gettato un'ombra infamante sul vostro culto.»

«Non sappiamo se la dea le abbia davvero parlato. Forse è sacerdotessa di un altro tempio, in un'altra città. Ma temiamo che non sia solo una millantatrice. Temiamo abbia commesso un crimine ben più concreto.»

«Ossia?»

«Ieri, mentre tornavamo al tempio dopo la festa, abbiamo notato che alcuni oggetti di proprietà del tempio erano scomparsi. E, dalle voci che correvano al porto, crediamo che quella donna li avesse indosso quando è apparsa.»

«Che genere di oggetti?»

«Abiti, oggetti sacri. Una parrucca.»

Diotima sussurrò all'orecchio di Livia, con un briciolo di malizia: «Sapevo che doveva essere un posticcio. Quei capelli erano troppo folti e corvini per essere veri.»

«Che ve ne fate di una parrucca?» domandò Livia, che condivideva il pensiero dell'amica.

«La usiamo nelle celebrazioni come quella di ieri.»

«E perché ieri non l'avete usata?»

«Gli adepti vanno e vengono. Non tutti vedono il servizio alla dea come un impegno serio e duraturo.»

«Dunque avevate più parrucche che sacerdotesse?»

Il sommo sacerdote fece una smorfia, il primo segno di insofferenza da quando aveva iniziato a rispondere alle sue incalzanti domande. «Esatto.»

Livia sbirciò gli altri adepti, ma quelli stavano alle spalle del capo, muti e impassibili. «Sapete dirmi altro su di lei? L'avete incrociata? Le avete parlato?»

«Niente di tutto questo. È una completa estranea.»

Non ricaverò altro da loro, ragionò Livia. «Bene. Vi ringrazio per la vostra disponibilità. Buona continuazione.»

Si voltò e fece per scendere dalla collina, seguita da Diotima e Zosimo, quando sentì uno scalpiccio di piedi alle sue spalle. Si girò, solo per vedere un giovane sacerdote bloccato dal muscoloso braccio della sua guardia del corpo.

Il ragazzo deglutì, ma sussurrò concitato: «Iside non è una dea vendicativa. Non avrebbe mai detto quelle cose.»

Livia ammirò il suo coraggio. Non erano in molti a mantenere la lucidità quando si trovavano nella ferrea stretta di Zosimo. Perciò lo ricompensò con un sorriso: «Ne sono sempre più convinta anch'io.»

Una volta tornate a casa, quasi si scontrarono con Asclepiade, che stava uscendo di fretta dalla domus con la sua sacca di strumenti chirurgici e piante medicinali.

«Dove stai andando?» gli domandò Livia, stupita.

«Dalla kyria Larzia, domina. Ha mandato un codicillum, domandando cortesemente a voi e al dominus Augusto se potesse avvalersi delle mie conoscenze per darle risposta circa un disturbo che l'affligge ormai da giorni.»

«Al banchetto sembrava stare benissimo» considerò Diotima, sollevando le sopracciglia.

«Il dominus Augusto mi ha dato il permesso di andare dalla kyria per visitarla.»

Livia lo scrutò con attenzione. Sapeva che il suo medico era molto diligente e aveva a cuore ogni singolo paziente, ma quella fretta sembrava eccessiva persino per lui. «So che Larzia è una bella donna, ma ricordati che è sposata.»

Asclepiade strabuzzò gli occhi, diventando rosso come una mela matura. «Domina, io non oserei mai...»

«E ricordati anche che Augusto non tollera gli amori adulterini.»

«Lo so bene, domina, e non...»

«Va bene, va bene.» Livia pensò di averlo tormentato a sufficienza. «Confido nella tua onestà e rettitudine. Porta i nostri saluti a Larzia.»

«Certamente, domina. Ma vi assicuro che...»

Livia e Diotima lo oltrepassarono ridacchiando e si chiusero il portone alle spalle prima di udire l'ennesima rassicurazione dell'imbarazzatissimo medico. Livia chiese alle ancelle se il servo del venditore avesse consegnato le stoffe e le ragazze le mostrarono l'involto di lana. La padrona si fece riconsegnare la chiave del tesoro - non c'era alcun bisogno di indurre ancor più in tentazione quelle due oneste fanciulle - e andò a controllare i figli. Druso e Nevia erano nel peristilio a giocare con la palla, mentre Virginia e Tiberio non si vedevano. Gli schiavi la informarono che erano andati in spiaggia. Alcune guardie di Ottaviano li scortavano.

Arrivò l'ora del pranzo e mangiarono tutti insieme. Livia notò che le guance solitamente pallide di Virginia si erano accese e persino Tiberio sembrava più allegro e meno scostante del solito. Druso e Nevia divorarono ogni pietanza di un batter d'occhio e poi implorarono di poter tornare a giocare. Le madri accordarono il permesso e, quando anche i figli maggiori si alzarono, rimasero sole a godere della reciproca compagnia e a parlare dei vecchi tempi.

Ottaviano rientrò a metà pomeriggio, il viso riscaldato dal sole e i capelli scompigliati dalla brezza marina. Mentre consumava un leggero e tardivo pasto, l'ostiarius informò che c'era un uomo alla porta. Poiché Diotima era scomparsa, fu Livia ad andare a vedere chi fosse.

Era un uomo di mezza età, piuttosto in carne, con un atteggiamento umile e dimesso. «Ave, nobile Livia Drusilla. Sono qui per l'informazione che il nobile princeps desiderava.»

Lei non aveva idea di cosa stesse parlando, ma lo spronò: «Dì pure a me.»

«La donna del porto ha soggiornato da me un paio di notti. È ripartita ieri mattina. Non so molto altro, purtroppo.»

Livia rimase di sasso e si ritrovò a sbattere le palpebre per svariati istanti, prima di ritrovare la favella. «Vieni con me.» Lo guidò fino al triclinio dove Ottaviano stava mangiando. L'uomo si guardava intorno nervoso, tormentandosi l'orlo del pallium. Probabilmente si domandava se non avesse detto qualcosa di sbagliato.

Una volta varcata la soglia, Livia disse ad alta voce: «Mio caro, quest'uomo ha informazioni sulla sacerdotessa di Iside.»

Ottaviano fermò a mezz'aria la mano con cui si stava infilando in bocca un pezzo di fagiano arrosto. La fissò, mentre una miriade di emozioni gli alterava i lineamenti del volto. Poi abbassò la mano, lasciò cadere il boccone, si pulì con un linteum e si schiarì la voce. «Ah. Bene, dì pure.» Cercava di recuperare la padronanza di sé e il suo sguardo evitò risolutamente quello di Livia, soffermandosi invece sul visitatore.

«Come ho detto alla vostra illustre consorte, quella donna ha affittato una stanza nella mia caupona, "La dolce vita". Si è presentata due giorni fa ed è ripartita ieri mattina. Si è registrata come Gaia.»

L'uomo aveva parlato a testa bassa, china e rispettosa. Livia fissò Ottaviano, ma lui continuò a ignorarla. Il suo volto si era soffuso di rossore, ma cercava di mantenere l'impassibilità e la fermezza che lo contraddistinguevano. «Dunque è una forestiera.»

«Non l'ho mai vista a Miseno, prima» assentì il locandiere.

«Ha detto qualcosa che potrebbe essere rilevante?»

«Non ha parlato molto, ha chiesto una stanza tranquilla e ha pagato per due notti.»

«Ha ricevuto visitatori?»

«Nessuno.»

«Ha mangiato con qualcuno?»

«No, sempre da sola.»

Ottaviano si alzò. «Va bene, grazie mille.» Andò dalla moglie e tese una mano. «Mi puoi consegnare la chiave del tesoro?»

Livia si tolse la catenella dal collo e gliela consegnò. Lui l'allungò a uno schiavo, che fino ad allora era rimasto in silenzio contro una parete, in attesa di ordini. «Dai dieci sesterzi a quest'uomo.»

Gli occhi del locandiere brillarono, mentre sprofondava in un inchino. «Vi ringrazio, princeps. Siete davvero generoso e munifico come dicono.»

Il servo tornò poco dopo con il denaro, che consegnò al locandiere prima di scortarlo fuori dalla domus. Quindi restituì la chiave a Livia, che se la rimise al collo, e tornò nella posizione di poco prima, contro la parete, a fissare il vuoto.

Solo allora, Livia si voltò verso Ottaviano.

«Non guardarmi così» disse subito lui, tornando a mangiare.

«A quanto pare non hai proprio dimenticato le parole di quella donna» insinuò Livia, più divertita che arrabbiata.

«Ho visto quanto eri nervosa e volevo tranquillizzarti facendo qualche domanda in giro, tutto qui.»

Livia trattenne un sorriso e si sedette accanto a lui. «Anch'io ho scoperto qualcosa. Quella donna è una ladra. Ha rubato dal tempio di Iside, qui a Miseno. E i sacerdoti non la conoscono. Credono sia una millantatrice.»

Ottaviano l'aveva fissata a bocca aperta: ancora una volta, la sua mano si era bloccata prima che il fagiano raggiungesse le sue labbra. Ancora una volta, posò il boccone sul vassoio, dedicandole tutta la sua attenzione. Livia pensò che l'avrebbe rimproverata, invece commentò: «Questo lo sapevamo già.»

Dato che non voleva essere lui a fare il primo passo, lo fece lei, sfidandolo: «Hai promesso addirittura una ricompensa a chi ti avesse portato informazioni su di lei?»

«La gente parla solo così.»

«Anche le minacce funzionano.»

«Solo quando credi che una persona sappia più di quanto dice.»

Livia scosse la testa, sorridendo. «Sei una continua sorpresa.»

Ottaviano si accigliò. «Tu non dovevi cercare una toga per Tiberio?»

«E tu non dovevi fare una semplice passeggiata?»

Il marito allungò un braccio, attirandola a sé fino a sfiorare le sue labbra. «Siamo entrambi disonesti» mormorò, con una strana luce negli occhi.

«Come possiamo fidarci l'uno dell'altra?»

Voleva provocarlo, scherzare con lui, ma Ottaviano si fece improvvisamente serio. «Non c'è nessuno di cui mi fiderei ciecamente in questo mondo, a parte te.»

Livia si sentì gonfiare il cuore ma, invece di rispondergli che anche per lei era così, preferì alleggerire il tono. «Lo dici solo perché sai di averla fatta grossa.»

«Pensavo fossimo d'accordo di spartire egualmente la colpa» si difese lui, stando al gioco.

«Solo per stavolta» sussurrò Livia, intrappolando le sue labbra in un bacio appassionato.


DIZIONARIO DELLE PAROLE LATINE

Caupona: ostello privato e ristorante in cui si poteva mangiare, bere e dormire

Codicillum: bigliettino

Crepidae: sandali di cuoio intrecciato indossati in casa

Domina, dominus: padrona e padrone

Fauces: entrata principale della domus

Ientaculum: colazione

Linteum: telo di lino, poteva essere usato come asciugamano o tovagliolo a seconda delle dimensioni

Ostiarius: schiavo portiere

Vestibulum: breve e stretto corridoio che dalla porta d'ingresso portava alle fauces, la vera e propria entrata della domus

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top