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Quarto giorno prima delle Idi di aprile (10 aprile)

La reazione di Ottaviano non si fece attendere. Già due giorni dopo l'invio della missiva giunse la sua risposta. I messaggeri imperiali avevano sfiancato i cavalli per recapitare quelle lettere della massima importanza nel minor tempo possibile. Livia lesse le parole del marito mentre era sdraiata a letto, debilitata da un'influenza improvvisa causata da una giornata insolitamente fredda e umida. La gola le doleva, il cervello premeva contro la scatola cranica come se desiderasse uscirne, il naso le colava e le dolevano le ossa. Diotima si prendeva cura di lei, somministrandole i rimedi che Asclepiade riservava almeno quattro volte l'anno a Ottaviano. Gli infusi di erbe curative, il brodo di gallina e le rassicurazioni del marito infusero nuova energia in Livia, che avrebbe voluto uscire dal cubiculum per partecipare alle ricerche di Heqet, ma Diotima la costrinse al risposo assoluto. Solo così sarebbe guarita più in fretta.

Ogni giorno le arrivavano rapporti dalle sue guardie: le ronde di milites inviate dal princeps erano arrivate a Miseno e pattugliavano ogni anfratto della città; fogli di papiro con disegnata la faccia di Heqet erano stati appesi in tutta l'Italia; nei porti si svolgevano controlli a tappeto di chiunque cercasse di imbarcarsi su una nave; la ricompensa per chi avesse trovato Heqet aveva raggiunto un aureo; la donna era stata inserita nelle liste di proscrizione e chiunque l'avesse incontrata avrebbe potuto ucciderla impunemente. Per ottenere la ricompensa bastava mostrare la sua testa.

Giorno dopo giorno Livia si faceva sempre più nervosa. Voleva che quell'incubo finisse, voleva poter dire alla sua amica che ce l'aveva fatta, che aveva risolto il caso, che aveva vendicato suo marito. Diotima l'aveva chiamata in soccorso e non poteva deluderla. Non di nuovo.

Tre giorni dopo la scoperta del cadavere di Licinio, Livia fu presa dalla febbre. Tutti i suoi mali peggiorarono e Diotima si spaventò sul serio. Ma Livia la rassicurava: era di tempra forte, avrebbe superato anche quella tempesta.

Nell'apice della malattia, mentre la fronte bruciava e sudori freddi le ruscellavano lungo le tempie, Livia afferrò la mano dell'amica. «Mi dispiace di averti abbandonata.»

«Non mi hai mai abbandonata» la contraddisse Diotima, sinceramente stupita.

«Ho scelto Ottaviano. Ti ho lasciata.» Livia aveva la voce rauca per il mal di gola, nonostante le cucchiaiate di miele che continuava ad assumere.

Diotima le carezzò i capelli sudati. «Hai avuto una scelta. Se l'avessi avuta anch'io sarei venuta con te.»

«Potevo chiedere a Ottaviano di portarti con noi.»

«E strapparmi a mio marito? Munazio non ve l'avrebbe permesso. Mi avrebbe uccisa piuttosto. È sempre stato geloso di me. Ogni volta che partiva per una battaglia mi guardava con autentica rabbia. Non temeva di morire, ma di lasciarmi libera di stare con un altro. Credeva mi circondassi di amanti non appena lui mi voltava le spalle. Non sai quante volte abbiamo litigato per questo motivo. I nostri schiavi erano tutti vecchi o donne, dimodoché non mi inducessero in tentazione.»

Livia non l'aveva mai realizzato. Era vero, Diotima non aveva mai avuto uno schiavo che avesse meno di sessant'anni. Era circondata da ancelle e cuoche e a badare agli affari del paterfamilias erano vecchi malandati e canuti.

«Eppure hai pianto quando è morto.»

«Ho pianto anche quando è morto Calidio. Non perché li amassi, ma perché erano il mio rifugio, il mio porto sicuro. Erano pieni di difetti, ma mi proteggevano dalle intemperie della vita.»

«Chi ti manca di più? Chi rivorresti indietro?»

Diotima la guardò placida. «Nessuno dei due. Chissà, magari troverò un altro uomo, migliore di entrambi. Oppure riuscirò a cavarmela da sola. Virginia tra poco si sposerà e dovrò occuparmi di Nevia solo per qualche altro anno prima che anche lei diventi moglie e madre. E allora saranno loro a occuparsi di me, della loro povera, vecchia madre.» Sorrise e le posò un linteum bagnato e fresco sulla fronte.

Il giorno dopo, Livia si sentiva meglio. La febbre era scomparsa, i dolori anche. Persisteva un po' di tosse e doveva continuamente soffiarsi il naso, ma il peggio era passato. Era pronta per riprendere la battaglia.

E la battaglia arrivò proprio sulla soglia della domus di Diotima.

Livia stava uscendo da una tinozza di acqua che le schiave avevano scaldato perché potesse lavar via i residui della malattia, quando sentì il trambusto che proveniva dal vestibulum. Lasciò che Hafa e Muna la vestissero, pettinassero e truccassero prima di uscire dalla stanza e scoprire che nell'atrium si era formato un gruppetto di gente. Guardie imperiali, la familia di Diotima, le padrone di casa e persino Tiberio erano lì, gli occhi puntati su qualcosa che Livia non poteva scorgere.

Si fece largo tra la folla, a passi lenti e misurati perché era la prima volta in quattro giorni che abbandonava il suo cubiculum. Dopo aver oltrepassato l'ultima schiena, la vide.

Al centro del cerchio, le braccia schiacciate dalla morsa di due guardie, una delle quali era Zosimo. Era brutta e grassa esattamente come Livia ricordava, ma questa volta l'aria di superiore arroganza che aveva sostenuto per tutta la durata del loro primo e unico colloquio era sostituita da uno sguardo impaurito.

«Heqet» disse Livia e non le parve vero di pronunciare finalmente il suo nome. Dopo giorni di ricerca, finalmente l'avevano trovata.

Non appena la vide, la donna provò a buttarsi in ginocchio, ma la presa delle guardie glielo impedì. Quindi poté solo crollare il capo, mormorando con voce soffocata: «Imperatrice. Mi consegno a voi. Voglio spiegarvi tutto.»

Livia sentì la calma impadronirsi di lei. Era perfettamente padrona della situazione. Avrebbe fatto cantare quell'uccellino e sarebbe stata melodia per le sue orecchie.

«Portatela nella stanza sul retro, dove avete messo la sua prima vittima» ordinò, seguendo poi il terzetto nella dispensa.

Una volta lì, Livia fece uscire tutti tranne Zosimo.

Heqet si guardò intorno, gli occhi saettanti che forse cercavano un'arma, forse una via di fuga, forse un altro nascondiglio. «Io non ho ucciso nessuno» assicurò poi, cercando di apparire forte.

Livia sollevò una mano e si sedette su una seggiola di legno. «Cominciamo dal principio. Come ti chiami?»

La donna sospirò. Forse non credeva che avesse scoperto anche quel piccolo dettaglio. «Gavia.»

Livia ripensò alla firma che aveva lasciato alla caupona di Lorcio. L'oste aveva detto che si chiamava Gaia, ma forse aveva solo scritto male il suo nome. «Dunque non avevi mentito alla caupona "La dolce vita". Hai solo un'orribile calligrafia.»

«Il mio nome è l'unica cosa che so scrivere» si accigliò lei.

Livia accavallò le gambe. «Dove sei stata per tutto questo tempo?»

«Quando ho saputo della visita che vi hanno fatto i tre ufficiali della Venus al Palatino, sono scappata da Roma. Mi sono rifugiata nei boschi che circondano Miseno, in modo da poter tenere d'occhio la situazione. Ho saputo tutto. Degli omicidi, del fatto che mi stavate cercando. Ma io non ho ammazzato nessuno.»

«Sei stata vista sulla scena di tutti e tre gli omicidi.» Livia intrecciò le dita intorno al ginocchio. «La notte in cui Calidio è tornato a Roma, tu l'hai seguito a "La dolce vita". Avete discusso, hai cercato di prendergli l'amuleto, poi lo hai seguito fuori nel vicolo e lo hai ucciso. Gli hai trafitto il cervello con un'arma lunga e appuntita, poi col sangue fuoriuscito dall'orecchio hai segnato tre linee sul suo petto, a indicare che era la terzultima vittima della maledizione di Iside. I tre ufficiali erano sopravvissuti al naufragio, erano sopravvissuti alla tua previsione, e hai voluto punirli. Hai seguito Manliano nella sua insula e lo hai ucciso nel suo cenaculum. Hai finto di chiedere l'elemosina davanti alla domus di Licinio, lui ti ha riconosciuta e ti ha portata nella sua stanza, dove lo hai ucciso. Poi sei scappata da un'apertura segreta dietro un arazzo e sei svanita di nuovo.» Livia la fissò glaciale, lasciando perdere la finta aria bonaria che aveva tenuto fino a quel momento. «La mia unica domanda è: perché consegnarti ora? Avresti potuto stare nascosta.»

Heqet - o Gavia - sbuffò. «Mi avreste trovata prima o poi. E se lo aveste fatto non mi avreste dato la possibilità di spiegare.»

«Spiegare cosa?»

«Che tutto quello che avete appena detto è un mucchio di letame. In questi giorni non ho fatto altro che nascondermi. Sono tornata a Miseno perché era qui che dovevo venire per ottenere la mia ricompensa.»

«Quale ricompensa?»

«Per la sceneggiata al porto.» La fissò, truce. «Avevate capito tutto, imperatrice. Era solo una farsa, uno spettacolo imbastito per spaventarvi. Non c'entro nulla con l'affondamento della Venus. Non sapevo nemmeno che sarebbe accaduto veramente! Mi hanno solo ordinato di blaterare quella maledizione e di sparire, perché mi avreste cercata e io non dovevo parlare. Ho continuato la recita a Roma, quando mi avete trovata. Sono riuscita a depistarvi. Poi ho saputo del ritorno dei tre ufficiali, della nave che era davvero affondata e ho avuto paura che poteste incolparmi, come infatti è accaduto. Sono fuggita a Miseno per rintracciare l'uomo che mi aveva dato quell'incarico.»

Livia cercava di tenere il passo con tutte quelle rivelazioni e al contempo di non mostrare alcuna emozione. «E lo avete trovato?»

«Non sapevo nemmeno chi fosse. Indossava una maschera teatrale quando mi ha approcciata.»

Livia respirò a fondo, perché non stava capendo nulla e iniziava a irritarsi. «E va bene. Ricomincia dall'inizio.»

«Ero venuta a Miseno per cambiare aria. Avevo avuto dei... problemini a Roma. Non avevo più soldi per pagare l'affitto e così sono stata cacciata di casa. Non volevo vivere per strada, così sono venuta qui, dove avevo una cugina che mi avrebbe ospitata. Una sera ero a "La dolce vita" a bere una cervisia, quando un uomo con una maschera e tutto avvolto in un mantello mi ha raggiunta. Ha detto che poteva rendermi molto ricca, se avessi fatto una cosa per lui.» Gavia si grattò la testa pulciosa. «Pensavo mi avrebbe chiesto tutt'altro, e devo dire che mi sono anche sentita lusingata, perché diciamocelo, non sono più tanto giovane...»

Come se fosse l'età il tuo problema, malignò Livia, ma non la interruppe.

«...ma poi lui mi ha spiegato la faccenda della barca. Il giorno del Navigium Isidis dovevo rubare i paludamenti sacri dal tempio di Iside, travestirmi e truccarmi da sacerdotessa di Iside e recarmi al porto che sarebbe stato inaugurato quel giorno. Dovevo scagliare una finta maledizione sulla nave e poi scappare. Mi ha dato un po' di denaro subito e il resto, ha detto, dovevo recuperarlo più avanti. Ci saremmo incontrati in quella stessa caupona un mese dopo il Navigium Isidis. Ho fatto tutto quello che mi ha ordinato. Con l'anticipo sono riuscita a riprendermi il mio cenaculum nella Suburra. Pensavo che fosse tutto uno scherzo, magari un po' di cattivo gusto. Non credevo che la nave sarebbe affondata davvero.»

Livia rimase in silenzio, assorbendo tutte quelle informazioni. «Tutte quelle storie sulla tua iniziazione ai misteri di Iside...»

«Tutte menzogne» rispose subito Gavia, sventolando secca la mano. «Non ho niente a che fare con la dea. Quando poi i tre ufficiali sono venuti a Roma e la voce dell'affondamento della Venus si è sparsa, ho capito di essere nei guai. Sono tornata a Miseno e ho aspettato nell'ombra che arrivasse il giorno in cui quell'uomo sarebbe tornato a pagarmi. Mi sono appostata fuori dalla "La dolce vita" il giorno prima che trovaste il prefetto morto. Quell'uomo non si è presentato e ho capito di essere stata una vera idiota a fidarmi di lui. Così sono tornata a nascondermi. Quando ho saputo che mi avevate resa una proscritta, ho deciso di consegnarmi. Vi dovevo la verità.»

«La verità» ripeté lentamente Livia. «E chi mi assicura che questa sia la verità?»

«Non ho modo di provarlo, è vero. Ma non ho ucciso io quelle persone. Volevo solo un po' di soldi per riprendermi la mia vita a Roma. Non ho mai ammazzato nessuno, non saprei neanche da dove cominciare!»

«Vuoi che ti mostri come sono morti?»

Livia si alzò e si sfilò uno spillone dall'elaborata capigliatura. Alcuni riccioli le scesero sul volto, incorniciandolo e ingentilendolo, mentre Livia si accostava a Gavia e avvicinava lo spillone alla sua testa. Sentiva l'olezzo del suo sudore, l'odore della paura. Gavia era bloccata dal tavolo su cui erano state esposte le spoglie di Calidio, ora occupato da coltelli affilati e sbuffi di farina.

«Gli hanno infilato un oggetto simile a questo nell'orecchio e hanno spinto fino a trapassare il cranio» mormorò Livia, accostando la punta dello spillone all'orecchio di Gavia. Lo poggiò e, all'improvviso, lo spinse dentro. Quella sussultò, la bocca si spalancò per emettere un grido, ma Livia si ritrasse, osservando lo spillone che non recava neanche una goccia di sangue. «Hai idea di quanto sangue si perda in questo modo?»

«No» deglutì Gavia, tremando in modo incontrollabile.

«Tanto.»

Gavia si passò le mani malferme sul volto, asciugando le gocce di sudore. «Vi ho mentito in passato, è vero. Continuavo la commedia perché così mi era stato chiesto di fare se volevo i miei soldi e, credetemi, mi servivano davvero. Ma quella che vi ho raccontato ora è la verità.»

Livia si abbeverava del suo terrore. L'avrebbe lasciata in quello stato ancora per molto, molto tempo. Erano notti che non dormiva a causa della guerra che quella donna aveva contribuito a scatenare. «Facciamo finta che ti creda. Come fai a sapere che era un uomo quello che ti ha approcciata?»

«La voce, il modo di camminare, il fisico, la statura. Non era una donna, ne sono sicura.»

«Ti ha detto perché dovevi fare tutto questo?»

«No. Gliel'ho chiesto, ma mi ha risposto che le domande non erano parte del nostro accordo.»

«Sapresti riconoscerlo?»

«Impossibile, imperatrice. La voce era distorta dalla maschera e tutta la sua figura era avvolta nella palla

Livia giocherellava con lo spillone appuntito, persa nei suoi pensieri. Infine drizzò la testa. «Trascorrerai la notte in questa stanza, sorvegliata a vista. Avrai la possibilità di difenderti in tribunale, quando verrai processata per omicidio, tradimento e lesa maestà. Torniamo a Roma domani.» Le diede le spalle e aprì la porta.

La sentì annaspare e cercare di raggiungerla. «Imperatrice, vi prego! Non ho fatto nulla!»

Zosimo la bloccò prima che potesse mettere le mani sulla sua padrona, che la osservò sorridendo dall'altra parte della soglia. «Vedremo se le tue doti attoriali impressioneranno Augusto.»

Chiuse la porta e ordinò a delle guardie di presidiarla giorno e notte. Comunicò a tutta la familia riunita che l'indomani sarebbero tornati a Roma. Il caso era concluso.

La folla si disperse rumoreggiando. Diotima la raggiunse, sussurrando: «Cosa ti ha detto?»

«Nega tutto, ovviamente. Mi ha raccontato una storia assurda...»

Proprio in quel momento vide uno schiavo correrle incontro dalla parte opposta della casa. Non era suo e nemmeno di Diotima. «Che succede?» domandò, stizzita da quella rumorosa interruzione.

Lo schiavo, giovane e in forze, ansimava, il viso lucido di sudore e paonazzo. «Mi manda la domina Flaminia! Il dominus... il corpo del dominus Licinio... è scomparso!»


DIZIONARIO DELLE PAROLE LATINE

Cervisia: birra

Sica: spada corta o grande pugnale usata originariamente dagli Illiri e adottata poi dai Romani

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