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Sesto giorno prima delle None di marzo (2 marzo)
Livia storse il naso e, ancora assonnata e con gli occhi chiusi, levò alla cieca una mano per scacciare la fastidiosa mosca che le stava facendo il solletico. Ma pochi secondi dopo l'insetto tornò e Livia si schiaffò una mano sulla faccia.
Alle sue orecchie giunse una risatina divertita, che la costrinse a sollevare le palpebre gonfie.
«Ma che...» gracchiò. I suoi occhi si posarono sul volto del marito, che la fissava disteso su un fianco.
Ci misero un po' a visualizzare, tra le nebbie oniriche, la piuma d'oca che si stava rigirando tra pollice e indice.
Ottaviano l'avvicinò di nuovo al suo naso, ma Livia si allontanò dalla traiettoria, rotolando lontano da lui e finendo per sbattere contro la parete di legno.
«Stavo facendo un bel sogno» si irritò, strofinandosi gli occhi e al contempo cercando le pellicce che, nel sonno, le erano scivolate lungo il corpo.
«Mi spiace averlo interrotto, mia cara, ma siamo quasi arrivati.»
Livia lo sbirciò con un solo occhio, il resto del volto sepolto nelle coperte. «Definisci "quasi".»
In quel momento le giunse alle orecchie la voce gioviale del cocchiere. «Siamo entrati a Miseno!»
Ottaviano sorrise e Livia sbuffò, allontanando malvolentieri le pellicce e tirandosi su a sedere. «Abbiamo fatto presto.»
«Abbiamo scelto degli ottimi cavalli.»
Livia si passò una mano sulla nuca, inclinando la testa da un lato e dall'altro. Subito la sua mano fu sostituita da quella del marito, che prese a massaggiarla con dolcezza. Livia sospirò dal naso, godendosi le coccole mattutine.
Che finirono anche troppo presto.
«Dobbiamo prepararci. O intendi presentarti ai nostri ospiti in tunica da notte?»
Livia borbottò qualcosa di incomprensibile, quindi iniziò a imitare il marito vestendosi in maniera approssimativa. Non c'erano schiavi nella carruca dormitoria, poiché viaggiavano su un altro carro insieme ai bagagli.
Non appena fu pronta, Livia aprì lo sportello di legno per guardare fuori. L'aria fredda del mattino le intirizzì il volto, ma l'imperatrice si beò comunque della vista della campagna, delle strade rurali, degli alberi ancora spogli per l'inverno e del mare che imbiancava l'orizzonte.
Miseno. Finalmente, dopo tre lunghi giorni di viaggio interrotti solo per cambiare i cavalli, erano arrivati.
Si passò una mano tra i capelli arruffati, ma rinunciò subito a dar loro una parvenza di ordine. Ci avrebbero pensato le sue ancelle egiziane, Hafa e Muna, a darle l'aspetto di un'imperatrice.
Si lasciò sfuggire una risata nel vedere Ottaviano alle prese con le pieghe della toga.
«Non ridere. Non è un lavoro per un solo uomo» borbottò lui, ma con le labbra piegate dal sorriso.
La verità era che, nonostante le scomodità del viaggio, erano di ottimo umore. Si stavano concedendo una piccola vacanza lontano dalla claustrofobica Roma, dai suoi intrighi politici, dai problemi quotidiani. Avrebbero trascorso qualche giorno sulla costa per ritemprare lo spirito e assistere all'inaugurazione del nuovo porto.
E Livia avrebbe finalmente rivisto la sua vecchia amica.
La carruca si fermò dolcemente, i cavalli nitrirono, il cocchiere scese dalla cassetta facendo traballare la struttura sotto la sua imponente mole - un uomo che passava la vita a condurre carri pieni di persone e merci non poteva certo avere tempo per l'attività fisica - e, dopo aver bussato e chiesto il permesso, spalancò il portello.
«Arrivati, princeps e kyria, in orario come promesso!» declamò con un ampio sorriso.
Ottaviano sospirò e infilò le dita in un borsello di pelle, dal quale estrasse cinque sesterzi, che finirono dalle sue mani curate a quelle callose del cocchiere, che ghignò. «È un vero piacere scommettere con voi!»
Ottaviano, in risposta allo sguardo corrucciato e alla smorfia che segnava la bocca della moglie, si schiarì la gola. «Ottimo lavoro. Sei il miglior cocchiere della penisola, non c'è che dire.»
Livia roteò gli occhi e cercò di dimenticare la scena cui aveva appena assistito. Non capiva né apprezzava l'amore del marito per il gioco d'azzardo e le scommesse ma, poiché era uno dei suoi pochissimi vizi, si sforzava di tollerarlo. «Chiama le mie ancelle. Ho bisogno della loro assistenza» ordinò al cocchiere, che si impettì in un ironico saluto militare e corse verso i carri posteriori.
Ci misero un po' a prepararsi entrambi, e la prima a scendere dalla carruca fu Livia, splendidamente vestita e acconciata come se fosse appena tornata da una rilassate immersione nelle terme del suo palazzo. La stola blu si intonava al colore dei suoi occhi e il babilonicum roseo che le fasciava i fianchi richiamava la tonalità delle sue labbra.
Si guardò intorno, nella luce lattiginosa del mattino. Vide subito il comitato di benvenuto che li attendeva poco distante, schierato davanti alla piccola ma dignitosa domus immersa nel verde. Prima di dirigersi verso di loro, però, tornò indietro verso la carruca che li seguiva.
Dopo aver bussato, aprì lo sportello e si infilò nel buio pertugio. I suoi figli erano già alle prese con la vestizione, ma parevano ancora assonnati e scombussolati dal risveglio forzato.
«Buongiorno, ragazzi» li salutò la madre, entrando e chiudendosi lo sportello alle spalle in modo da non far entrare l'aria fredda. «Avete dormito bene?»
«Devo fare pipì» disse subito Druso, mentre un servo gli drappeggiava addosso il pallium foderato di pelliccia.
«Io ho mal di schiena» si lamentò Tiberio, contorcendosi per entrare nella toga praetexta che un altro schiavo gli tendeva.
«Chiederemo ai nostri ospiti di accompagnarti subito alla latrina, Druso. Quanto alla schiena, Tiberio, vedrai che un po' di movimento e di aria fresca ti rimetteranno in sesto.»
Livia intervenne per sistemare i capelli arruffati di Druso e per aggiustare il bracciale d'oro al polso di Tiberio. Quindi li guardò seria. «Mi raccomando, comportatevi bene. Vogliamo che i nostri amici serbino un gradevole ricordo della nostra permanenza, giusto?»
«Sì, mamma» rispose Druso, saltellando sul posto per l'urgenza di svuotare la vescica. Tiberio si limitò ad alzare gli occhi al cielo.
Livia ignorò la sua impertinenza, aprì lo sportello e uscì dalla carruca. In quel momento anche Ottaviano scese dalla sua e si stiracchiò. Livia lo raggiunse, carezzandogli furtivamente la schiena. Lui sorrise e le passò un braccio intorno alla vita. «Sei pronta?»
«Sono sempre pronta.»
Ottaviano fece un cenno alle guardie armate che componevano la sua scorta, che lo raggiunsero e lo circondarono con fare protettivo ma non minaccioso. Livia, dal canto suo, voltò la testa verso la sua guardia personale, l'egiziano Zosimo, comparso dal nulla per posizionarsi al suo fianco. Dietro di loro si allineò il manipolo di domestici che avevano deciso di portare con sé. Infine arrivarono anche i ragazzi, che si posizionarono dietro la madre, con simili espressioni di sofferenza dipinte in volto.
Livia carezzò le guance di entrambi - ignorando la smorfia di Tiberio - poi adeguò il suo passo a quello di Ottaviano e marciarono verso la domus in cui avrebbero alloggiato per i giorni seguenti.
Le guardie dinanzi a loro si fermarono all'entrata e si aprirono a ventaglio, permettendo al princeps e alla moglie di mostrarsi agli ospiti che li attendevano.
Livia temeva che il decennio e più trascorso da quando aveva visto la sua amica l'ultima volta le avrebbe impedito di riconoscerla, ma le bastò dare una veloce occhiata alla prima linea schierata davanti alle fauces per soffermare istintivamente lo sguardo sulla donna esattamente di fronte a lei.
Un sorriso spontaneo e irrefrenabile le fiorì sulle labbra e lo stesso accadde alla sua amica. Incurante dell'etichetta e delle buone maniere che solo poco prima aveva cercato di inculcare nei suoi figli, Livia avanzò a passi distesi verso di lei, che fece lo stesso, le braccia già tese.
Si incontrarono a metà strada, stringendosi con forza e affetto, ridendo con le lacrime agli occhi, lacrime che Livia non si era aspettata ma che non poté ricacciare indietro. Era passato troppo tempo e così tante cose erano cambiate in quegli anni, ma Diotima era lì, uguale ad allora, con lo stesso sorriso sbarazzino e lo stesso aspetto della giovane che aveva a malincuore lasciato.
«Giunone ti protegga, sei esattamente come ti ricordavo!» balbettò Diotima, facendosi indietro per osservarla da capo a piedi.
«Nemmeno tu sei cambiata» riconobbe sincera Livia.
Sotto la rica che la contrassegnava come donna sposata, i capelli castani della donna non mostravano alcuna traccia di grigio e gli occhi azzurri erano limpidi come non mai. Diotima non era mai stata una bellezza, ma aveva un viso pulito e sereno, la sua chioma emanava un buon profumo di fiori, pelle e unghie erano pulitissime e i denti bianchi, seppure irregolari.
Diotima tirò su col naso, ricacciando indietro le lacrime. «È passato così tanto tempo...»
«Ora avremo modo di recuperarlo» sorrise Livia. Quindi il suo sguardo si posò sulle ragazzine alla sinistra della madre. «Le tue figlie?»
«Virginia, la maggiore. E Nevia, la mia piccolina.»
Virginia era già una kyria in età da marito. Era alta e magra, con seni appena in sboccio e fianchi magri. Gambe e braccia erano sottili e fragili e i capelli della stessa sfumatura di quelli della madre erano sciolti sulle spalle in morbide onde. Aveva ereditato l'aspetto insignificante ma rassicurante della madre, ma gli occhi scuri erano quelli del padre. Alla presentazione di Diotima, si inchinò graziosamente, gli occhi bassi e le mani giunte in grembo.
Nevia era piccola per la sua età, con un volto paffuto e sorridente e gli stessi occhi azzurri della madre. Occhi che esaminavano gli ospiti con curiosità e viva intelligenza. Era più carina della sorella, ma solo gli dèi sapevano se avrebbe conservato la sua grazia, una volta cresciuta.
Livia si soffermò sulla primogenita, mentre i ricordi dei momenti condivisi insieme rischiavano di travolgerla. «Eri solo una bimba l'ultima volta che ti ho vista.»
«Lo stesso vale per tuo figlio» si intromise Diotima, che stava osservando Tiberio con gli occhi umidi. «Caro Tiberio, non puoi certamente ricordarti di me, ma un tempo mi chiamavi zia e venivi sempre da me in cerca di dolcetti. Che puntualmente ti davo, di nascosto dalla tua terribile madre.»
«Ecco perché quando tornava da me aveva sempre quel sorrisetto!» esclamò Livia, fissando divertita il figlio, che aveva un'aria frastornata e smarrita.
In quel momento Nevia si fece avanti con un saltello, apostrofando direttamente Druso: «Quanti anni hai?»
Lui parve dimenticare per un istante le pene della vescica. «Undici e tu?»
«Anch'io!» esclamò Nevia, con una risatina trillante.
«Anche i nostri primogeniti sono coetanei» notò Livia, scambiando un'occhiata con l'amica. «L'abbiamo fatto di proposito?»
«Eravamo una sola anima, cara Livia, tutto è possibile!» In quel momento Ottaviano fece un passo in avanti e Diotima arrossì, chinando il capo. «Oh, perdonatemi, princeps...»
Ma lui sorrise con condiscendenza. «Grazie per l'ospitalità, kyria Diotima. Vostro marito...»
Livia si guardò intorno. In effetti, l'uomo mancava all'appello. C'erano solo le donne e gli schiavi schierati davanti alla domus per dar loro il benvenuto, ma il paterfamilias faceva pesare la sua assenza.
«È al porto, princeps. Sta supervisionando gli ultimi lavori. Il kyrie Agrippa è con lui.»
«Depositiamo i bagagli e poi andiamo al porto.»
«Certamente, per di qua.» Diotima fece loro strada all'interno della domus. «Vi ho riservato il cubiculum più spazioso.»
Livia ordinò agli schiavi di depositare le arcae all'interno della stanza, non appena la raggiunsero, mentre Diotima indicava la porta successiva. «I ragazzi staranno qui vicino a voi.»
Druso fissò implorante la madre, che represse una risatina e si rivolse a Diotima. «Mio figlio chiede rispettosamente di usare la latrina.»
«Non abbiamo l'acqua corrente, qui, ma in ogni cubiculum c'è un vaso da notte. Quando avete finito di usarlo, lasciatelo fuori dalla porta: gli schiavi penseranno a svuotarlo.»
Druso sospirò di sollievo e si fiondò nel cubiculum, seguito dal fratello e dai servi coi bagagli.
«I vostri schiavi divideranno le stanze con i miei» aggiunse poi Diotima, facendo cenno al piccolo manipolo di servitori che attendeva alle sue spalle.
«Avete uno stanzino libero per il nostro medico?» chiese Livia. «È un liberto e gli siamo molto affezionati.»
«Ma certo.» Diotima scambiò uno sguardo con uno schiavo, che si staccò dal gruppo per guidare Asclepiade, il medico greco che Mecenate aveva regalato a Livia e Ottaviano anni prima, in un cubiculum appartato.
Gli altri servi della famiglia imperiale seguirono quelli di Diotima verso le loro nuove, temporanee stanze. Livia aveva deciso di portare con sé Hafa e Muna, rispettivamente la sua pettinatrice e la sua truccatrice, senza le quali non avrebbe mai osato presentarsi in società, e Zosimo. Gli altri servi erano rimasti al Palatino e probabilmente in quel momento si stavano godendo la tranquillità di una domus svuotata dei suoi proprietari. Non dovevano nemmeno gestire le intemperanze e i capricci di Giulia, la figlia di Ottaviano, perché in assenza del padre soggiornava da sua madre Scribonia.
Quando l'atrium si fu svuotato, Diotima prese la mano di Livia e la strinse con affetto. «Spero vi troverete bene qui da noi.»
Livia ammirò la semplicità dell'ambiente che la circondava, gli affreschi bucolici alle pareti, i mosaici che piastrellavano il pavimento, la piccola vasca dell'impluvium sul quale galleggiavano ninfee dalle grandi foglie smeraldine. Era così diverso dal palazzo sul Palatino nel quale aveva vissuto nell'ultimo decennio. Così tranquillo e spartano.
Livia sorrise alla sua amica. «Ne sono certa.»
DIZIONARIO DELLE PAROLE LATINE
Arca: cassapanca
Atrium: in epoca arcaica, era la stanza del focolare al centro della domus, dove i muri erano anneriti (ater) dal fumo. Successivamente passò a indicare una zona di passaggio tra l'ingresso e le altre stanze della casa e si dotò di impluvium
Babilonicum: scialle orientale dai colori sgargianti che le donne ponevano intorno ai fianchi
Carruca dormitoria: antenato del nostro camper, era un carro coperto da un tendone fornito di aperture all'interno del quale erano allestiti giacigli per dormire. Era un mezzo adatto ad affrontare lunghi viaggi e spostamenti e sul quale si poteva passare la notte
Cubiculum: camera da letto
Domus: casa signorile, generalmente a un solo piano
Fauces: entrata principale della domus
Impluvium: vasca interna alla domus per la raccolta dell'acqua piovana, che entrava da un'apertura sul soffitto chiamata compluvium
Kyria, kyrie: signora e signore in greco
Pallium: ampio mantello maschile di forma rettangolare in lana bianca indossato sopra la tunica
Rica: ampia sciarpa di velo ornata con frange, usata dalle donne maritate per coprirsi il capo
Toga praetexta: toga indossata dai ragazzi romani liberi che non avevano ancora raggiunto l'età adulta (16 anni) nelle occasioni formali
Livia Drusilla
Ottaviano Augusto
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