01


ALEXANDER


Al nostro istinto più forte, al tiranno che è in noi,
non si sottomette solo la nostra ragionevolezza, ma anche la nostra coscienza.
FRIEDRICH NIETZSCHE


ll senso di colpa... una delle più potenti e pericolose emozioni. Lo senti pulsare dentro di te, quando una trasgressione ti macchia l'etica. Una torbida sensazione di sporco, un misto di vergogna e rimpianto che prosciuga l'esistenza. Ti svilisce. Ti svuota. Ti fa sentire solo.

Può lo spirito di un uomo redimersi da tale peccato?

Forse... forse sarebbe bastato affrontare le conseguenze delle proprie azioni, assumersi la responsabilità delle scelte prese, e vivere il resto dei propri giorni privi di rimorsi indelebili. Eppure, per quanto tentassi, la mia anima non poteva essere ripulita; ormai era diventata fango.

Le mura sottili non lasciavano trapelare solo il frastuono delle macchine, che sfrecciavano ad alta velocità sulla statale, ma anche il chiacchiericcio acidulo del mio vicino, invalidando qualsiasi diritto alla privacy. Il suo tono divenne più cupo quando prese a biascicare qualcosa d'indecifrabile. Riuscii a comprendere ben poco; tanta era la foga con cui si rivolgeva all'interlocutore dall'altro capo della linea, non gli concedeva alcuna possibilità di difesa.

Nei giorni in cui soggiornai in quella bettola non lo avevo mai incontrato – non che mi premesse fare la sua conoscenza – tuttavia delle volte la noia gioca brutti scherzi: infiacchito dalla calura, ingannavo il tempo in attesa che il sole calasse oltre l'orizzonte, lasciando alla mente la libertà di tracciare le forme rotonde del suo profilo polputo. Lo immaginai come un uomo pingue, dato il respiro spasmodico che seguiva il rumore del suo incedere pesante, forse sulla cinquantina e con la cute fin troppo sfoltita per la sua età. Supposizioni, tutte supposizioni, frutto della mia fervida fantasia; d'altro canto di una cosa ero certo: l'unico motivo per cui un uomo si sarebbe spinto a soggiornare in quella latrina era l'improvvisa mancanza di un tetto sulla testa, dovuta presumibilmente a un imminente divorzio. Doveva trattarsi del solito idiota caduto nelle grinfie di una moglie arpia, costretto dopo anni di ligio servizio a far spazio a un nuovo – probabilmente più aitante e duraturo – giocattolo erotico.

Chissà... magari si trattava del medesimo uomo che egli stesso pagava per tagliare il prato, il quale di nascosto si preoccupava di tenere in vita il fiore delicato della padrona di casa, fertilizzandolo con il proprio liquido biancastro.
Un sorriso beffardo effigiò le mie labbra al pensiero che esistessero davvero simili rammolliti. Uomini, o per meglio dire molluschi, che si facevano fottere da una donna, fino a non avere più un cervello pensante per accorgersi di essere rimasti in mutande.

Cristo. Rimanere in mutande per mano di una donna era capitato anche a me, innumerevoli volte, ma con un'unica differenza: permettevo alle dita femminili di far saltare i bottoni dei miei cargo solo per deliziarmi con le ardenti carezze della loro lingua.
Ad ogni modo, qualsiasi fosse stata la ragione del suo arrivo, il portafogli del mio loquace vicino non doveva essere così pesante da garantirgli un alloggio con anche una sola stella, un singolo dettaglio che sembrava accomunarci.

Abulico, adagiai la schiena contro la testata del letto, facendolo cigolare, e per la prima volta lo sguardo errò tra i suppellettili polverulenti e la mobilia datata – se non preistorica – adiacente a quelle quattro mura.

La facciata esterna, per quanto decadente, non rendeva giustizia al degrado con cui facevi i conti una volta oltrepassata la soglia: piccole gocce di vernice multicolore ornavano la maggior parte degli stipiti in legno, inficiando l'intento dei proprietari di nascondere qualche infiltrazione di acqua o la muffa. L'unico punto da cui sarebbe potuto diffondersi qualche scampolo di luce era l'enorme finestra ricoperta da teli vintage dalla trama spessa; non affacciava su un galvanizzante giardino in fiore repleto di inebrianti profumi, bensì sul misero lastricato in cemento grezzo adibito a parcheggio, da cui non si respirava nient'altro che lo smog proveniente dalla Tri-State Tollway. Come se ciò non bastasse, a dare maggior lustro all'arredamento scadente, al lato del letto, comodo quanto una brandina all'interno degli accampamenti militari, vi era un cucinino fatiscente su cui proliferavano indisturbate intere famiglie di acari; chiunque avesse avuto il fegato di metterlo in funzione – semmai fosse stato ancora possibile farlo – avrebbe di certo contratto qualche malattia infettiva in un batter di ciglia.

Mi concessi un'ultima e intensa boccata della mia Marlboro; del piccolo cilindro di carta bianca non rimase quasi nulla se non una torre di cenere scura e precaria, che crollò poco dopo sul dorso della mano adagiata sul mio stomaco, mentre il rosso vivo della combustione arrivò a lambire il filtro della sigaretta. Il calore si propagò attraverso di esso, lo sentii sopraggiungere come un debole tepore tra il pollice e l'indice. Con un soffio deciso liberai il fumo bianco dalle labbra.

Il mozzicone ormai ridotto all'osso si accartocciò tra le mie dita, quando lo premetti con veemenza sul fondo del posacenere di plastica; l'oggetto oscillava in balia della mia foga sul materasso, cercando di rimanere in equilibrio. «Che posto del cazzo!».

Sentendo il sangue bruciare a causa dell'acuta tensione dei nervi, socchiusi gli occhi con l'intento di godermi le poche ore di quiete rimaste. Prima di tornare alla mia torbida quotidianità, avrei dovuto recuperare le forze spese nelle notti trascorse a guidare o a forzare annose cripte, ma, nonostante il bisogno impellente che febbricitava sottopelle, non riuscii nel mio intento. Lo scricchiolio incessante del ventilatore a soffitto non mi dava tregua, proprio come il lezzo di naftalina reso ancora più pungente dell'afa asfissiante, tipica di metà agosto. Dannazione, per quanto avessero girato forte quelle misere pale, non sarebbero mai riuscite a donarmi un po' di refrigerio; compivano una fatica immane per non ottenere alcun risultato, proprio come me.

Erano passati venticinque anni da quella notte, eppure nemmeno uno di quei vermi che con il tempo avevo torturato era riuscito a darmi qualche informazione su quel figlio di puttana. Non un indizio, non un nome, niente. Il bastardo sembrava essersi rarefatto nell'aria come nebbia al sorger del sole. Tutti i miei sforzi erano stati vani.

La vibrazione del mio cellulare interruppe la nebulosa corrente di pensieri e stroncò sul nascere qualsiasi speranza di riposarmi. Frustrato, feci scivolare i piedi sulla sudicia moquette, dove fantasmi di aloni scuri suggerivano l'antica presenza di macchie dall'origine non identificata. A passi lenti andai a recuperare lo smartphone dal tavolino.
Pur non sapendo cosa vi fosse scritto nel messaggio, mi bastò osservare il numero sullo schermo per sentire il corpo irrigidirsi bruscamente. Non mi ero mai preso lo scomodo di registrarlo con il suo nome, mi sembrava ridicolo anche solo perderci del tempo se poi non l'avessi mai cercato nella rubrica.

Ero sempre stato il più istintivo, dunque ne avevo pagato lo scotto. Dopo quanto era accaduto – a loro dire – i miei metodi avevano trasceso il limite dell'umano, diventando fin troppo dissoluti e crudi per essere tollerati dalla loro organizzazione beota. In onor del vero, ero l'unico disposto a sporcarsi le mani, a giocarsi l'ultimo briciolo di anima per la missione, forte della convinzione che non si potesse trovare la luce se non si fosse stati pronti ad affrontare l'oscurità.

Malgrado le divergenze e il mio volontario isolamento, il sangue che ci scorreva nelle vene induceva il loro leader a contattarmi ogni qualvolta alle sue orecchie non giungevano buone nuove sul mio conto. Tuttavia, quella volta, il contenuto del messaggio non era la solita richiesta di aggiornamenti a cui ero ormai avvezzo, si trattava di una specifica sequenza numerica, conclusa da una singola parola: adunata.

Accecato dalla rabbia, pigiai con forza il pollice sul display e avviai la chiamata, portando il cellulare all'orecchio. Mentre nell'altoparlante risuonavano gli squilli, sentivo il sapore del fiele sul palato, gli artigli del risentimento si conficcavano nei polmoni impedendomi di respirare.

Pensava ancora di poter esercitare la sua autorità su di me?
Poteva risparmiare il gergo militare per il suo esercito di soldatini di plastica, io avevo rotto le righe da troppo tempo per esservi asservito ancora.

«Pron–».
Non riuscì neanche a terminare che inveii contro di lui, furioso come un leone che si scaglia addosso al keeper intenzionato a ricondurlo in gabbia. «Che cazzo significa?».
«Non sai più decifrare delle coordinate o più semplicemente leggere?» si beffeggiò di me prima di abbandonarsi a una fragorosa risata. Mi pentii di averlo contattato.
«Ho del lavoro da fare, per cui non farmi perdere tempo con le tue stronzate».

Dall'altro capo della linea giunse uno scalpiccio di suole lento e compassato che svanì subito dopo in un tonfo, come se si fosse lasciato cadere tra i morbidi cuscini di una poltrona o di un sofà. «Se per lavoro intendi quell'ammasso di aracnidi a Chinatown, ci penseranno i fratelli Acker a fargli saltare la testa».
Rabbioso, strinsi con più forza il cellulare tra le dita, tanto da sentir scricchiolare la cassa per la forte tensione. «Mi ci sono voluti ben nove giorni e quattro cadaveri, prima di riuscire scovare quel fottuto buco di ragni, non intendo lasciare il divertimento a due pivelli».
«Dovrai farlo invece». Udii l'impatto sottile di due cubetti di ghiaccio contro il vetro, come al solito, stava degustando il suo amato Dalwhinnie. «Non ti sto chiedendo di raggiungermi, Alexander. Te lo sto ordinando».

«Non credere di poter fischiare per vedermi ritornare all'ovile» mantenni la calma e il sangue freddo. Era avvezzo al mio temperamento più di chiunque altro, non mi occorreva alzare i toni per informarlo del nervosismo che mi erodeva le viscere. «Non sono una delle tue pecore».

«Lo so» ammise serio, senza alcuna inflessione a guastare la sua consueta imperturbabilità, «è per questo che ti ho cercato».
Dinanzi alla sua affermazione non seppi come proseguire il discorso. Gli insulti mi morirono in gola, tutto l'impeto che mi aveva acceso le membra si assopì, per essere surrogato dal sospetto. Sebbene fosse vellutato da una falsa quiete, non mi lasciai ingannare dal suo timbro austero, in esso vi avevo udito qualcosa di insolito, una nota discordante che mi fece drizzare subito la schiena.

«Cosa c'é? Il tuo gregge di eunuchi è troppo vile per portare a termine il lavoro? Ti serve il lupo?».
«Mi serve il migliore, mi servi tu» ritrattò con fermezza. Si fermò qualche secondo prima di specificare: «Anche se non condivido i tuoi sistemi». Non si smentì, odiava la mia indole tanto efferata e non riuscì a esimersi dal ribadire la sua posizione al riguardo. Del resto, però, non poté nemmeno rinnegare la realtà: per alcuni il mio modus operandi poteva essere troppo difforme dalle regole e privo di moralità, eppure nella maggior parte dei casi era anche il più efficace.

Conscio che non potesse vedermi, lasciai libero sfogo agli angoli della bocca, i quali si innalzarono esprimendo tutta la mia soddisfazione. Quell'ammissione fu il pasto succulento dell'animale presuntuoso e dissennato che risiedeva dentro di me, come un paziente predatore lo attendeva da tanto tempo, era lì, immobile a leccarsi i baffi in trepidante attesa.

«Non li approvi, ma li richiedi» agguantai il pacchetto di sigarette nuovo dal tavolo e dopo averlo aperto ne addentai una dal filtro. «Un po' ipocrita da parte tua, non credi?».
Tediato, espirò dal naso. «Puoi continuare a provocarmi se questo ti allieta, ciononostante se credi che io possa cedervi sei fuori strada».
La rabbia si risvegliò e si propagò come un incendio furente nel petto. Il nostro rapporto era infettato da un antico rancore, capace di ritornare a galla a ogni minimo contatto; era una guerra infinita fatta di biasimi e dissidi che con il tempo ci aveva condotto su fronti diversi, lontani miglia e miglia, non solo fisicamente.

«Non chiederò scusa per qualcosa di cui non mi pento» asserì austero, senza alcun peso sul cuore.
«Non mi servono le tue maledette scuse, non le voglio».
D'un tratto la riservatezza del nostro discorso venne violata dallo stridio della rete del letto, seguito dal leggero frusciare di vestito. Oltre la curva della spalla, adocchiai il mio frivolo svago biondo ancora assonnato; si stropicciava una palpebra cisposa con il dorso della mano e mi veniva incontro con quelle stesse movenze cerviere, oltremodo seducenti, che l'avevano accompagnata tra le mie lenzuola poco prima dell'alba.
«E cos'è che desideri? La vendetta?».

Ci vollero poche falcate prima che le morbide labbra della ragazza lambissero la piccola porzione di pelle appena dietro il mio lobo. Una fervente smania mi accalorò le membra quando le sue carezze divennero più audaci: con la lingua inumidiva e con il respiro deliziosamente lento martoriava quella zona erogena, facendo defluire tutto il sangue nella parte più bassa e intima del mio ventre.

«Vendetta... che termine riduttivo» socchiusi le palpebre quando dopo l'ennesimo tiro il fumo si innalzò più denso dal punto di combustione. «Quello che voglio è farlo urlare così forte da stirarsi le corde vocali, e protrarre la sua agonia fin quando le mie orecchie ne saranno sazie; solo a quel punto affonderò una mano nel suo petto vibrante di spasimi».

Frattanto che la mia mente deviata congegnava atroci torture, le due mani femminili mi cinsero il girovita, permettendosi di accarezzarmi poco più in giù dell'ombelico. Le fauci mi divennero più aride dell'anima di un vecchio gretto, tanto da dover deglutire prima di tornare a esporre le mie sadiche fantasie: «Le ossa della cassa toracica si spezzeranno al suo passaggio quasi fossero fuscelli dissecati. Dio, scaverò così a fondo da poter asserragliare il suo cuore nero tra le dita; lo voglio spremere come un limone ormai maturo, pronto per essere strappato dal ramo. Allo stesso modo lo sradicherò da vene e arterie per sentirlo pulsare nel palmo e vedere con i miei stessi occhi i suoi ultimi palpiti».

Adagio, le leggere dita della furbetta digradarono verso il basso. Inspirai una nuova folata di nicotina quando, per accarezzarmi la rada e soffice peluria del pube e vellicare la punta gonfia del membro, il suo indice si fece spazio sotto l'elastico dei boxer, che spuntava malizioso dai pantaloni. Sentivo le vene nodose ramificate attorno all'erezione pulsare con ferocia, aumentare di volume sino a rendere la rigidità del jeans intollerabile.

«Tutto ciò non ti ridarà quello che hai perso, niente lo farà. Fattene una ragione, Alexander!». Al pari di un getto d'acqua su un cumulo di braci ardenti, la voce coriacea che proruppe dall'altoparlante estinse tutta la frenesia in circolo. Il desiderio di scopare per la quarta volta la biondina scemò velocemente, così come mi aveva travolto; venne supplito da un'altra smania, di differente natura ma in egual modo violenta.
Adirato, schiaffeggiai via le mani della ragazza, sentendole fastidiose tanto quanto lo zampettio molesto di una mosca sulla pelle. «Io non sono come te. Io non mi faccio delle ragioni» sotto le guance ricoperte da un velo di barba, i denti si serrarono così forte da correre il rischio di spezzarsi. «Io non dimentico un torto, piuttosto lo faccio pagare con il doppio della moneta. Mi prendo tutti gli interessi, allora forse ci penseranno dieci volte prima di sottrarmi qualcosa».
Satura di tensione, l'aria attorno a me parve contaminata dal gas.

Il respiro mi divenne più profondo, quando degli stralci sconfusionati di quell'infausto Natale tornarono ad avvelenarmi la mente: le ombre occultavano ogni tratto, ma non i due lapilli roventi incastonati nelle orbite; l'ansare greve e lento simile a quello di una bestia smaniosa di strapparti la carne delle ossa; l'odore acre di fumo che straziava le mie povere narici; il senso di vuoto che mi lacerò il petto, quando l'indomani i miei occhi ormeggiarono sulle loro bocche dischiuse, ormai perlacee e prive del respiro. Sebbene il tempo avesse cancellato molti particolari di quella notte, quei dettagli scabrosi sarebbero rimasti eternamente impressi nella mia memoria, come preziose incisioni rupestri sulle pareti di preistoriche caverne mi avrebbero rammentato per i giorni a venire l'origine del mio dolore.

«Cosa posso fare per salvare quell'oncia di umanità che ti rimane?».
«Prega» strofinai con foga ciò che rimase della sigaretta sul piano logoro del tavolo, prima di voltarmi e guardare dall'alto del mio metro e ottanta l'ospite. Le mie iridi scostanti si tuffarono nelle sue, supplichevoli di attenzioni e scintillanti di un'insaziata cupidigia. Per niente suscettibile al suo implorare, l'aggirai quasi fosse un mero ostacolo sul mio cammino e andai a recuperare una maglietta pulita dal borsone. Colpita nell'orgoglio, lei si limitò a fissarmi.
«Prega affinché trovi il prima possibile quel bastardo, altrimenti mi trasformerò in un mostro ben peggiore di quelli a cui sei abituato a dare la caccia». Malgrado la mia reticenza sull'argomento, gli proposi di rimettersi nelle mani dell'Onnipotente, sapendo quanta fiducia avesse nella sua misericordia.

Stando alla sua teoria – la quale per me altro non era che una patetica fandonia basata su una bislacca utopia, ideata con l'unico scopo di instillare la giusta dose di speranza nei cuori sciocchi e disillusi – il bene e il male coesistevano come due facce della stessa medaglia; non si poteva supporre l'esistenza di una, rinnegando l'altra. Tuttavia, con le tragiche vicissitudini che pietrificarono l'organo sotto le mie costole, avevo avuto la prova inconfutabile che non vi fosse alcun rovescio, nessun lato benevolo, donatore di grazia, disposto a salvarci dall'oscurità. Forse uno spettatore apatico, indifferente al dolore che ci inumidisce gli occhi; niente di più.

«Bene» sospirò con rassegnazione, «se le cose stanno così, non mi resta che proporti un accordo».
Gettai senza alcun riguardo la borsa di tela sul letto, e con una mano immersa fino al polso in quel mare di stoffa stropicciata rovistai al suo interno, gettando da un lato all'altro gli indumenti, fin quando la mia attenzione venne catturata da una t-shirt. Incastrai il telefono tra l'orecchio e la spalla e, pinzando le cuciture delle maniche tra i polpastrelli, la sollevai ad altezza occhi. «Quale accordo?».
«Se farai quanto ti ho chiesto, quando tutto sarà finito ti darò ciò che vuoi: un'informazione su di lui».
Intercorse qualche minuto di silenzio, durante il quale rimasi scioccato con le braccia tese sospese a mezz'asta e lo sguardo perso tra le sgualciture. «Cazzate!».
«Puoi accusarmi di molte cose, ma non di essere un bugiardo. Lo sai bene.»
Quella sconcertante rivelazione mi mozzò il respiro come un calcio in pieno stomaco.

Lui sapeva... sapeva dove trovare quel bastardo e me lo aveva tenuto nascosto.
Da tempo serbavo del risentimento nei confronti del mio interlocutore, con gli anni era cresciuto a tal punto da volerlo tagliare fuori della mia vita, ciononostante mai avrei immaginato che potesse raggiungere simili livelli. Il rancore mutò in qualcosa di ancor più profondo e infido dell'odio, un sentimento iniquo che mi fece desiderare di ucciderlo con le mie stesse mani.

«Allora, che fai?» mi incalzò di nuovo con una venatura maligna e canzonatoria a inacidire ogni sillaba. «Accetti?».
Quell'inaspettata verità intrappolò la mia mente in una bolgia sconfusionata di rovelli e diede in pasto a una tensione logorante il mio corpo; il cuore picchiava violento contro le ossa, quasi a volerle frantumare, l'eco di ogni palpito giunse fino ai timpani, profligando qualsiasi altro rumore all'interno della stanza come una sequela di cannone.
«Cosa mi dice che manterrai la tua parola?». Gettai per un millesimo di secondo il cellulare sul materasso, prima di infilarmi la maglietta con movimenti caotici, del tutto sgraziati; lo ripresi per portarlo nuovamente all'orecchio.

«Mio caro ragazzo» all'udire quell'appellativo, le falangi della mano libera si serrarono in un pugno, che a fatica trattenni dal tirare contro il muro. «Per questa volta dovrai darmi credito».
Mi era sempre stato difficile fidarmi di lui, figurarsi dopo tali parole. Ciononostante, compresi che quella volta il piatto sul tavolo era fin troppo succulento, così mi sedetti sul bordo del letto e con una mano tra i capelli trassi un profondo respiro, avvertendo un sapore disgustoso pervadermi il palato «Va bene, affare fatto».

Senza concedergli il tempo di rispondere chiusi la chiamata, concludendo con quelle quattro parole quell'improba conversazione. Diciotto minuti e trentadue secondi, la telefonata più lunga che avessimo mai avuto negli ultimi anni. Non ero solito tenere per molto tempo la cornetta alzata, anzi il più delle volte raggiravo il problema con un messaggio o non rispondendo affatto, ma quel giorno la piega degli eventi e quell'eccitante preludio di vendetta mi spinsero a non lasciarmi pilotare dal risentimento, a ingoiare quel cappio di spine che mi si avviticchiava attorno alla gola ogni qualvolta udivo la sua voce.

Trovare quel demonio era la mia missione, il senso della mia vita, e se reprimere l'istinto per un po' era il prezzo da pagare per stanarlo, sarei stato pronto a sottoscrivere tale patto con il mio stesso sangue.

Mentre contemplavo il display oscurato stretto tra le dita, perso nelle mie rifrazioni, dei piedini affusolati entrarono svelti nel mio campo visivo: l'opulento intreccio dorato, che avvolgeva la caviglia sottile, e le unghie smaltate di un audace vermiglio spiccavano sulla pelle delicata, conferendogli un tocco malizioso e sensuale.
La bionda, fino ad allora rimasta a osservare tutta la scena nell'ombra di un angolo, si avvicinò di qualche passo e mi perscrutò dall'alto, incuriosita dalla baliosa agitazione che sprizzava da ogni mio poro.

«Tutto ok?». Quelle poche sillabe in un americano strascinato, indurito dalla sua marcata e rigida cadenza dell'est, mi indussero a sollevare il capo. Appoggiai il cellulare al fianco del quadricipide e drizzando la schiena annuii senza dare troppe spiegazioni.
«Bene». Sfavillanti di un ardore smodato, al di sotto delle lunghe ciglia infoltite dal mascara, i due lapislazzuli divorarono ogni centimetro del mio essere, quasi fossi un cremoso dessert da leccare o ingurgitare in un sol boccone. Non smisero nemmeno quando, come una serva devota che si prostra dinanzi al suo signore, piantò le ginocchia nella moquette pruriginosa. «Allora vuoi fare altro round?». Le mani curate da pudica signora di alto rango, ma non per questo meno predatrici delle unghie di una squillo, si erpicarono languidamente lungo il mio interno coscia, in modo lento, quasi straziante, finché il suo palmo si riempì della parte più calda del mio corpo.

«Sei davvero insaziabile...». Le permisi di palpeggiare la protuberanza, percepire tutto il turgore che mi tendeva in pantaloni e con fare attento e delicato lasciai scorrere i polpastrelli lungo una sua guancia. «Una vera depravata».
Quasi le avessi sussurrato la più melensa delle dichiarazioni d'amore, l'imbarazzo le imporporò gli alti zigomi macchiati del trucco che poco prima impreziosiva le sue palpebre. Sbatté le ciglia con vezzo e fu allora che la punta della lingua le guizzò fuori dalle labbra per inumidirne un angolo. «Forse».
Avevamo scopato per quattro ore consecutive, eppure non le era bastato. Era pronta a tuffarsi di nuovo tra le lenzuola per lasciarsi piegare, spezzare con la smaccata ossequiosità di un'adepta, finché non l'avessi soffocata con il liquido bollente che stava fervendo nei miei testicoli. Un genere d'invito al quale non avrei rinunciato, se non ci fossero state quattrocento miglia d'asfalto ad attendermi.

«Non ho alcun dubbio» con il pollice le accarezzai rudemente la bocca maliosa, fino ad appiattirla contro la dentatura perfetta e deformarne le linee armoniose. Le sue pupille si restrinsero, divennero due astri lontani anni luce da quella stanza di motel, persi nell'immensità cerulea delle sue iridi. «Comunque, per quanto mi alletti l'idea di fottere ancora quel tuo bel culetto sodo, devo rifiutare l'offerta».
«Sicuro?» restia a rassegnarsi, si protese di più verso di me mordendosi in modo malizioso l'interno della guancia: il suo fiato, ancora lievemente impregnato dall'alcool, mi vellicò il viso, i seni morbidi si pressarono contro le mie ginocchia, avvolgendole con il loro calore.
Sorrisi nel ricordare il modo in cui li avevo schiaffeggiati, succhiati e spremuti come frutti pronti per la raccolta. Ne avevo seviziato ogni angolo, ogni curva – dall'areole rosate ai capezzoli appunti come cime di due splendidi monti – fino a romperne i fragili capillari. L'avevo marchiata infliggendole un piacere dolceamaro, indifferente ai segni che sarebbero comparsi l'indomani, prove indiscusse della nostra feroce perversione.

Nonostante avvertissi una dolorosa pressione tra le gambe, non caddi nel suo tranello; con un lieve cenno d'assenso, mi alzai costringendola a indietreggiare. La speranza che baluginava nelle sue orbite concupiscenti si spense in un soffio di vento, poi uno sbuffo di protesta le gonfiò le guance «Sei proprio uno guastafeste». Si lasciò cadere sul letto affondando la schiena tra i guanciali, la seta liscia della vestaglia le si sollevò sui fianchi scoprendole le gambe chilometriche.

«Ho una persona che mi sta aspettando» un intrepido raggio di sole si fece strada tra i teli della tenda; come un abile pittore che si avvale di suggestivi contrasti, ridisegnò le sue forme voluttuose quanto ipnotiche, inondò di fulgida luce le delicate prominenze e velò di ombre misteriose i solchi, esaltandone l'ineccepibile potere di persuasione, la capacità di sottomettere al proprio volere l'autocontrollo di ogni uomo, tranne il mio. Lasciarmi plagiare non rientrava nelle mie prerogative.

Volsi la testa nella sua direzione, richiamato dal prezioso scintillio sul suo anulare sinistro, «E anche tu».
Seguendo la direzione del mio sguardo, abbassò il capo e i suoi occhi si posarono sul gioiello in oro, che le abbracciava l'intera falange per poi chiudersi alla base di un enorme diamante dal taglio quadrato. Estasiata da quel continuo sbrilluccichio, ne ammirò per alcuni secondi la lucentezza e le piccole sfaccettature, che sembravano cambiare colore ogni qualvolta il sole le colpiva.
«Non mi hai detto di fidanzata» la sua voce mi raggiunse, ma le iridi rimasero indietro, ancora soggiogate.

«Pensavo fossi più interessata al sesso che alle chiacchiare» con una scrollata di spalle mi voltai, facendogli intuire che non avevo alcuna intenzione di cimentarmi in discorsi troppo privati. Odiavo quando le donne, pilotate da quella loro innata e allo stesso tempo irriguardosa tendenza a oltrepassare i confini personali, muovevano le labbra per un futile cicaleccio o scomode domande. Preferivo le schiudessero per urlare il mio nome, per gemere di piacere mentre mi spingevo con vigore nel piccolo antro nascosto tra i glutei vellutati, per leccare, succhiare la punta del mio membro prima di sentirla premere contro il fondo della gola.
«Vero» sorrise tra sé, «se solo fosse giovane e bello come te...».

Ignorai i suoi stupidi quanto inutili sproloqui e a passo svelto tornai al mio bagaglio. Mi chinai sul pavimento malridotto per raccogliere i vari vestiti sparpagliati per la stanza come superflui scampoli di stoffa e riporli alla bell'e meglio nel borsone. Contando un paio di soste, ci sarebbero volute più di otto ore al volante per raggiungere il punto indicato nel messaggio; ciò significava che, se non mi fossi messo subito in viaggio, avrei dovuto passare l'ennesima notte sulla strada. Non mi dispiaceva guidare nelle ore più buie: essendosi rifugiato al di là dell'orizzonte, il sole non poteva più bruciarmi le cornee, l'aria che confluiva dal finestrino non era più così torrida – anzi oserei dire fosse quasi piacevole – inoltre la carreggiata deserta mi permetteva di raggiungere velocità non consentite. Tuttavia, l'impazienza di arrivare a destinazione e l'urgenza di spezzare le catene del patto che, con l'amaro in bocca, avevo appena sancito erano più probanti di qualsiasi altro diletto.

Con un'ultima e rapida panoramica alla stanza mi accertai di non aver dimenticato nulla, strinsi tra le dita la zip e la feci scorrere, chiudendo la cerniera del mio unico bagaglio. Ero sul punto di caricarne il peso su di una spalla e andarmene, quando il coriaceo accento della ragazza mi bussò alla schiena, immobilizzando ogni mio muscolo. «Scordato niente?».
Con le punte degli anfibi a pochi centimetri dalla soglia, riavvolsi mentalmente i miei passi, riflettendoci sopra. «Non credo».
«Io penso di sì» le sue parole furono seguite dallo scatto metallico di uno zippo, subito dopo un sentore di tabacco aromatizzato alla menta pervase ogni angolo della camera.

Convinto di aver colto il reale senso della sua domanda, torsi di poco il collo per allacciare i nostri sguardi e, imponendomi una calma apparente, le risposi con voce pacata: «Odio i baci d'addio».
«Peccato» sogghignò, con la sigaretta accesa incastonata tra le labbra, mentre tumultuose ondate di fumo si innalzavano dal rocchetto di carta per addensarsi nell'aria. «Quindi questo... » un lampo di malizia illuminò i suoi brillanti occhi azzurri, frattanto sfilava da sotto i lombi il mio cellulare. Me lo mostrò facendolo oscillare tra il pollice e l'indice, prima di infilarlo nella profondità del caldo solco tra seni «Tengo io».
Il mio autocontrollo iniziò a digradarsi davanti alla sua perseveranza, a quel mix di trasgressione e sfacciataggine che in altre circostanze avrei considerato eccitante. «Mi stai facendo perdere tempo prezioso».
«Allora non stare fermo lì» gli angoli della sua bocca si tesero in un sorriso infido, commisto a furbizia e tracotanza, «vieni a prenderlo». Sospesa sui gomiti, in una posizione semidistesa, piegò le gambe snelle e le divaricò quel poco che bastava a scoprire il glabro scorcio di carne tra le cosce.

Racimolando ossigeno e pazienza, mi incamminai verso di lei, attento a non guardare le sue nudità. Un intenso profumo di vaniglia si irradiava dalla sua pelle, aleggiandole attorno come il sensuale effluvio di un fiore vicino alla corolla; a quella distanza ravvicinata parve intensificarsi cento volte. In silenzio mi chinai, immersi le prime due dita nelle morbide forme del suo petto per riprendermi ciò che mi apparteneva e mi rimisi in piedi. Tuttavia, prima che fossi troppo lontano, la ragazza allungò il braccio, le dita affusolate avvolsero il mio polso; le unghie lunghe artigliarono la carne al pari delle grinfie di un famelico rapace, pronte a far sanguinare la sua preda. Mi tirò a sé, annullando qualsiasi distanza tra noi. «Fai buon viaggio».
Orlate da ciglia adunche, le due porzioni di cielo si aggrapparono alla mia bocca, anelando di acciuffarle e appropriarsene ancora una volta. «Visez pula ta de luni de zile*» aggiunse in un ruvido rumeno a pochi millimetri dal mio viso con la voce infiacchita dalla lussuria. Socchiusi confuso le palpebre e lei sorrise, conscia che avrebbe dovuto tradurre. «Significa che non sarà facile dimenticare te».

Le intrappolai il mento sfuggente tra il pollice e l'indice, lo strinsi senza alcun riguardo, esercitando una pressione forte a tal punto da avvertire la durezza dell'osso. L'audacia e la strafottenza che aveva ostentato per tutto il tempo sfumò sotto le mie dita, ma la brutalità di quel gesto non la spaventò, anzi le provocò un gemito di piacere. Inclinai il capo per avvicinarmi ancor di più, la bocca mi si dischiuse per lambire la sua con agognante lentezza. La presa sul mio braccio si fece più salda e il respiro le divenne ansante, si ispessi così ferocemente che pensai fosse sul punto di venire.
La scossa della lussuria le attraverso il corpo fino a incresparle le labbra, e in un breve attimo la sua lingua sgusciò fuori nel tentativo di aprirsi un varco, catturare la mia in un caldo languore e brutalizzarla con un bacio fortuito, avido al punto da spezzarmi il fiato. Voleva imporsi, insediarsi dentro di me e frantumare l'ultimo brandello di resistenza, ma non ci riuscì. Mi scostai, sollevando la testa mentre lei, avvinta dalla forza cocente della voluttà, sbatteva scombussolata le palpebre.
«Felicitazioni, tesoro» le rivolsi un sorriso diabolico, del quale sarebbe stato invidioso il diavolo stesso, e andai incontro al mio destino.

*sognerò per mesi il tuo cazzo

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