SEI IN DEBITO CON ME
Il mattino successivo mi alzai molto tardi dovendo cominciare il turno solo alle sei del pomeriggio. Stavo bevendo una tazza di caffè seduta al tavolo della cucina, la mamma era impegnata a pulire l'interno del forno, quando suonò il telefono e andò a rispondere, imprecando a denti stretti per essere stata interrotta.
"Pronto?", disse in tono secco, come se una telefonata fosse stata l'ultima cosa sulla terra che desiderava. Si era infilata il cordless tra l'orecchio e il mento, potendo così continuare ad avere le mani libere e proseguire il suo lavoro.
"Oh, salve Signor Craoge...".
Il caffè mi andò di traverso.
"No, ero qui con Micol che si è appena alzata... sì, sì, ha trovato un bel posto di lavoro e ha riallacciato un po' di vecchie amicizie".
Fingevo di essere distratta mentre in realtà non mi perdevo una singola sillaba. A quanto pareva mia madre e quella specie di psicologo si tenevano in contatto. Avrei dato non so cosa per scoprire cosa si fossero detti nei giorni precedenti, alle mie spalle.
"Non c'è alcun problema", ridacchiò tesa, lanciandomi un'occhiata di sottecchi per controllare se ero ancora seduta attorno al tavolo. "Aspetti un momento che vado... vado a vedere... una cosa".
Sollevai un sopracciglio, seguendola con lo sguardo mentre lasciava la cucina e socchiudeva la porta. Non me la dava a bere. Cos'è? Sperava forse che fossi così ingenua da non capire che se ne era andata apposta?
Appiccicai l'orecchio alla porta e mi misi in ascolto, sforzandomi di ricollegarmi al loro discorso.
"Certo, certo, è migliorata rispetto ai primi giorni", parlava in un sussurro e faticavo a recepire ogni parola.
"Non saprei. Non so che fare. Mi sento così impotente. Mia figlia non c'è... capisce? Non è mai del tutto presente. Quando la guardo la vedo come sbiadire lentamente, disperdersi nell'aria come uno spettro".
Silenzio.
"Ma no, assolutamente. Mangia tutti i giorni, chiacchiera con noi, ora lavora persino. Ma è... vuota. Dentro di lei non c'è rimasto nulla. Dovrebbe guardarla sorridere: è lo spettacolo più straziante che si possa vedere. E' come se ad ogni sorriso una parte di lei si spezzasse. La mia bambina è...".
Cominciò a singhiozzare e divenne impossibile capire il resto della frase.
"... a volte la sento urlare, sì, soprattutto la notte, quando è sola. Durante il giorno cerca di mentire, come le ho detto, sorridendo in continuazione. Ma mi sono accorta che basta un minimo pretesto, un minimo rumore fuori dal comune per farla scattare. E allora ecco che comincia a urlare di nuovo. Non lo fa mai davanti a noi, ovviamente. A volte la sera, io e mio marito ci sediamo davanti alla porta della sua camera e ascoltiamo in silenzio quello strazio, tutte quelle grida. E'... un modo come un altro di starle vicino".
Seguì una lunga pausa ed io mi sentii attraversata da un fremito. Ero stata fin troppo ottimista nel sperare di preservarli da ciò che provavo.
"Quando vorrà vederla?".
Drizzai le orecchie, come se avessi una qualche speranza di sentire la risposta dall'altra parte della cornetta.
Altra lunghissima pausa. Pensai che avesse terminato la telefonata perciò corsi a rimettermi sulla sedia e aprii una confezione di brioche, in modo che rientrando mi avrebbe trovata occupata in qualcosa. Rientrò, e come avevo immaginato lasciò subito cadere lo sguardo sulla brioche che avevo appena cominciato a mangiucchiare.
"Tutto bene?", chiesi. Avevo deciso di metterla in difficoltà. Una piccola rivalsa per avermi taciuto le sue telefonate con quel dottore.
Mi inviò un sorriso. Se non avessi spiato la telefonata avrei potuto giurare che fosse un sorriso vero.
"Certamente! Ha telefonato per assicurarsi che stessi bene". Sondò la mia espressione prima di proseguire. "Vuole incontrarti uno di questi giorni".
Diedi un morso alla brioche.
"Perchè?".
"Non lo so", fece spallucce, voltandosi verso il forno. "Per parlare, suppongo".
"E di cosa?".
"Te l'ho detto, non lo so", la sua voce salì di almeno tre ottave. Stava mentendo. S'innervosiva sempre quando lo faceva. In questo non era cambiata per niente.
Staccai un altro pezzo minuscolo dalla brioche. Masticai lentamente, buttando giù il pezzo a fatica.
"Parlerà lui", conclusi. "Io non ho niente da dire".
"Certo, certo. Ah, quasi mi dimenticavo...", la sua voce riecheggiava all'interno del forno dove ci aveva rinfilato la testa. "Ha telefonato Stephen questa mattina presto. Immagino stesse andando a lavorare. Aveva una voce così assonnata che non sono riuscita a riconoscerlo subito. E' proprio un bravo ragazzo! Lavora tutti i giorni in quel mini-market ed ora so da fonti sicure che...".
"E?", la incalzai, sulle spine.
"Sì, giusto. Voleva sapere del colloquio e se per caso tu avessi visto Alex".
"Se avessi visto Alex?", chiesi a mia volta, aggrottando la fronte.
Qualcuno scelse proprio quel momento per incollare il proprio pugno alla porta d'ingresso.
"Ma è mai possibile che in questa casa non ci sia mai un attimo di pace?", sbuffò la mamma, chiudendo l'anta del forno con un movimento brusco. "Se va avanti così finirò di pulire questo coso alle sette di stasera".
Presi la tazza di caffè e la sciacquai mentre lei correva alla porta urlando: "Arrivo! Arrivo! C'è bisogno di abbatterla?".
Sulle prime pensai si trattasse del Dott. Craoge e per poco la tazzina non si schiantò contro il fondo del lavandino. Ma subito dopo pensai che era piuttosto improbabile che avesse impiegato così poco tempo per arrivare fin qui dall'ospedale.
"Ciao!", la sentii esclamare. "Certo che è qui. Vuoi entrare?".
Non riuscii a sentire la risposta di chiunque si trovasse sull'uscio di casa mia. E se il dott. Craoge non si trovava all'ospedale quando aveva chiamato?
Merda!
La mamma rientrò in cucina con un sorrisetto strano che non mi faceva presagire nulla di buono. "E' per te, Micol".
Scartata l'ipotesi che fosse Stephen perché a quell'ora sicuramente aveva già iniziato a lavorare da un pezzo, restava solo l'altra ipotesi. Quel maledetto dottore aveva telefonato quando si trovava a pochi isolati da casa mia. E ora?
Guardai l'uscita sul retro, assaporando lentamente l'idea di fuga che mi stava balenando in testa. Ma se avessi cercato di scappare mia madre avrebbe certamente tentato di bloccarmi.
"Non vai?", mi chiese, dal momento che ero impietrita davanti al tavolo.
Mi riscossi con un battito di ciglia e, senza privarmi di rivolgerle un'occhiata offesa per il suo tradimento -perché sicuramente era complice di quel ficcanaso- passo dopo passo percorsi il corridoio, rallentando sempre di più fino quasi a fermarmi ad un metro dalla porta, dietro la quale vedevo solo l'ombra di una persona proiettarsi in obliquo.
"Devo aspettare ancora molto?". La voce non era del dottore!
Percorsi l'ultimo metro quasi correndo.
"Perché sei qua?", urlai sconvolta.
Alex mi guardava sorpreso e irritato, tenendo le braccia conserte e tamburellando con la punta della scarpa.
"Ma che accoglienza!", mi criticò.
Tentai di giustificarmi ma ero ancora troppo sorpresa nel trovarmelo di fronte per riuscire ad articolare una frase senza fare anche l'elenco delle vocali: "Ah... non volevo urlarti contro... e... oh, mi dispiace... uh... vuoi entrare?".
"No".
Mosse il braccio tanto velocemente che mi accorsi in ritardo di avere la mano stritolata nella sua e che mi stava trascinando lungo il vialetto. Impuntai i piedi nella ghiaia, lasciando due profondi solchi dietro di me, ma non riuscii a rallentare la sua corsa. Sembrava quasi stesse fuggendo da qualcosa.
"Mi dici che sta succedendo?", gli chiesi, intanto che cercavo col braccio di liberarmi dalla sua mano. Era tutto inutile.
Si voltò a guardarmi, accorciando il passo. Sembrava che la mia domanda l'avesse in qualche modo stupito.
"Niente. Perché?".
"Mi ha telefonato Stephen questa mattina per chiedermi se ti avessi visto".
"Ti controlla, eh?".
"Niente affatto", negai senza ragionare.
Poi però ragionai e fui costretta a dargli ragione. In effetti era strano che mi avesse cercata col pretesto di sapere se l'avessi rivisto o meno. Non sapevo se sentirmi lusingata o se arrabbiarmi.
"Voglio solo andare sulla spiaggia". Mi trascinò sull'altro lato della strada. A quel punto mi lasciò andare e proseguì, piuttosto certo che l'avrei seguito.
"Non posso venire adesso", protestai.
Non si fermò, si limitò ad alzare la voce di qualche tono. "Ho fatto una cosa e vorrei che la vedessi".
Sbuffai e allungai il passo per raggiungerlo. Ero rimasta indietro perciò non riuscii a sentire le immediate seguenti parole.
"... ammesso e non concesso che tu debba prima chiedere il permesso per poter uscire con me", concluse.
"Dopo quello che hai fatto per me, mia madre non avrebbe proprio nulla da obiettare".
"Come minimo!", esclamò indignato, poi sbuffò. "Di fatto non mi stavo riferendo a lei".
"E nemmeno mio padre se proprio vuoi saper...".
"Mi riferivo a Stephen!", si spazientì.
Faticavo a stargli dietro.
"Stephen non ha alcun diritto di dirmi con chi posso o non posso uscire", lo contestai.
Sogghignò. "Ne sei certa?".
Mi costrinsi a guardare lo scoglio che scendeva gradualmente verso la spiaggia, incapace di controllare il nervosismo.
Lo sentii ridacchiare. "Di quà, dobbiamo tagliare per il bosco se vogliamo tornare prima che inizi a piovere".
Ci inoltrammo nella boscaglia, lungo il sentiero battuto. A parte noi c'era solo una ragazza che faceva jogging tenendo delle cuffiette nelle orecchie. Sapevo che quella era la strada più comoda per raggiungere la spiaggia e che molti la percorrevano per non dover essere costretti a fare il giro al molo. Quindi era totalmente inutile che continuassi a dar retta all'ansia che mi faceva rizzare i peli all'altezza della nuca, perché era abbastanza probabile che avessimo incontrato qualcuno prima di arrivare.
Mi guardai attorno e voltai la testa per controllare se dietro di noi ci fosse qualcuno. E ovviamente non c'era anima viva. La pelle sulle braccia cominciò a formicolare.
"Ho una cosa da dirti", mi annunciò, tranquillo, distraendomi per un momento da quella sensazione sgradevole. Anche se, forse, poi riderai di me".
"Non amo ridere degli altri".
Tutto ad un tratto perse la sua faccia tosta. Sembrava sulle spine mentre faceva un lungo sospiro che sembrava l'introduzione a ciò che stava per dire. "D'accordo allora... andiamo subito al sodo. L'altra sera, al pub, avrei dovuto scusarmi con te per aver insistito tanto nel ballare. E l'avrei fatto se non si fosse intromesso quel pezzo di...", strinse i denti, pronunciando il resto dell'offesa sotto voce.
"E' per questo che poi sei passato a casa mia a cercarmi?".
Si rabbuiò, ripensando a come mi aveva trovata svenuta sul pavimento.
"Sì, infatti. Ma ho dovuto rimandare fino a questo momento".
"Bhe... penso che tu ti sia riscattato dandomi una buona parte del tuo sangue".
S'infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans e scalciò un sassolino. Non mi guardava, anche se moriva dalla voglia di farlo.
"Sotto certi punti di vista la tua vita ora è legata alla mia".
Mi fece ridere. "Sembra quasi che abbiamo fatto una specie di patto di sangue".
Ci pensò un po' su. "Per la verità ci sarebbe un altro tipo di patto che mi piacerebbe stringere con te".
"Sarebbe?". Stavo ancora ridendo, nonostante la sua aria seria.
"Stavo pensando che, dal momento che sei viva grazie a me, mi devi un favore".
Smisi di ridere immediatamente. "Molto generoso da parte tua".
Ero stata abbastanza sarcastica da non dubitare minimamente che non si fosse accorto di avermi offesa. Eppure, stranamente, la sua risata sostituì la mia.
"E bello grosso anche, vorrei sottolineare", proseguì, dandomi contro con la spalla. "Solitamente è così che funziona. L'eroe di turno salva la vita alla fanciulla in difficoltà e poi... attenta alla cacca di cane... lei lo ringrazia dandogli un bacio appassionato".
Lo guardai storto, facendo il giro largo della stradina per non calpestare nel punto che mi aveva indicato.
"Ora, io non pretenderò certo tanto", riprese, ridacchiando della mia occhiataccia, "dopotutto mi sono già preso un cazzotto per colpa tua e non vorrei ritrovarmi gonfia anche l'altra guancia... ma porca miseria!..". Fece un balzo, schivando all'ultimo un'altra cacca di cane. "Non possono farli cagare sul ciglio della strada?... quindi ti resta un solo modo per ripagarmi. Vuoi sapere quale è?".
"Per la verità, no", bofonchiai. Mi ero resa conto da un bel pezzo che mi stava prendendo in giro, ma non ero ancora riuscita a capire fino a che punto si spingeva lo scherzo.
Si portò una mano al petto, fingendosi colpito da un attacco di cuore. "Oh, povero me. Dopo tutto quello che ho fatto, dopo aver rischiato la vita per te... ecco come vengo trattato!".
Scrollai la testa, spingendolo con tutta la forza che avevo per fargli perdere l'equilibrio e allungai il passo, costringendolo ad una corsetta per rimettersi al mio fianco.
"Eddai! Stavo solo scherzando", tentò di calmarmi. "Non sono mica come il tuo Stephen, io".
Mi voltai verso di lui, senza rallentare il passo. E sollevai il pollice sotto il suo naso: "Primo, Stephen non è mio!". Sollevai anche l'indice. "E secondo...".
Mi bloccai quando finalmente metabolizzai le sue ultime parole. Corrugai la fronte.
"Che intendevi dire con: non sono mica Stephen?", lo citai talmente bene da imitarne perfino il tono e la voce.
Affilò lo sguardo verso la spiaggia; cominciava a spuntare in lontananza, dietro alcuni piccoli spirargli tra un albero e l'altro.
"Intendevo dire che non faccio il carino con ogni ragazza che respira".
Si girò verso di me, giusto il tempo per controllare se avessi afferrato. La mia espressione piatta gli fece perdere l'aria seriosa.
"Ti prego, Micol, dimmi che non sei tanto ingenua da non capire cosa intendo con carino!?".
Rimasi senza parole per così tanto tempo che mi afferrò il mento per farsi guardare. I suoi occhi indagarono nei miei alla ricerca delle parole che non riuscivo a pronunciare.
Con uno schiaffo gli allontanai la mano. "E' per questo che avete litigato?".
"Diciamo che centra una ragazza", restò sul vago.
Fece un cenno con la testa indicandomi quale direzione prendere dal momento che il sentiero si biforcava. Eravamo ormai arrivati sulla spiaggia, l'unico punto non attrezzato della costa dove di solito, se ricordavo bene, la gente ci andava con i propri cani o per bere birra attorno ai falò. Era abbastanza deserta, tranne che per tre ragazzi che avevano tutta l'aria di conoscere Alex dal modo in cui muovevano un braccio nella nostra direzione.
Mi sfilai i sandali e immersi i piedi nella sabbia tiepida, ma non ebbi il tempo di fare molta strada perché mi sentii tirare per un braccio.
"Aspetta un attimo, Micol!".
Lo fissai, in attesa. Dalla spiaggia sentivo i fischi di quei tre ragazzi, seguiti da risate maliziose.
"Stai con quello lì?", chiese. C'era disgusto nel suo tono anche se preferii non badarci troppo.
"Se per quello lì ti riferisci a Stephen la risposta è no".
Mi voltai, ma lui mi prese per le spalle obbligandomi a rigirarmi di nuovo.
"Però ti piace", disse, e non era una domanda.
Ridussi gli occhi in due fessure, cercando di indietreggiare per liberarmi dalla stretta. I fischi alle mie spalle stavano cominciando ad irritarmi.
"Non ti riguarda".
"Mi riguarda eccome", obbiettò, irritato, togliendomi le mani di dosso per incrociare le braccia al petto. "Non voglio che finisci tra le braccia di uno che vuole solo portarti nel suo letto".
Questa affermazione mi fece infuriare più di quanto avessi mai creduto. "Sei patetico!".
"Tu te ne sei andata, non puoi sapere se ti sto mentendo".
"Ma nemmeno se stai dicendo la verità".
A quel punto stava ghignando, ironico. "Credi davvero che uno come lui possa innamorarsi di te? Il giorno che accadrà probabilmente starò contando i capelli che mi sono rimasti in testa, appoggiato ad un bastone".
Risposi con un grugnito. Il dubbio si stava lentamente insinuando dentro di me. Su una cosa Alex aveva ragione: ero stata lontana troppo tempo per potermi fidare di qualcuno. E la vita mi aveva insegnato in un modo abbastanza crudo quanto fosse saggio non credere ciecamente alle persone.
"Che cosa ha fatto per meritarsi tante accuse?", domandai inespressiva, incamminandomi lungo la spiaggia.
Si morse il labbro, fingendo di pensarci su. "Che è violento l'hai constatato con i tuoi occhi. Ma in realtà, sono state tante piccole cose che mi hanno portato ad odiarlo. Prima tra tutte il suo modo di prendere in giro le ragazze. Si è scopato quasi metà delle donne di Port Angeles". Scosse la testa. "E' disgustoso!".
"Lui dice la stessa cosa di te!", pensai a voce alta.
Rise a squarcia gola. "Che gran pezzo... Dai, vieni", lasciò cadere il discorso con una facilità sorprendente. "Hai ancora un debito da pagare".
"Ancora con questa storia", brontolai, lasciandomi trascinare in fretta verso la piccola baia che dava sul porto.
I tre ragazzi che fischiavano si zittirono e si allontanarono quando Alex ringhiò un: "Smammare!".
Appena ci fermammo rimasi a bocca aperta per lo stupore e feci un giro su me stessa per abbracciare con lo sguardo ogni particolare.
L'intera baia era stata trasformata in una discoteca all'aperto; piccoli divanetti in stoffa bianca circondavano la pista da ballo, ricavata con delle lunghe travi in legno verniciate che terminavano ai piedi dell'impianto stereo più grande che avessi mai visto. Da lì partiva la postazione del dj, nascosta dietro un enorme telo bianco riportante la scritta: "Festa d'estate". Appese alla scogliera si allungavano sopra le nostre teste file e file di lampadine colorate che scendevano come una cascata dietro al bancone del bar, sopra il quale erano stati appoggiati degli scatoloni pieni di cd.
"L'hai fatto tu?", chiesi.
"Insieme a quei tre idioti laggiù". Indicò con un cenno della testa i tre ragazzi di prima, nascosti dietro una casetta di legno per spiarci.
Restai basita per un minuto buono, poi sbattei le palpebre un paio di volte.
Si strinse nelle spalle, con modestia. "Ti piace?".
"E'...", non riuscivo a trovare una parola adatta. "Wow! Bisogna ammettere che hai ereditato da tuo padre tutte le sue doti architettoniche".
Fece una smorfia. "L'unica cosa che ho ereditato da mio padre sono i suoi debiti di gioco".
Mi concentrai molto attentamente sul discorso.
"Ce l'hai ancora a morte con lui?", indagai.
Sollevò una spalla e staccò un pezzo di ramo da un alberello per sbriciolarlo. "Un po'... ma si è riscattato, sai? Per tutti questi anni ha continuato a lavorare e bene o male si è ripagato tutti i debiti". Si girò a guardarmi con gli occhi venati di tristezza. "Se non sbaglio l'avevi avuto come professore l'anno prima che ti fossi trasferita".
"Sì", risposi laconica.
"Pensa un po'", sorrise. "Ora insegna nella classe di mia sorella Bea. Quella ragazzetta ha una fortuna sfacciata ad avere per professore il proprio papà. E guarda caso nemmeno un'insufficienza sul registro".
Notai il suo sguardo intenerirsi mentre parlava della sorellina.
"Vieni!", rise orgoglioso. "Ti faccio vedere da vicino".
Lo seguii.
"Mi sono preso qualche mese di vacanza prima di entrare nell'esercito", mi raccontò, mentre spillava due boccali di birra.
Me ne offrì uno e alzò la testa verso le nuvole nere che si stavano allontanando all'orizzonte, affogando nel mare mosso.
"Così ho pensato di dare una mano all'organizzazione comunale dal momento che, a quanto pare, sono l'unico che se la cava con i lavori manuali", concluse.
Sorseggiai la birra fredda, ricordando di punto in bianco quanta sete avessi.
"Non sono mai stata a una festa d'estate", mormorai, attratta dalle lucine colorate.
"Stai scherzando?". Era davvero sorpreso.
Scossi la testa. "Quando vivevo a Port Towsend non avevo molto tempo per divertirmi".
"E che facevi? A parte i ragazzi".
"Nessun ragazzo".
Sollevò un sopracciglio, scettico. "Non mi dire che...".
"Te lo dico, invece". Ora ero imbarazzata.
Socchiuse gli occhi, rimuginando su qualcosa. "Quindi, correggimi se sbaglio", tentennò, "tu, Micol Connor, non hai mai ballato con nessuno?".
Gli risposi con un mugugno che sarebbe dovuto essere un no.
Gli occhi di Alex si illuminarono, la bocca si incurvò in un sorriso enorme. "E qui, si ritorna al punto lasciato in sospeso".
Posai sul bancone il mio bicchiere vuoto. "Quale punto?".
Ridacchiò furbo, dandomi un pizzicotto sul naso. "Il favore che mi devi!".
"Non ti devo nessun favore".
"Oh sì, invece".
Gli lanciai un'occhiata scherzosa di rimprovero.
"Ti ho salvato la vita mettendo a repentaglio la mia", fingeva di essere risentito. "Te lo sei dimenticato, bimba?".
"Mettendo a repentaglio la tua?", obiettai, scoppiando a ridere. "Sei semplicemente entrato da una finestra al pian terreno e hai chiamato un ambulanza".
"E ho perso un mucchio di sangue", aggiunse solenne.
Sollevai gli occhi in aria e sbuffai. "Che cosa vuoi?".
Incrociò le braccia e mi osservò lentamente, lasciandomi scorrere gli occhi dalla testa ai piedi. Si mordicchiava l'angolo del labbro, pregustando la sua idea.
"Un ballo. Qui!".
Puntai lo sguardo verso la pista, rossa di vergogna.
"Ora?", mi strozzai quasi nel chiederlo.
"Manno!", rise del mio imbarazzo. "Domani sera, alla festa".
Lo guardai guardinga. "Se devo uscire con te sono due i favori".
Fece schioccare tre volte la lingua. "Verrai con chi vuoi e quando vorrai. Ma un ballo lo riserverai a me".
Ero ancora sospettosa. "Ti accontenti di un ballo?".
"Stai scherzando? E' l'unico modo che ho per poterti abbracciare senza rischiare di ritrovarmi con un occhio nero!".
Stavo per ribattere ma non me ne lasciò il tempo. Allungò la mano aperta verso di me e disse: "Affare fatto, bimba?".
La strinsi fingendomi riluttante.
"Affare fatto!", mugugnai. "E non chiamarmi bimba".
"Preferisci strega?".
Lo colpii sulla spalla e mi arrampicai su una roccia.
"Dove stai andando?", mi corse dietro.
"A lavorare".
Si fermò.
"Posso chiederti un'ultimissima cosa?", urlò, quando raggiunsi il sentiero.
"Che vuoi?", lo incalzai, senza voltarmi.
"Non c'è nessuna possibilità che i balli possano diventare due?".
Lo liquidai con un gesto della mano e proseguii a passo svelto. Qualche istante dopo avvertii tre voci gridare in coro: "E vaiii! Un punto per il nostro Alex".
Mi accorsi che stavo sorridendo sotto i baffi.
"La volete piantare?", era la voce minacciosa di Alex.
Seguirono i rumori di una piccola zuffa, accompagnati da grida di incitamento e grida più forti di ammonimento che diminuivano man mano che mi addentravo nella boscaglia.
A quel punto uno strano sussulto scosse il mio petto e sentì in gola lo strappo di un colpo di tosse secca. Fu una vera scarica, rauca e stridula, ma soltanto quando mi sentì pungere gli occhi e mi accorsi che non c'erano lacrime, capii che stavo ridendo. Finalmente ridevo! E non per convincere qualcuno che stavo bene. Protrassi la risata il più a lungo possibile per imprimerne nella mente il suono. Era un rumore che col tempo avevo finito col dimenticare.
AVVISO: vorrei sottoporre alla vostra attenzione la storia di Martina intitolata SOULS
il link diretto: https://www.wattpad.com/story/48756134-souls-h-s
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