PSICOLOGO

"Se vuoi la prendo io quell'ordinazione", mi propose Giusy, guardando di sbieco le occhiaie nere sotto i miei occhi.

Al Burgher King era stata una mattina piena di lavoro ed ora finalmente il locale si stava svuotando. Al momento erano rimaste solo due persone e a giudicare dalla loro accesa discussione non se ne sarebbero andate tanto presto.

"D'accordo, fa pure", risposi.

Riempii i portatovaglioli e mi affrettai a fare il giro del bancone dove poco prima avevo tolto dalla lavastoviglie una dozzina di bicchieri e almeno cento forchette. Stavo togliendo le macchie di calcare dal bordo di un bicchiere quando d'un tratto, senza una ragione, nei miei pensieri si insinuò il volto mozzafiato di Stephen. Qualcosa dentro di me cominciò a muoversi. Una strana sensazione sconosciuta si materializzò nel mio cuore, facendosi strada a forza per uscire da lì.

Subito non capii di cosa si trattasse.

"Stephen", mormorai il suo nome tra me e me, pensando a lui con un'intensità tale da farmi sentire nello stomaco una sensazione di panico misto a felicità.

Mi accorsi che stavo rigirandomi tra le mani lo stesso identico bicchiere e sbirciai verso Giusy, certa di trovarla ancora al tavolo degli unici due clienti rimasti. Ma non la trovai dove pensavo. Stava rientrando proprio in quel momento dalla sua pausa.

Da quanto stava andando avanti così? Per quanto tempo ero rimasta imbambolata a pensare a Stephen?

"Sei allegra, oggi!", notò il signor Robert, rientrando fianco a fianco con Giusy.

"Ehm, sì". Ero distratta.

Sentivo i miei piedi sollevarsi da terra, facendomi fluttuare nell'aria. Era la prima volta che provavo una cosa simile, eppure ero abbastanza certa di sapere di cosa si trattasse. Nella mia assoluta inesperienza sapevo cosa mi stava succedendo, lo sospettavo quantomeno, e nel momento stesso in cui l'idea mi affiorò in mente ebbi la certezza di non sbagliare. Forse l'avevo capito già alla palestra, mentre vincevo la mia paura di toccare Stephen. O forse, a farmi scattare un campanello d'allarme, era stata la nostra ultima telefonata.

Dal fondo dello stomaco sentii salire veloce un brivido che planò alla base della gola, sgorgando in un verso stridulo che somigliava vagamente ad una risata.

Mi stavo innamorando? Era questo ciò che mi stava accadendo? Era possibile?

Pur sentendomi raggelata continuai a lavorare fino alla fine del turno, concedendomi una pausa solo quando dovetti andare al bagno. Uscii dalla porta sul retro, salutai Robert e mi infilai in macchina. Alla luce del sole quel parcheggio non era così terrificante; macchie bianche e celesti di fiori estivi si spargevano a vista d'occhio tra i fili alti d'erba, ai lati degli alberi.

Affondai il piede nell'acceleratore e la macchina protestò, ringhiando e spegnendosi, come la sera prima. Non potevo guidare in quello stato. Dovevo prima calmarmi.

Non capivo il perché mi sentissi tanto shoccata. Dopotutto sapevo che sarebbe successo prima o poi, altrimenti non gli avrei mai permesso di meritarsi la mia fiducia.

Posai la fronte sul volante e cercai di distrarmi pensando alla festa di quella sera.

Grosso sbaglio! Grossissimo. Anziché rilassarmi mi irritai ancora di più.

Cosa sarebbe successo quando Alex mi avrebbe vista arrivare con Stephen? E lui? Come avrebbe reagito lui nel vedermi ballare col suo peggior nemico? L'unica volta che li avevo visti insieme nella stessa stanza avevano fatto a pugni. Come potevo anche solo sperare che quella sera sarebbe andata diversamente?

Avrebbero litigato un'altra volta e questa volta per colpa mia. Mi ero ritrovata coinvolta senza nemmeno accorgermene e non avevo idea con chi consigliarmi. Anne era da escludere poiché, se avevo visto giusto, aveva problemi ben più seri di cui occuparsi che una scaramuccia tra amici. Con Trevis non avevo praticamente confidenza e l'avevo visto solo una volta da quando ero tornata a Port Angeles. Mi restava Sarah. Ma lei non sapeva nulla delle vite dei miei vecchi amici. A dire il vero nemmeno io sapevo più nulla delle loro vite.

Misi da parte la lunga lista di interrogatori e tornai a casa senza incidenti. Entrai dal retro e lanciai in aria il grembiule di lavoro sporco, facendo canestro con l'attaccapanni al primo colpo e proseguii lungo il corridoio che portava al salotto.

Appena entrai, fui sul punto di riuscire subito. La prima cosa che i miei occhi registrarono fu la cravatta azzurra del dott. Craoge. Ma anziché fuggire rimasi impalata a fissarlo, reprimendo un conato di nausea.

"Che ci fa lei qua?", chiesi scortese.

Mia madre posò la tazza di tè sul tavolino e si alzò. "Micol, il dottor Craoge è passato a vedere come stavi".

Guardai oltre la sua spalla, verso di lui, e preparai un sorriso abbastanza fasullo sulle mie labbra.

"Come può vedere sto bene".

A quel punto mi si avvicinò, sfoderando il miglior sorriso del suo repertorio. "Vieni, Micol, accomodati".

Tirai un profondo respiro e lo seguii, schiumante di rabbia. Lui si riaccomodò sulla poltrona e mi fece cenno di prendere posto sul divano. Non riuscivo nemmeno a guardarlo in faccia. Osservavo impotente mia madre mentre in silenzio sgattaiolava verso l'ingresso e si richiudeva la porta alle spalle. Sparita lei dalla mia visuale, mi misi a guardare fuori dalla finestra senza preoccuparmi di fargli capire che lo stavo ignorando di proposito.

Non riuscivo a smettere di pensare che, a parte il dott. Craoge, c'ero solo io in tutta la casa. E presto avrebbe fatto buio. Cominciai a sentirmi a disagio.

"Ora sei preoccupata", disse.

Aveva tirato ad indovinare o aveva fatto centro al primo colpo?

"Ti va di parlarmene?", mi incitò.

"No", declinai.

Lui incassò il colpo senza battere ciglio, si limitò a star zitto e a fissarmi. Mi infastidiva il modo in cui mi guardava. Mi faceva desiderare di scappare lontano.

"Presto farà buio". Non sapevo dove stavo andando a parare con quella frase, ma mi rendevo conto di dover dire qualcosa se volevo che se ne andasse il prima possibile.

"E il buio non ti piace".

"No, infatti", confermai, guardando ancora le ombre in giardino che si stavano allungando.

Si sollevò dalla poltrona.

"Vieni", disse, e senza controllare che lo stessi seguendo si avvicinò alla porta d'ingresso.

Lo raggiunsi poco dopo, titubante.

"Metti una mano qui", mi ordinò, dando due colpetti alla maniglia.

Avvicinai la mano, confusa, e la strinsi. Mi sentivo ridicola, però era rassicurante. Mi dava la certezza di avere una via di fuga a portata di mano. Potevo aprire la porta non appena l'avrei voluto e lui, dalla poltrona, non avrebbe avuto il tempo di impedirmelo.

"Va meglio?", si accertò.

"Un po'".

"E' evidente che dovremmo lavorare sulla questione fiducia".

"Perché è qui?". A quel punto ero curiosa di scoprirlo. "Cosa vuole da me?".

Le sue sopracciglia non avrebbero potuto inarcarsi di più. "Tu pensi che io voglia qualcosa da te?".

"Esatto".

"Potrebbe essere vero se avessi la tendenza a ricercare le offese e a trarne piacere. Mi credi così masochista?".

Abbassai lo sguardo, rossa di vergogna. "No".

Incrociò le braccia, affondando la schiena nei cuscini della poltrona. Sembrava totalmente a suo agio. Al contrario io ero tesa, la mano rigida sulla maniglia, pronta al peggio.

"Vogliamo cominciare?", mi chiese.

Annuii controvoglia.

"Allora, questa è, Micol, la classica situazione in cui io dovrei farti delle domande e lasciarti poi il tempo necessario per inventare una stronzata da rifilarmi, spacciandola come verità". Schioccò la lingua due volte. "Non negare!".

Mi resi conto che stavo per farlo solo quando me lo fece notare.

"Quindi ti rivolgerò solo una domanda, per oggi. Questo è quello che ti propongo! E se tu sarai abbastanza credibile, giuro che uscirò da quella porta e fino a giovedì prossimo non sentirai parlare di me".

"Giovedì prossimo?", sussultai.

Si aggiustò la cravatta. "Preferisci prima?".

"Preferirei mai!".

Sorrise presuntuoso. "Anch'io preferirei avere una Porsche, ma nella vita bisogna pur accontentarsi, non ti pare?".

Stritolai la maniglia, maledicendolo sotto voce. "Vada avanti!", tagliai corto.

Mi entrò dentro con lo sguardo. "Dimmi cosa pensi di Dio".

Quella era senza dubbio l'ultima domanda che mi sarei mai aspettata.

"Cosa penso di Dio?", ripetei, aggrottando la fronte.

"Su, Micol, forza!", mi esortò. "E' una domanda facile. Cosa pensi di Lui? Vai in chiesa? Non ci vai? Ogni tanto Ci parli?... dimmi quello che ti passa per la testa".

Mentalmente risistemai i pensieri, le emozioni e i miei istinti ribelli, preparando una frase da dire che andasse oltre a qualcosa di stupido come "non saprei". E le parole, pigre e dapprima confuse, emersero dalla confusione, nascondendo in sé la mia vera fede, quella che avevo incrociato molti anni prima.

"Io...", attaccai dubbiosa, "penso che... ecco, penso solo che Dio non sia poi così perfetto come tutti dicono".

"Per tutti i disastri che si sentono in televisione o si leggono sui giornali?", ipotizzò.

"No... bhe, forse. Ma quelli siamo noi uomini a causarli, non Lui. Penso che Lui sia stato molto bravo a creare la perfezione. Ha creato gli alberi, le nuvole, il Mondo... insomma è stato... bravo!", annuii assorta. "Meriterebbe devozione se solo non ci avesse presi in giro".

"Presi in giro?". Il mio ragionamento lo stava incuriosendo.

"Sì, perché la sua perfezione è imperfetta".

Scrollò la testa. "Continuo a non seguirti".

"Lui, o chi per Lui, ha detto di averci donato la vita. Ma se la guardi bene non è affatto così. Sarebbe più corretto dire che ce l'ha prestata, che ci ha solo permesso di viverla e usarla. Ma in realtà noi non abbiamo niente di veramente nostro. Nemmeno la vita lo è. Perché un giorno arriverà qualcuno a riprendersela e di noi non resterà più niente".

I suoi occhi si illuminarono, concentrati. Stava analizzando le mie parole, rimettendole poi in ordine secondo la propria logica e facendo combaciare i primi tasselli. Glielo si leggeva in faccia.

"E credi che questo qualcuno, chiunque esso sia, possa rubarsi la nostra vita lasciandoci, malgrado tutto, la possibilità di continuare a respirare e vivere in una sorta di perenne e immobile purgatorio?".

Annuii con un impercettibile movimento della testa, gli occhi si erano fatti lucidi.

Si accigliò. "Deve essere proprio un gran bastardo questo qualcuno".

Feci un altro cenno di assenso ma stavolta riuscì a strapparmi un sorriso.

"Parla in modo strano per essere uno psicologo".

Mi sorrise, fece un piccolo passo in avanti e si sfregò le mani. "Bene, Micol, direi che sei stata piuttosto convincente".

"Posso farle io una domanda?", dissi in fretta.

Sollevò un sopracciglio. "Basta che poi non mi chiedi la parcella...".

Spontaneamente, senza che dessi un preciso ordine alle mie labbra, le sentii piegarsi in un mezzo sorriso, schiudendosi di qualche millimetro. Capii di aver smesso di detestarlo e mi sorpresi. Non volevo che se ne accorgesse, perciò tornai in fretta severa e composta.

"Perché, sapendo di avere una sola domanda a disposizione, non ha chiesto qualcosa su di me?".

"Non avrei ottenuto il mio scopo". Indicò il mio braccio destro.

E solo a quel punto mi accorsi che lo avevo lasciato cadere contro il fianco. La mia mano aveva smesso di stringere la maniglia. Peggio ancora, mi ero addirittura allontanata dalla porta. Guardai veloce a destra e a sinistra, poi ancora a destra. Senza rendermene conto, mentre parlavamo, mi ero spostata di un buon metro verso il salotto. E fuori era buio. Sentii la mandibola aprirsi lentamente verso il basso.

"Mi ha ipnotizzata!", lo accusai. Non riuscivo a trovare un'altra soluzione. Mi rifiutavo perfino di cercarla.

Il Dott. Craoge si limitò a fissarmi, enigmatico. Poi mi voltò le spalle. Rimasi a guardarlo in silenzio, irritata, mentre a passi lenti si avvicinava all'uscita e abbassava la maniglia, come aveva promesso.

"Com'è che mi sono allontanata dalla porta senza accorgermene?", lo incalzai.

Rispose un secondo prima di andarsene, quando già aveva posato un piede in veranda. "Forse perché hai capito che non è poi così brutto quello ti è rimasto dopo che qualcuno ti ha rubato la vita. Chi lo sa?".

Se ne andò lasciandomi con quella stupida metafora che mi frullava in testa.

Rimasi impalata in mezzo al corridoio, con la schiena posata sulla parete, percependo a mala pena che lo spigolo di una cornice mi stava perforando un rene. Poi il rombo di un motore mi distrasse e corsi alla finestra in tempo per vedere la sua auto argentata imboccare la strada principale e defluire nel traffico del sabato sera, quasi tutto diretto a est, verso la spiaggia.

Neanche mezzo secondo dopo vidi la macchina di Stephen spuntare dall'angolo, seguita a ruota da quella di mio padre.

Maledizione! Avevo perso la cognizione del tempo, era tutto il giorno che per un motivo o per l'altro la perdevo per strada.

Corsi su per le scale e mi infilai sotto la doccia. Dal piano di sotto sentii schiudersi la porta d'ingresso e la voce di Stephen. Non era mai stato puntuale in vita sua e aveva deciso di diventarlo l'unica volta che mio padre aveva intenzione di scambiarci quelle famose quattro chiacchiere. Aprii piano la porta del bagno e in punta di piedi attraversai il pianerottolo e sgattaiolai in camera per prendere il vestito rosa che avevo comprato insieme a Sarah. Nella mia stanza sentivo meglio ciò che si stavano dicendo...

"Stephen, so che sei un caro ragazzo e che mia figlia con te è al sicuro. Quello che in realtà vorrei sapere riguarda le intenzioni che hai su di lei".

"Sono intenzioni più che buone". Potevo immaginare il suo sorriso sfacciato mentre gli rispondeva. "Glielo assicuro".

"Non fare l'arrogante con me, ragazzo", ridacchiò mio padre. "So bene quanto siano buone queste tue intenzioni, perché sono esattamente le stesse che avevo io per primo alla tua età. Solo, volevo essere certo di aver capito la natura del vostro rapporto".

Era il turno di Stephen di ridere. "Purtroppo per me non è ancora di natura sessuale, glielo garantisco".

Il vestito mi scivolò dalle mani, cominciai a sudare freddo. Era impazzito?

"Quindi non state insieme?", il tono di mio padre era davvero sorpreso. Chissà cosa si era costruito in testa?

"Direi di no, signore".

Seguì qualche minuto di silenzio e mi affrettai a indossare il vestito e a recuperare il cellulare da sotto alcuni fogli sparpagliati sulla scrivania.

"E tu le vuoi bene, non è vero?", la domanda di mio padre suonò retorica perfino alle mie orecchie.

"Beh, certo!", scoppiò a ridere Stephen. "Altrimenti chi me lo farebbe fare di stare su questo divano ad affrontare il padre più rompipalle di tutta Port Angeles?".

La risata di mio padre si unì a quella di Stephen. "Mi hai appena dato del rompipalle? Ho capito bene?".

"In senso buono, stia tranquillo. A proposito, signore, potremmo passare alla fase successiva?".

"Quale fase successiva?".

"Quella in cui mi minaccia se oserò riportare a casa sua figlia dopo il coprifuoco. Sarei impaziente di andare a vedere cos'è che sta combinando di sopra".

"Ah... giusto. Mezzanotte e mezza", disse perentorio.

"Sta scherzando? Mi tolga una curiosità: lei è mai stato ad una festa?", protestò Stephen.

"Certamente. E sono sempre rientrato ad un'ora decente".

"Cazzate! Non mi venga a dire che non si è mai ubriacato a una festa tanto da risvegliarsi il mattino dopo nel letto di una donna di cui non ricordava il nome".

Mi tappai le orecchie. Non avevo più il coraggio di ascoltare e mi era rimasto poco tempo per prepararmi. Corsi allo specchio appeso all'interno dell'anta dell'armadio e applicai il rimmel.

Un istante dopo sentii bussare alla porta. Dallo spiraglio intravidi la sagoma di Stephen.

"Posso entrare?", chiese educato.

Mi guardai attorno, nel panico. "Vieni".

Spalancò la porta ed eccolo lì, nella mia stanza. Era di una bellezza sconvolgente, così assurda da mozzarmi il fiato. Ripercorsi lentamente ogni lineamento del suo volto, mentre alcune fitte al petto mi dimostravano quanto i miei pensieri fossero ben distanti dalla realtà. Non c'era una fantasia capace di eguagliare ciò che i miei occhi stavano vedendo in quel momento; le sue labbra piegate di lato in un sorriso ironico, il mento squadrato, le guance abbronzate e ricoperte da una leggera barba, la fronte attraversata da una sottile ruga, semi nascosta da alcuni ciuffi neri che il gel aveva reso più lucidi. Il sopracciglio, sempre arcuato come se qualcosa lo stesse divertendo da morire, e gli occhi, quegli occhi circondati da lunghe ciglia, scure e fitte, che per averle anche solo lontanamente simili avrei dovuto svuotare un intero barattolo di mascara.

"Sono in anticipo?", chiese sorpreso, notando che ero scalza e che la zip del vestito era ancora mezza aperta.

"Sei troppo poco in ritardo", balbettai.

Si mosse aggraziato per la stanza, guardandosi attorno, affascinato. L'ultima volta che era entrato non aveva avuto nemmeno il tempo di dare un'occhiata in giro.

Svitai il lucidalabbra, avvampando come una quindicenne. Speravo tanto che non notasse il poster dei Take That che avevo appeso a nove anni. Dallo specchio lo vidi avvicinarsi a me. Il pennello del lucidalabbra mi finì direttamente dentro una narice.

"Voi donne avete sempre problemi a chiudere la zip fino in cima", alitò sul mio collo, incurvandosi in avanti per tirare su la cerniera del mio vestito.

Le sue dita indugiarono un po' troppo sulla mia nuca, facendomi venire la pelle d'oca.

Di colpo mi tornò in mente la nostra ultima telefonata. Dovevo chiarirmi in fretta con lui prima che pensasse di poter avanzare delle pretese. Perciò mi voltai per guardarlo dritto in faccia ma la sua attenzione era catturata da altro.

I suoi occhi avevano ripreso a vagare per la stanza, sopra le mie scarpe da ginnastica abbandonate sotto la scrivania, sul lembo di lenzuolo che toccava il pavimento e... argh... sul maledetto poster dei Take That.

Sempre dello specchio vidi il suo sopracciglio sollevarsi e nel panico tracciai un altro baffo di lucidalabbra. Decisi di lasciar perdere e caddi sulle ginocchia per sbirciare sotto al letto, certa che ci avrei trovato almeno una scarpa del paio che stavo cercando.

"Bello!", commentò divertito. "Il poster, intendo!".

"E' di quando ero piccola", mi affrettai a specificare. "Appena avrò il tempo lo sostituirò".

Recuperai la scarpa e annaspai sotto una pila di vestiti alla ricerca dell'altra.

Ora Stephen stava studiando rapito dentro il mio beauty case e mi lanciai contro di lui per richiuderlo.

"Che ombretto usi?", mi chiese, appena gli strappai il beauty case dalle mani.

"Non lo uso".

Forse non era stata una grande idea invitarlo ad entrare. Dovevo portarlo fuori di qui prima che gli venisse in mente di aprire qualche cassetto e scoprire quali tipo di assorbente indossassi.

Tornai alla pila di vestiti e imprecai tra i denti quando non trovai la compagna della scarpa che avevo già infilato nel piede. Perché non riuscivo mai a trovare niente quando lo cercavo? Perché dovevo essere sempre così disordinata? E ora dov'era finito Stephen?

Mi voltai e vidi che con un dito stava facendo dondolare la mia scarpa col tacco.

"Cercavi questa?".

"Grazie!", farfugliai, allungando la mano per prenderla.

Ma lui sollevò il braccio, portando la scarpa fuori dalla mia portata. Uno strano sorriso gli incurvava gli angoli perfetti della bocca, lasciando scoprire una striscia di denti bianchi e dritti.

"Dammi la mia scarpa", protestai.

"Siediti".

"No".

"Siediti, Micol!!", questa volta il suo tono somigliò ad un ordine.

Ubbidii all'istante, lasciandomi cadere sul bordo del letto. Immediatamente lui si piegò sulle ginocchia, di fronte a me. Era così alto che anche da così i suoi occhi erano alla stessa altezza dei miei.

"Cos'hai intenzione di fare?", indagai.

Si morse il labbro inferiore, scuotendo piano la testa. "Ne uscirò distrutto".

"Ne uscirai distrutto? Da cosa? Di che stai parlando?".

"Ho intenzione di insegnarti a non aver paura di me, ma per farlo ne morirò".

Corrugai la fronte. Non riuscivo a capire. "Perché ne morirai?".

Sbuffò piano. "Lascia stare".

"Non voglio lasciar stare".

"Appoggia entrambe le mani sul materasso e non muoverle. Ora vedrai come puoi uccidere un uomo senza neanche dover muovere un dito", ammiccò.

Lo feci senza protestare. Se avessi intuito cosa aveva in mente, di certo mi sarei alzata e sarei corsa al piano di sotto da mio padre. Ma la mia testa ingenua non sarebbe stata in grado di captare la malizia nello sguardo di un uomo nemmeno se avesse stampato in fronte le proprie intenzioni.

Stephen mi acciuffò la caviglia e se la posò sul ginocchio. Non riuscivo a respirare e il cuore sembrava esplodere, ma non era la mia solita paura.

I suoi occhi non perdevano di vista i miei, in cerca probabilmente di un qualunque segnale che gli facesse capire di smettere. Un segnale che a quanto pare non trovò, dato che le sue dita di colpo salirono lungo il mio polpaccio, fermandosi al ginocchio.

D'istinto cercai di ritrarre la gamba ma lui rafforzò la presa. Non mi restava altro che supplicarlo con lo sguardo.

"Puoi fermarti ora?", mormorai.

"Ti da fastidio se ti tocco?".

Scossi la testa e in meno di un battito di ciglia la sua mano salì ancora, stringendo leggermente il mio interno coscia. Mi si mozzò il respiro e cominciai a sentire la nausea, letteralmente.

Dal piano di sotto sentivo il ronzio del frullatore. Mi rassicurò. Mi bastava lanciare un urlo e mio padre sarebbe arrivato in meno di dieci secondi. Non correvo pericoli. Potevo rilassarmi. Potevo lasciare che Stephen mi toccasse. O potevo urlare e far finire quella agonia.

"Potrei morire per molto meno", sussurrò, seguendo con lo sguardo le sue dita mentre mi accarezzavano, lente e decise, dietro il ginocchio e poi giù, lungo tutto il polpaccio, per poi fermarsi sotto la pianta del piede. E tutto d'un tratto, senza lasciarmi il tempo di protestare, tornarono ad insinuarsi nel mio interno cosca, sotto il vestito.

Stephen mugulò appena, roco, e quel suono fece fremere qualcosa dentro di me che non riconobbi ma che di certo riuscì a spazzar via l'agonia.

Sentivo le braccia tremare, incapaci di sostenere il mio peso. Se non fossi stata attenta sarei finita distesa lungo il materasso. Mi sporsi in avanti, posandogli le mani sulle spalle per sorreggermi, e da quella posizione vidi chiaramente la stoffa del cavallo dei suoi pantaloni tesa e tirata all'inverosimile.

"Stephen!", lo chiamai, deglutendo.

I suoi occhi saettarono immediatamente su di me, concentrati e attenti, segno che non aveva perso lucidità neppure per un istante nonostante l'evidente erezione.

"Credo che tu abbia un problema là sotto", cercai di scherzare.

Non gli occorse guardarsi i pantaloni per capire a cosa mi stessi riferendo. Sorrise di obliquo, senza il minimo imbarazzo e senza lasciare i miei occhi neppure un secondo.

"Credo che il mio più grosso problema sia qua di fronte a me e credo anche che finché non ti avrò nuda sotto di me non si risolverà".

Mi infilò la scarpa e si sollevò di scatto, facendomi ritrovare con la sua erezione davanti alla faccia. Lanciai un mezzo urlo e chiusi gli occhi. Da dietro le palpebre non potevo vederlo ma potevo chiaramente sentirlo ridere.

"Mia dolce ragazza ingenua e innocente sarà bene che tu tenga gli occhi chiusi ancora per qualche istante perché, a meno che non voglia spogliarti qui ed ora, devo risolvere da me il problema in questione".

"Cosa?", urlai stravolta. "Non vorrai mastur... cioè toccar... cioè....".

Lo sentii ridacchiare, maligno. "Spiegati meglio, non ho capito la domanda".

"Non avrai un orgasmo davanti a me e in camera mia e con mio padre di sotto".

La sua risata aumentò. "Vuoi che dica a tuo padre di allontanarsi?".

"Stephen, non osare!", lo minacciai, furibonda. "E smettila di toccarti".

"Apri gli occhi".

"Neanche morta!".

"Apri gli occhi, sciocca", modulò la voce a una cucchiaiata di miele. Quando parlava così sembrava uno di quei doppiatori della TV.

"Perché?".

"Perché così vedrai che non mi sto toccando. Non lo avrei mai fatto davanti a te".

"Figuriamoci. Come se tu non l'avessi fatto mille volte davanti a mille donne".

"Gelosa?".

Sbuffai. "No. Posso veramente aprire gli occhi? Sei vestito?".

Questa volta scoppiò a ridere. "Micol, è vero che ti ho detto che dovevo risolvere il problema da solo, ma intendevo dire che dovevo sistemarmi i boxer e i pantaloni in modo da nascondere il più possibile a tuo padre l'evidente attrazione che ho per te. Credi davvero che mi avrebbe permesso di portarti fuori vedendomi scendere al piano di sotto con una delle più grandi erezioni che ho avuto in vita mia?".

Improvvisamente mi sentii una stupida, talmente in imbarazzo da non desiderare affatto riaprire gli occhi. Senza dubbio mi sarei scontrata con quel suo sorriso beffardo e malizioso che a quanto pare faceva girare la testa a quasi tutte le ragazze, mentre a me faceva solo imbestialire.

Invece quando trovai il coraggio di aprire un occhio, nella sua espressione trovai solo desiderio e sofferenza: sembrava davvero in punto di morte come aveva detto poco prima.

"Andiamo?", disse. Più che una domanda era una supplica. "Gli altri ci stanno aspettando e siamo in ritardo, quindi smettila di cercare di sedurmi e di supplicarmi di toccarti le gambe. Non ho tempo di scoparti adesso. Rassegnati, ragazza!".

Lo colpii alla spalla con un cazzotto che nemmeno lo spostò di un centimetro. "Sei il solito idiota".

Si portò una mano al cuore, fingendo un'espressione allibita e offesa. "Tu fai la sfacciata con me, mi accogli mezza nuda nella tua stanza, mi guardi il pacco, mi sbatti le tue gambe nude in faccia e poi mi dai dell'idiota perché sono così galantuomo da non far nulla per scoparti?".

"Non sei affatto un galantuomo come sostieni. Mi hai toccato le gambe con l'inganno".

Un sorrisetto maligno gli affiorò sulle labbra. "Il che dimostra che non sono poi così idiota come dici".

Sollevai gli occhi al cielo. "E io non ti ho guardato il pacco con l'intento di guardarlo".

"Lo so. Infatti da come lo guardavi sembrava più che volessi mangiarlo".

"Cosa?". Sgranai gli occhi. Sapevo che si stava volutamente prendendo gioco di me ma avevo comunque intenzione di difendermi. "Io non avevo nessunissima voglia di mangiare il tuo dannatissimo pisello".

"Mmm", mugugnò a occhi chiusi. Sembrava essere andato in estasi.

"Che c'è?".

"Non dire mai più la parola mangiare e pisello nella stessa frase o potrei mandare a farsi fottere l'unica parte gentile che è sopravvissuta in me e sbatterti contro il muro".

Mi tolsi una scarpa e mirai alla sua testa, pronta a scagliargliela contro. "Se non la pianti, io...".

"Mmm", mugugnò ancora.

"E adesso che altro ho detto???", sbottai.

"Sei diventata tutta rossa. Lo sai quanto mi eccitano le donne che sanno...".

"No e non voglio saperlo", lo bloccai. "Stephen, sul serio, sto effettivamente valutando l'ipotesi di usare il tacco della mia scarpa per scavarmi una buca e nascondermici dentro finché non avrò trovato il coraggio di uscire e usare il tacco dell'altra scarpa per fracassarti il cranio".

Lui scoppiò a ridere. "Certo ragazza che quando ti incazzi diventi tutta un peperino, eh!".

Feci per aprire la porta ma la sua mano si posò sopra la mia. D'istinto la ritrassi di scatto, sobbalzando.

"Micol?", mi chiamò. Il tono di nuovo serio.

Mi voltai e lo ritrovai più vicino di quanto mi aspettassi. Non sembrava più aver alcuna voglia di scherzare.

"Quanta paura hai avuto di me mentre ti toccavo?".

"Un po' all'inizio, quando non sapevo cosa volessi fare. Poi è passata".

Scosse la testa, fingendosi amareggiato. "Che imbecille cono. Se fossi stato meno concentrato sulla tua coscia avrei capito da solo che non avevi paura e avrei potuto osare di più. Magari mi avresti concesso di toccarti quel bel culetto".

Lo schiaffeggiai piano, ridendo. "Porco".

"Posso abbracciarti?", chiese dolce, con un sorriso tentatore, allargando le braccia in un invito.

Non volli perdere nemmeno il tempo di un assenso e mi gettai tra le sue braccia. Al sicuro.



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