PROLOGO (INTEGRO)
Ciao a tutte/i, grazie per avermi seguita fin quì.
Ricordate l'inizio del libro? C'era una piccola parte del prologo, ovvero la parte che Micol ha stampato dal suo pc per consegnare a Stephen! Fino ad ora nessuno di voi, lettori e protagonisti del libro, ha avuto la possibilità di leggerlo completo.
Ora Stephen sì! Perchè lei glielo ha consegnato, e perchè lei ha trovato il coraggio di far leggere ciò che le è accaduto.
Quindi buona lettura.
PROLOGO
Il buio avanzava in un labirinto di alberi che torreggiavano verso lo spicchio di luna, tranciato di netto dalle nubi. I lunghi artigli delle ombre graffiavano il silenzio, come rami contro una finestra. Tuttavia le tenebre più profonde e oscure che stavo per incontrare non appartenevano alla notte ma scavavano una crepa abissale nel ghiaccio fluido di quegli occhi che danzavano spietati davanti a me, come falene che si dibattono per raggiungere il fioco bagliore di una lanterna.
Nessuna luce mi apriva un varco tra quella massa di terrore, non c'era nessuno spiraglio che potesse sottrarmi da quel buio che minacciava di riempire i miei occhi e raggelare ogni parte di me ancora in vita.
Stavo andando incontro alla morte, verso la fine che nessuno mi aveva mai predetto. Nessuno mi aveva mai spiegato cosa fosse il dolore. Non potevo riconoscerlo. E gli andai incontro.
Nessuno mi aveva mai detto che, la sofferenza più grande, consiste nel vivere la perdita di sé stessi.
Persi la mia vita una sera di novembre, pochi giorni prima del mio tredicesimo compleanno, quando avevo ancora la convinzione che un sorriso portasse in sé solo la felicità, e che per questo non doveva essere temuto. Invece quel sorriso portava in sé un avvertimento e preannunciava ciò che stava per accadere. Ma io lo scambiai per una gentilezza.
Ecco, ciò che avevo fatto! Mi ero fidata, perché mai nessuno mi aveva messa in guardia di quanto si possano pagare certi errori.
La mia vita rovinata per un sorriso...
Per un ghigno che non arrivava a scaldare gli occhi... quegli occhi fissi su di me, che si scioglievano come ghiaccio al sole, un sole che nella mia vita si stava eclissando nella paura, gettando ombre a imbrattare il mio futuro, e che seguivano ogni mio movimento, colmi di anticipazione.
L'auto accostò sul ciglio della strada lentamente, aspettandomi e fermandosi quando ci passai accanto. Dal finestrino abbassato spuntò un gomito e la luce all'interno dell'abitacolo rivelò i volti pacati e composti di quattro persone.
"Ciao. Cosa ci fai qua?", chiese l'uomo più vicino a me.
Mi strinsi nella giacca a vento. "Sto tornando a casa".
L'uomo al posto di guida si sporse verso il volante per guardarmi in faccia.
"E ci vai da sola?". Una ciocca di capelli neri gli finì sopra la spalla. Indossava una camicia di flanella verde sotto un maglione troppo largo. I capelli lunghi lo facevano sembrare ingobbito.
Allargai le braccia. "Non abito lontano".
Fu il turno di quello seduto dietro al conducente a parlare: "Tu sei l'amica di mio figlio, vero?".
"Sì, è lei", confermò la quarta voce, prima ancora che io avessi il tempo di sporgermi per guardarli in faccia. "Andiamocene, forza. Oltre ad essere amica di tuo figlio è anche una mia allieva".
Ma l'uomo alla guida lo ignorò e tornò a guardarmi.
"Dicci un po', ragazzina", il suo sorriso si fece inquietante. "Stai veramente tornando a casa? Non è che sei una puttana?".
Istintivamente indietreggiai, invasa da una paura estranea, e per riflesso il suo sorriso si trasformò in un ghigno.
"Tutte uguali. Sono sempre timide alla loro prima uscita".
Lo guardai senza capire, inclinando la testa di lato. Sentii un brivido lungo la spina dorsale che non aveva niente a che fare col freddo.
"Devo andare ora. Salve", parlai piano, calma, riprendendo a camminare sul ciglio della strada.
Le nubi avevano coperto quell'unico spicchio di luna che gettava ombre davanti ai miei passi.
Dietro di me la macchina rombò, tornando ad affiancarmi.
E poi accadde tutto così in fretta da non lasciarmi il tempo di rendermi conto di ciò che stava succedendo: le portiere scattarono simultaneamente e una mano bianca fendé la notte verso di me, artigliandomi il polso. Qualcosa mi diede uno scossone, mi prese le braccia intorpidite dal freddo e mi trascinò sopra i sedili posteriori. Mi ritrovai schiacciata da un peso che non riuscivo a sopportare, dimenandomi per scacciare quelle dita svelte che si intrufolavano abili sotto l'elastico dei pantaloni della mia tuta, tirando verso il basso.
Non riuscivo a trovare la voce per chiedergli di lasciarmi andare, ci speravo soltanto, aspettavo rassegnata il dolore. Una parte nascosta dentro di me sapeva cosa stava per accadere, ma la mia mente si rifiutava di dare un senso a quel sospetto e finse di non capire per nascondersi dalla verità, convincendosi che il dolore non sarebbe arrivato.
Ma invece arrivò. E in un attimo la presa inflessibile dell'uomo sdraiato sopra di me diventò una spinta. E un'altra. E un'altra ancora. E ancora...
Sentivo qualcosa di caldo intrufolarsi tra le mie gambe fino a combaciare alla perfezione con i lembi di pelle che si divaricavano e accoglievano quel dolore acuto e bruciante.
Alla quarta spinta, l'adrenalina mi colpì come una scarica elettrica e in quell'istante capii che non avrei urlato. Mai! Incanalai tutta la paura alla bocca dello stomaco e la tramutai in rabbia. Poi inclinai la testa di lato e morsi l'aria, fino a quando riuscii a prendere in bocca il suo pollice. Morsi più forte che potevo, morsi e morsi ancora. Fino al momento in cui avvertii il sapore metallico del suo sangue sui miei denti scivolare sopra la lingua e ardermi in gola. Sputacchiai un lembo di pelle. E morsi ancora.
"Ehi!... Ehi!", imprecò, fermando le spinte. Il dolore si immobilizzò insieme a lui.
Gli altri tre erano scesi dalla macchina per controllare la strada e uno di loro accorse alle grida. Ricorderò sempre il modo in cui curvò le labbra quando capì che il sangue che mi colava dalla bocca non era il mio.
"Passamelo", gli ordinò l'uomo sdraiato su di me.
Subito non capii a che cosa si stesse riferendo, ma poi un luccichio mi abbagliò.
L'uomo mi strattonò il polso e lo immobilizzò in aria, avvicinando la punta del coltello al mio pollice.
"Vuoi sapere quanto mi hai fatto male?", chiese.
E un secondo dopo premette a fondo, lacerandomi la pelle tra pollice e indice.
Quella fu l'unica volta che urlai. L'urlo uscì graffiante dalla mia gola, lacerò il silenzio e morì sotto la risata di quell'uomo.
Un istante dopo, al sapore del sangue si unì quello dei suoi capelli. Mi finirono in bocca, mi si appiccicarono alla gola, sopra gli occhi. Era come se mi avessero infilato un sacchetto nero in testa che mi toglieva l'aria.
Non dovevo urlare... non dovevo piangere.
Strinsi i denti, contando lentamente alla rovescia, illudendomi che quando avrei pronunciato nella mia testa il numero "zero" sarebbe finito tutto e mi sarei risvegliata nella mia stanza, con la mamma che mi raccontava una favola.
Arrivai allo "zero" tante di quelle volte che smisi di contare.
"Via, via, via!!!", sentii una voce lontana alle mie spalle. "Arriva una macchina".
L'uomo si sollevò su un gomito, tappandomi la bocca, ed io ne approfittai per risistemarmi i pantaloni e le mutandine in vita. Qualche secondo dopo la luce di due fanali gli illuminarono il profilo, accendendo il suo sguardo di una cattiveria quasi disumana.
"Puoi raccontarlo a chi vuoi", mormorò, tornando a guardarmi. "Ma bada che uccideremo chiunque verrà a saperlo". Mi strinse il mento tra una mano. "Mi hai capito?".
Non aspettò una risposta. Calò le labbra sulle mie, in un bacio perfido, premendo i denti contro i miei, infine mi sospinse di lato.
Gettai le braccia in avanti per proteggermi mentre cadevo sull'asfalto, poi rimasi immobile.
"Zero!", sussurrai.
Solo quando smisi di sentire il rumore dell'auto trovai la forza di strisciare carponi verso una fila di alberi. Posai la schiena su un tronco e mi rannicchiai, sprofondando le ginocchia nel petto e premendo una mano sul punto in mezzo alle gambe che non aveva smesso di pulsare.
Le nubi erano ritornate, si accumulavano in spessi strati e si abbassavano fin quasi a toccare il terreno in una foschia quasi arancio.
Sollevai il viso verso l'alto e mi concentrai sui cristalli di neve che scendevano in tondo, sciogliendosi al contatto col mio fiato.
Dovevo contarli, dal primo all'ultimo. Un fiocco... due fiocchi... Dovevo distrarmi per non pensare alla mamma, per non accorgermi che nonostante fossi appena stata uccisa, il mio respiro continuava ad uscire irregolare, veloce, in una piccola nube davanti alla mia bocca...
Volevo la mamma!
Volevo parlarle per chiederle se quello era il modo in cui nascevano i bambini, per dirle che mi dispiaceva che per mettermi al mondo avesse dovuto soffrire tanto.
Trenta fiocchi... trentadue... trentatre...
Smise quasi di nevicare, il freddo si fece più pungente. Agli angoli degli occhi mi si formarono due piccole lacrime. Ma non potevo piangere. Se avessi lasciato che qualunque emozione uscisse dal mio corpo, avrebbe significato che ero ancora viva. Ed io non volevo esserlo.
Cento fiocchi... centouno... centodue....
Poi riuscii a lottare.
Feci leva sulle gambe e mi alzai, continuando a guardare i fiocchi trasportati dal vento. Barcollai in avanti e mi strappai via da quel posto, lasciandomi alle spalle un sentiero di impronte, mimando segnali di vita che non possedevo più.
Perché mi era stata tolta la libertà più grande... quella di essere felice.
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