IRRICONOSCIBILE
Mi risvegliai per il caldo torrido alle prime luci del giorno. Tenevo un braccio sopra gli occhi per difenderli da un fascio di luce che filtrava dalle persiane, una ciocca di capelli mi si era appiccicata alla guancia. La scostai e mi girai sul fianco, sperando di riaddormentarmi. Ma l'afa ristagnava nella piccola camera e qualcosa, un pensiero simile ad un sogno, si faceva largo nella mia coscienza, spronandomi a ricordarlo.
"La festa!", mi ricordai all'improvviso, saltando su d'istinto e scattando verso il bagno col beauty case.
Non avevo avuto ancora il tempo di svuotarlo, anche se ad essere sinceri non l'avevo fatto di proposito. Se non disfacevo tutti i bagagli mi sembrava di avere ancora una possibilità per scappare.
Mio padre uscì di casa prima che io scendessi al piano di sotto a fare colazione così trovai solo mia madre intenta a spadellare. Divorai una manciata di cereali e bevvi il succo direttamente dal cartone mentre organizzavo la mia giornata. Se avessi deciso di restare, cosa poco probabile, mi sarei dovuta trovare un lavoretto per non pesare sulle spalle dei miei genitori. Ma per il momento il mio unico impegno era quello di fare la spesa e tornare a casa il prima possibile per aiutare a preparare le tartine e i piatti freddi per la festa in mio onore. Era un programma semplice eppure ero eccitata all'idea di andare al supermercato, e la cosa mi spaventava.
Inutile stare a raccontarmi storie, ero in agitazione perché sapevo che al supermercato avrei incontrato Stephen. Dopo tutte le mie insistenze per non restare e il mio stupido giochetto di non disfare del tutto i bagagli, questa mia impazienza di rivedere un vecchio amico era del tutto immotivata e contraddittoria. Dei legami avrebbero solo messo in discussione ogni mio proposito ed era l'ultima cosa di cui avevo bisogno.
Chiusi il giornale degli annunci del lavoro e lo abbandonai sul mobile della cucina.
Avevo promesso alla nonna di averci provato almeno un giorno e lo avevo fatto. Erano trascorse ventiquattro ore e la festa organizzata appositamente per me era l'unico motivo per cui presi la strada che portava al supermercato anziché alla stazione. Non tolleravo l'idea di deludere o offendere i miei genitori, perciò sarei rimasta un'altra notte. Una soltanto! Non era un sacrificio così enorme dopo tutto.
Feci rotta senza indugio verso il mini-market, a qualche isolato più all'interno rispetto alla via principale, pittoresca e colorata, dedicata ai turisti. Essendo inizio estate non ce ne erano ancora molti, ma ogni tanto si incontrava qualche famiglia con la macchina fotografica che marciava verso il molo, al centro della baia.
Davanti alla porta del mini-market c'erano delle cassette in legno piene di frutta che formavano una specie di percorso obbligato che si doveva percorrere per entrare. Scostai la tenda a corde appesa al telaio della porta e schivai all'ultimo una girandola caduta dallo scaffale. Una rapida occhiata mi bastò per capire che era più sfornito di quanto mi fossi aspettata.
Comunque non dovevo acquistare molte cose; tolsi dalla tasca dei jeans la lista della spesa e mi avvicinai verso il banco dei dolci. Non impiegai molto a fare il giro di quei dieci scaffali impolverati, dove la merce era sistemata così in alto che dovevo saltellare per afferrare ciò che mi serviva.
Adocchiai il sacchetto dello zucchero proprio di fronte a me, tra il burro d'arachidi e la farina per dolci. Mi rizzai sulle punte dei piedi e quasi mi slogai un braccio nel tentativo di afferrarlo.
"Serve una mano?", mi chiese una voce alle mie spalle.
Ci rinunciai e ricaddi sui talloni.
"Per fare la spesa bisogna portarsi una scala da casa", grugnii, accorgendomi troppo tardi che a parlare era stato proprio un commesso.
Aveva i capelli scuri che gli si attorcigliavano attorno le orecchie, la pelle troppo abbronzata per credere fosse solo merito del sole. I muscoli erano messi in evidenza da una maglietta blu con le maniche strappate all'altezza dei bicipiti e il logo del negozio "Good to Go" stampato sul davanti. Aveva un look fintamente trasandato, di quelli che obbligano quasi tutte le ragazze a voltarsi per ammirarlo. Le linee nere di un tatuaggio tribale gli risalivano dal polso fino al gomito.
"Cioè, la scala dovrebbe portarsela chi è sotto il metro e settanta....", tentai di rimediare, ma la voce mi scemò mentre parlavo.
"Lo dico sempre anch'io!", rise, passandosi una mano tra i capelli già scompigliati. Alcune ciocche gli ricaddero sulla fronte, proprio accanto agli occhi di un nero intenso.
Aveva tutta l'aria del tipico ragazzo che faceva colpo al primo sguardo e che era consapevole di questo. Gli guardai gli occhi ancora una volta. Erano pieni di attenzione per me. Troppa per i miei gusti!
"Se lo dici sempre perché non fate gli scaffali un po' più bassi?", gli feci notare, afferrando il sacchetto dello zucchero che mi stava porgendo.
Piegò le labbra in una smorfia divertita. "E' un buon metodo per aiutare e conoscere le ragazze di passaggio".
Decisamente troppe attenzioni.
"Sei qui in vacanza? Io sono Stephen".
Sussultai, sgranando gli occhi contro quelli incuriositi di lui. Perciò non ero l'unica ad essere cambiata così tanto da diventare irriconoscibile?!
"Allora puoi smettere di provarci con me. Se sei Stephen puoi smettere subito".
Posò un gomito sul bordo dello scaffale e portò una gamba davanti all'altra, come volesse incrociarle. "Perché? Ti hanno per caso detto...".
Gli diedi una leggera spinta, facendogli perdere l'equilibrio. "Perché sono Micol", sbottai.
Aggrottò la fronte, squadrandomi da capo a piedi con una lentezza quasi sfrontata. "Tu...? Sei...?".
Quando percepii il suo sguardo immobile sul mio petto gli diedi un'altra spinta, questa volte più forte.
"Oh cazzo!", sussurrò, appena riportò lo sguardo sul mio volto.
Abbozzai. "Sembra che tu abbia appena visto un fantasma".
Lui annuii, completamente imbambolato. Le labbra socchiuse. "E che cazzo di fantasma!".
Accanto a noi passò una vecchia che si ritrasse in fretta e furia, sgattaiolando in un corridoio.
Mi guardai attorno, imbarazzata. "Potresti dire una frase senza includere la parola cazzo?".
Non sembrò nemmeno far caso a questa mia protesta. Aprì la bocca per dire qualcosa ma subito ci ripensò e la richiuse, facendomi segno con la mano di aspettarlo per un momento. Lo osservai sciogliersi il grembiule mentre a enormi falcate raggiunse il piccolo magazzino alle sue spalle e infilò la testa nella porta socchiusa.
"Mamma! Vado a prendermi un caffè".
Da dietro la porta sentii rispondere una voce famigliare: "Ricorda che ci vogliono dieci minuti per un caffè, Stephen. Non tre ore come l'ultima volta!".
Lui si voltò verso di me sollevando gli occhi al cielo e mimando "bla bla bla" con le labbra.
Per quanto il suo fisico fosse cambiato, notai con nostalgia che aveva conservato le espressioni di un tempo. Stephen era sempre stato allergico agli orari e alle regole, diventando in pochi anni la pecora nera tra gli studenti della Port Angeles High School.
Mi precedette uscendo dal negozio e spostò con le scarpe alcune ceste di legno per farmi spazio.
Il bar, grazie a Dio, era proprio dall'altra parte della strada e cominciavo ad avere un estremo bisogno del caffè che a casa non avevo preso.
"Allora, racconta! Quando sei tornata?", mi chiese una volta che sistemati sugli sgabelli di fronte al bancone.
"Ieri pomeriggio, col treno delle cinque".
"E perché cazz... cavolo non sei venuta al pub?".
Afferrai la tazza enorme di caffè e aspirai il vapore. "Mi sgridi ancora prima di chiedermi come sto?".
"Che stai di merda è abbastanza evidente. Non c'è bisogno di fare domande idiote".
Incassai il colpo senza battere ciglio. Non volevo assolutamente dimostrargli quanto mi avesse sorpreso il suo intuito. Ero abbastanza fortunata che non volesse indagare senza dargli il pretesto per farlo.
"Ieri sera avevo alcune cose da fare". Sorseggiai il caffè, ustionandomi la lingua. "Porca miseria!!!".
Stephen scoppiò a ridere. Mi piaceva la sua risata.
"Se ti aspettavi grossi cambiamenti in questa città rimarrai delusa. Mini-market sforniti e", avvicinò le labbra al mio orecchio, "caffè disgustosi come sempre".
Osservai il liquido nero che facevo ondeggiare muovendo la tazza nella vana speranza che si raffreddasse più in fretta.
"Tu sei cambiato!", buttai lì.
Diventò serio, ma non mi guardò. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé, seguendo i movimenti del barista. "In alcune cose, sì. Mentre tu sei cambiata completamente".
"Come fai a dirlo?".
"Non ti ho vista ancora sorridere", mormorò, come se si trattasse di un segreto di vitale importanza.
Cominciava a stranirmi il fatto che ci parlassimo senza guardarci in faccia: io continuavo a fissare il vapore che saliva dal caffè, Stephen teneva lo sguardo dritto di fronte a sé. All'apparenza potevamo sembrare imbarazzati ma sentivo che non era così. Stephen stava cercando in qualche modo di non essere invadente e fissandomi negli occhi mi avrebbe obbligata a fingere un'allegria che non aveva alcun diritto di pretendere. Perciò questo distacco voluto e calcolato ci aiutava ad entrare in confidenza e a dire cose che altrimenti avremmo tenuto per noi stessi. Lo apprezzai.
"Quanti giorni ti fermerai?", mi chiese.
"A dire la verità non sono di passaggio", risposi titubante, non sapendo bene quale verità dirgli. Ma appena vidi un lampo di luce passargli nello sguardo mi affrettai ad aggiungere: "Ma non ho ancora deciso nulla".
Rimase in silenzio per un po', finendo di bere il suo caffè.
"Non ho disfatto completamente la valigia", precisai.
Annuì, sempre in silenzio, senza sentire il bisogno di aggiungere altro.
"Non ti sei poi iscritto al college?", cambiai argomento.
"Naaa!". Scrollò le spalle e finalmente mi guardò di sottecchi, tenendo le labbra piegate in un sorriso sghembo. "Mi conosci, preferisco imboccare le scorciatoie".
"Farai carriera al negozio di tua madre, quindi!".
Fece spallucce. "La paga è buona e gli orari li stabilisco io. Conosci qualcuno più fortunato di me?".
"Tuo fratello invece?".
"Preso il diploma continuerà a studiare". Sembrava più un ordine che una scelta. "Ci manca solo che si metta a lavorare a sedici anni".
"Tu l'hai fatto".
"Io sono un altro paio di maniche. Per il mio fratellino voglio il meglio".
A quel punto ci stavamo guardando, decisamente più rilassati. Nel frattempo avevo girato lo sgabello in modo da trovarmi di fronte a lui, le nostre ginocchia si sfioravano ma non ci feci quasi caso. Quella, solitamente, era la classica situazione che mi portava a tirare fuori il peggio di me. Invece con Stephen non mi infastidiva. Mi accorsi che mi stavo divertendo più di quanto avessi mai potuto pensare, malgrado una parte di me, la più grande, restava sul chi va là.
Guardai di sfuggita l'orologio; erano passati ben più di dieci minuti ed era scaduto il tempo che avevo giurato di dedicargli.
Bevvi tutto d'un fiato il caffè ma appena allungai una banconota sul bancone le sue dita mi bloccarono per il polso. Percepii la sua forza, mille e mille volte superiore alla mia. La potevo sentire in ogni suo polpastrello mentre premevano la mia carne, uno ad uno. Entrava sotto pelle, attraversava ogni tendine fino a raggiungere l'osso come una gelida coltellata.
Con uno scatto ritrassi la mano, la nascosi dietro la schiena e balzai giù dallo sgabello. Sentivo il sangue riempirmi gli occhi mentre la rabbia montava fino a farmi tremare.
"Ehi!". Stephen sollevò entrambe le braccia in segno di resa. "Tutto okay?".
"Sì, certo. Scusami". Però continuai a retrocedere di qualche passo.
"Volevo offrirti il caffè. Mi sembra il minimo visto che ti ho invitato io", si giustificò. Sembrava davvero dispiaciuto ma probabilmente non sapeva nemmeno per cosa. Apprezzai anche questo.
Apprezzai che mi accompagnò fino alla macchina, nonostante la sua pausa caffè fosse terminata da un pezzo.
Apprezzai che non mi chiese spiegazioni per la mia reazione.
Ma la cosa che più di tutte apprezzai è che non tentò in nessun modo di baciarmi o abbracciarmi al momento dei saluti.
Me ne stavo con una gamba infilata all'interno dell'abitacolo, sorreggendomi allo sportello aperto.
"E' stato bello rivederti!". E non stavo mentendo affatto.
"Anche per me".
Si passò la mano tra i capelli, come l'avevo visto fare prima in negozio. A forza di fare così si sarebbe tolto tutto il gel. E poi improvvisamente il suo sguardo mutò, divenendo da tranquillo ad eccitato.
"Ho intenzione di organizzare una festa al pub per darti il benvenuto la prossima settimana".
Scossi la testa prima ancora che terminasse la frase.
"Perché no?". Si strinse nelle spalle. "Se hai intenzione di non restare, tanto vale che ci vediamo tutti insieme come i vecchi tempi".
"No!", riuscii a dire. Cominciavo ad essere a corto di fiato.
Non era la festa in sé a preoccuparmi, quanto la data. Lasciargliela organizzare avrebbe significato una cosa sola: un'altra settimana qui a Port Angeles. Ed era molto più di quanto i miei nervi avrebbero potuto sopportare. A causa di una festa in mio onore avevo già dovuto rinviare la mia partenza di un giorno e non avevo alcuna intenzione di permettere a qualcuno, chiunque fosse, di ostacolare i miei progetti.
"Ti ringrazio ma non me la sento di festeggiare", buttai lì la prima scusa che mi venne in mente.
Feci per chiudere lo sportello ma Stephen con un movimento fluido e veloce della spalla lo bloccò in tempo.
"E da quando in qua?", mi chiese.
O almeno era quello che mi sembrò di aver sentito. Ero ancora troppo occupata a calcolare mentalmente la sua forza. Aveva bloccato la portiera senza dover nemmeno muovere un dito. Ed io non ero riuscita ad evitare che lo facesse, segno evidente che in tutti questi anni non avevo acquistato prontezza di riflessi e forza, come invece avevo stupidamente creduto. Con un colpo allo stomaco realizzai di quanta differenza ci fosse tra il mio fisico e il suo. Lui era forte, io no. Mi ero allenata per anni senza riuscire ad avvicinarmi neanche lontanamente alla forza di un uomo. Ero spacciata!
Avevo ancora gli occhi spalancati sulla portiera aperta quando gli chiesi: "Come hai fatto?".
Stephen corrugò la fronte, spiazzato. "Fatto cosa, Micol?".
Posai un dito sul finestrino. "Quel movimento di spalla. Hai bloccato la portiera con la spalla ma ti sei mosso così velocemente che non ho visto...".
"Micol?", mi chiamò.
Lo guardai. Aveva rilassato i muscoli del volto, non abbastanza comunque da apparire tranquillo.
"Vuoi che ti accompagni fino a casa?", chiese.
Era l'ultima domanda che mi sarei aspettata. Lo guardai in silenzio per una manciata di secondi, permettendo così alla mia mente di riprendere il controllo.
"Mi credi pazza?", suonava quasi un'accusa.
Fece una smorfia. "Ti credo abbastanza spaventata da aver bisogno di un passaggio".
Mi morsi il labbro non sapendo in che modo obiettare e sgattaiolai sul sedile del passeggero. In un attimo Stephen azionò il motore e fece retromarcia.
"Mettiti la cintura", mi ordinò mentre raddrizzava la macchina, puntando verso il molo.
Senza volerlo mi ritrovai avvinghiata al sedile, con la mano stretta sulla maniglia della portiera. Sarei stata abbastanza coraggiosa da gettarmi dalla macchina in corsa se fosse stato necessario.
"E' così evidente che ho paura?", chiesi, sorpresa che la mia voce uscii pacata.
"Sì!", fu la sua unica risposta.
Era evidente che avevo paura di lui. Ma a questo punto non capivo più se era furioso, pensieroso o entrambe le cose.
"Tu come fai?", gli chiesi dopo un po'.
"A fare cosa?".
Continuava a guardare fuori dal parabrezza, ma la rabbia era evidente sul suo volto. Dalla mia posizione vedevo la sua mascella tremare, le dita strette sul volante. Non riuscivo a decifrare ciò che stava provando né il perché.
"A nascondere la paura quando la provi. A non far capire agli altri che sei spaventato".
Con uno scatto della testa mi lanciò un'occhiata veloce, per poi tornare a concentrarsi sulla strada. Ogni suo gesto portava a supporre che stesse facendo un grosso sforzo per tenere a bada la furia.
"Mi arrabbio!", rispose.
"Davvero?".
"Sì! Quando qualcuno mi spaventa trasformo la paura in rabbia". Gettò fuori l'aria molto lentamente. Altro tentativo di calmarsi. "E il più delle volte va a finire che è l'altro a cagarsi addosso".
"Rabbia", ripetei tra me e me.
"Perlomeno", aggiunse, "a me sembra che funzioni".
Per il resto del breve tragitto che ci separava da casa mia restai in silenzio, osservandolo come guidava senza staccare gli occhi dalla strada. Infine arrestò l'auto dentro il mio vialetto, accanto a quella di mia madre, tolse le chiavi dal quadro e me le consegnò, senza mai guardarmi nemmeno per sbaglio.
"Organizzerò quella festa!", ci riprovò.
"Stephen!", sospirai, scendendo.
Stavamo camminando verso l'ingresso, io gli stavo dietro di mezzo metro cercando inutilmente di reggere il passo.
"Micol, smettila!", si spazientì, facendomi fare un salto indietro. La sua espressione era talmente rabbiosa da ricordarmi quella di un assassino.
Avevo la strada bloccata, notai, con lui davanti alla porta.
"Voglio che ti distrai, okay? E porca puttana voglio vedere di nuovo il tuo vecchio sorriso. Quindi ora...".
"D'accordo", mi arresi. Metabolizzai con qualche secondo di ritardo ciò che significava per me quella concessione. Ma il danno orami era fatto, non potevo più tornare indietro. Un'altra settimana, altri sette maledettissimi giorni! Digrignai i denti per la frustrazione.
"Faremo quella festa", mugugnai.
E il suo sguardo da feroce killer svanì di colpo.
"Hai sempre lo stesso numero di telefono?", domandò.
"Ti do quello del cellulare".
Annuì e mi porse il suo smartphone. Digitai automaticamente i numeri sulla tastiera, poi glielo resi nel preciso istante che aprì bocca.
"Che devo dire agli altri?".
"Non lo so". Scrollai le spalle, lieta di vederlo farsi da parte creando un varco tra me e la porta. Il pericolo era passato.
Mi fissò incerto. "Vuoi che sia una sorpresa?".
"Non lo so".
Cominciavo a sentirmi stupida. Misi sottosopra il cervello cercando una risposta meno demenziale ma non ci riuscii.
"Magari", attaccò titubante, pronunciando lentamente ogni singola parola, "potresti dirmi cosa non devo dire".
Abbassai lo sguardo e retrocessi fino a sbattere con la schiena contro la porta.
"Non dire che sono qua per restare", mormorai.
"Vuoi abbandonarci una seconda volta?", c'era quasi risentimento nella sua voce, ma lo ignorai.
Guardai di lato. "Sì, e non voglio avere ripensamenti quando questo accadrà".
Aprii la porta e sgattaiolai dentro, libera finalmente dal suo sguardo. Ricordai di non averlo ringraziato per il passaggio quando ormai stavano per arrivare gli invitati.
Avevo quasi terminato di spalmare il burro d'arachidi sulle tartine, mia madre si occupava del punch e dei vassoi di tacchino tonnato mentre mio padre aveva portato una decina di bottiglie di vino che aveva lasciato invecchiare per anni in cantina. Non avevo pensato di portare da Port Townsend qualche vestito elegante perciò avevo optato per una camicia bianca e dei pantaloni neri. Avrei dovuto assolutamente fare un salto ai grandi magazzini in previsione della festa organizzata da Stephen. Maledizione a quella dannata festa!
Lanciai il coltello sporco dentro il lavandino, imprecando tra i denti, poi finii di sistemare i piatti sul tavolo imbandito.
Se non avessi fatto quella promessa alla nonna a quest'ora sarei su un treno anziché nel mio soggiorno, marciando verso la porta per aprire al primo invitato e sfoderando un sorriso talmente glaciale da somigliare a tutto, tranne che ad un invito ad entrare.
"La mia piccola Micol!". Mia zia, la sorella di mio padre, se ne stava sotto la luce del portico, dimenando le braccia per farsi abbracciare in un modo che mi portava a sospettare che non ricordasse la mia età.
Ricambiai l'abbraccio fingendo di essere contenta.
A parte il fatto che la cosa più saggia da fare fosse quella di partire senza dire niente a nessuno, c'era una piccola parte della mia coscienza, fastidiosa e insistente, che mi obbligava a sorridere a tutti gli invitati che arrivavano uno dopo l'altro, curiosi di vedere quanto il tempo mi avesse cambiata.
Nessuno era interessato a ciò che sentivo o a quello che provavo. Sarei potuta scoppiare a piangere e nessuno se ne sarebbe accorto ma avrebbero continuato a dire: ma quanto ti sei fatta alta!
Ricordai a me stessa di non essere in trappola mentre ricambiavo sorrisi, scambiavo convenevoli, offrivo le tartine che avevo preparato poco prima. E' vero, la mia partenza era stata rinviata di una settimana, ma a quel punto non era più nemmeno quello a pesarmi; era il vedere che la mia famiglia, le persone che avrebbero dovuto essere interessate a me, erano invece totalmente indifferenti. Stephen invece, con una semplice occhiata, era riuscito a scavare più a fondo di quanto non fossi riuscita a fare io stessa in questi ultimi otto anni.
L'ultima persona che arrivò fu mia cugina Tiffany, di due anni più piccola di me. La vidi attraversare la stanza, sgomitando tra gli altri parenti, sedere in fuori, naso in sù, muovendo impercettibile la testa quasi avesse timore di disfarsi l'acconciatura.
"Micol!". Accostò la guancia alla mia, baciando l'aria. "Ti trovo benissimo".
"Grazie!", risposi cordiale.
Non ero così idiota da non sapere che i commenti sull'aspetto fisico erano una modalità puramente convenzionale, ma cominciai ad avvertire un certo senso di fastidio nel riceverli perché erano la sacrosanta conferma che tutta questa marmaglia di gente che non mi vedeva da otto anni era venuta fin qui, disdicendo impegni e appuntamenti, col semplice scopo di ripulire il mio frigorifero.
Guardai attentamente ogni volto presente, le labbra che si aprivano e si chiudevano riversando frasi alle quali non riuscivo ad agganciarmi a causa della mia lunga assenza, gli occhi velati di noia che di tanto in tanto mi cercavano, giusto per educazione, le scale che portavano al piano di sopra. Per un momento pensai l'impensabile: potevo approfittare della confusione per sgattaiolare in camera, tirare fuori da sotto il letto la mia valigia, scendere, percorrere la strada verso la stazione....
Invece gettai in gola un intero bicchiere di vino rosso che mi fece accapponare la pelle.
Dovevo darmi una calmata! Dovevo trovare un compromesso tra il mio desiderio di andarmene il più lontano possibile e quello di stare con la mia famiglia, con mamma e papà. L'unico lato positivo di questa situazione era che, essendo completamente orrenda, non poteva che migliorare. Questo pensiero m'infuse un po' di coraggio, quel tanto che bastò ad aiutarmi a stiracchiare l'angolo delle labbra in un mezzo sorriso e fingermi interessata a ciò che stava raccontando mia zia.
"Vi sto dicendo la verità!", disse tra una risata e l'altra. "L'ho vista uscire dalla parrucchiera con ancora tutti i bigodini in testa. Quella donna è esaurita e non ha nemmeno trent'anni".
"Di chi state parlando?", m'intromisi. Non che mi importasse, ma era sempre meglio di continuare a fare conversazione con quella parte della mia coscienza che tentavo di distruggere da un paio d'ore.
"Di Miss Crodwell", mi rispose.
Stava ancora ridendo. Le guancie le erano diventate di un rosso preoccupante. Controllai il bicchiere che aveva in mano e mi accorsi che era rimasto solo un goccio di whisky.
"E chi sarebbe?", cercai di collegarmi.
Allargò le braccia, sorpresa. "Maddai! E' quella pazza che ha comprato l'appartamento del signor Hugh". Non vedendo alcun cambiamento nella mia espressione mi fornì qualche ulteriore dettaglio, parlando più lentamente e facendo pian piano scomparire il sorriso dalle sue labbra. "Quella che ha quella specie di pincher che chiama cane e che le scappa sempre".
Intervenne anche mia cugina Tiffany. "La pazza che lo scorso Natale voleva fare un Mince Pies * gigante e venderlo in una bancarella fuori dalla chiesa".
Ispezionò il mio viso prima di scambiarsi una veloce occhiata con mia zia.
"Ma tu non puoi saperlo ovviamente", riprese impacciata, convinta di aver fatto un'enorme gaffe. "Te ne sei andata senza tante cerimonie e senza salutare nessuno".
Dentro di me infuriò una vera e propria lotta per tenere a bada la rabbia che avevo cercato di tenere nascosta a tutti in questi ultimi due giorni. Mi ero comportata come se la Micol di un tempo, mite e remissiva, non fosse mai scomparsa, sapendo comunque che sarebbe bastato il minimo pretesto per far emergere il lato più terribile di me stessa, quello che esercitavo ormai da molti anni e che avevo perfezionato talmente bene da far invidia ad un'attrice di Hollywood.
Con gli occhi zigzagai tra il volto di mia cugina e quello di mia zia. "Non mi pare che voi due vi siate ammazzate per correre qui a salutarmi il giorno che me ne sono andata".
Mia cugina sollevò le sopracciglia ma non mosse nessun altro muscolo della faccia, scolpita nel trucco impeccabile. "E a quanto pare abbiamo fatto bene, dal momento che per te non contava niente".
Piegai la testa di lato, fulminandola con lo sguardo. "Stai vaneggiando!".
"Tu, mia cara, non sei nella posizione di dare a me", puntò l'unghia smaltata di rosso contro la sua gola, "della pazza. Dopotutto, non sono io quella che se ne è andata in punta di piedi e senza dare a nessuno uno straccio di spiegazione".
"Ma suppongo che nella tua cazzo di testa una spiegazione tu te la sia data", sibilai, avvicinando il volto al suo finché la vidi retrocedere sconvolta
Mia cugina reagì a scoppio ritardato. In qualunque modo aveva pensato di ribattere, ora si trovava costretta a trovare qualcosa di più pertinente.
"Dammela tu una spiegazione", mi sfidò.
Ignorai la sfida con una specie di smorfia insofferente. Solo allora incrociai lo sguardo di mia zia che per tutto il tempo aveva assistito al battibecco senza immischiarsi. Mi guardava come se fossi un'aliena, scuotendo la testa in un misto di pietà e disgusto.
"O ti vergogni troppo a parlarne con noi, Micol?", altra sfida, questa ancora più difficile da ignorare.
Sfoderai il sorriso più acido di cui fossi capace, dandole un colpetto col dito proprio in mezzo alla fronte. "No. Penso solo che la tua testa sia così piena di merda da non riuscire nemmeno a capire cose tanto banali come...".
"Micol!", mia zia cercò di dividerci, trattenendo me per un braccio e mia cugina per la spalla. "Chiedile scusa immediatamente! Questa non è l'educazione che tuo padre ti ha insegnato".
Cercai di calmarmi, senza riuscirci. "Non ho intenzione di farlo".
"Dio!", sospirò melodrammatica. "Come sei cambiata. Una volta eri così educata. Dico bene, Tiffany?".
Mia cugina aveva ancora gli occhi sbarrati.
"Sì", squittì, tenendo d'occhio il mio pugno.
Poi si avviò indispettita verso il tavolo da pranzo, a riaffermare la sua dignità con qualcuno più socievole e malleabile di me. Mia zia la seguì immediatamente, urlandole dietro di aspettarla.
Avevo la faccia accaldata, le mani che tremavano, la vista appannata dall'alcool, ed eravamo solo a metà festa. La persona successiva che mi si avvicinò fu mia madre.
"Ti stai divertendo?".
"Molto", risposi senza guardarla per paura che riuscisse a leggere la menzogna nei miei occhi. "Hai bisogno di là in cucina? Vuoi che ti aiuti a preparare altre tartine?".
"No. Tu stai qui e continua a divertirti. Hai chiacchierato con tua cugina Tiffany?".
Mi calò un macigno sullo stomaco. "Sì".
"E' molto cambiata, vero?". La cercò con lo sguardo e quando vide che era fuori portata dalla nostra voce, continuò: "E' diventata un po' snob, ma sai, ha vinto una borsa di studi per Yale, quindi presumo possa permetterselo".
Inarcai un sopracciglio.
"Hai bevuto vino?", indagò.
Notai che stava guardando il bicchiere che avevo in mano e scrollai le spalle. "Giusto un paio di bicchieri".
"Da quando in qua bevi vino?", mi rimproverò.
"Quando bevo i ricordi sono meno nitidi".
I suoi occhi si riempirono di tristezza, facendomi pentire immediatamente di essermi confidata con lei.
"Non riuscirai a dimenticare con l'alcool ciò che è successo".
Non le lasciai quasi il tempo di finire. "E nemmeno con te che continui a parlarne".
Meditò per qualche istante, corrugando la fronte. Sapevo che dentro di sé era consapevole di ciò che mi era successo, ma sapevo anche che era troppo spaventata per ammetterlo con sé stessa.
"Non ho sollevato quell'argomento nemmeno una volta da quando sei tornata", si difese.
"Lo fai ogni volta che mi guardi", sussurrai, allontanandomi lungo il corridoio che portava alle scale.
"Micol, mi dispiace!", mi gridò dietro.
Alcuni parenti si zittirono di colpo, voltandosi a guardarmi. Poi ripresero a parlare mezzo secondo dopo come se non fosse successo nulla.
Salii le scale facendo due gradini per volta e fiondai in camera mia, sbattendomi la porta alle spalle. Avevo lasciato il computer acceso; controllai la posta elettronica per vedere se avevo messaggi e mi collegai alla pagina di facebook nella speranza che Sarah fosse connessa. Non era in linea. Quindi, giusto per curiosità, digitai il nome di Stephen e gli inviai una richiesta d'amicizia. Quindi mi disconnessi e mi concentrai sul secondo capitolo del mio diario.
L'idea di tenere un diario non mi aveva mai attirata ma dal momento che non avevo nessuno con cui confidarmi avevo provato a romanzare tutta la mia vita, scoprendo che su una pagina bianca avevo il potere di far accadere tutto ciò che mi succedeva ad una protagonista che non ero io. Su quel file dove annotavo ogni momento della mia vita, non ero io a soffrire ma una persona che non esisteva nella realtà, che provava al posto mio tutto il dolore che ogni giorno dovevo affrontare. Mentre scrivevo e rileggevo quelle pagine mi sembrava di stare meglio, mi sentivo svuotata. Come se ogni sentimento uscisse dal mio corpo per entrare nello schermo piatto del computer.
Cominciai a sentire la rabbia affievolirsi lentamente mentre lasciavo che fosse la protagonista del mio libro a provarla per me. Una protagonista che, come ormai avrete capito, avevo chiamato Micol.
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