INIZIA IL GIOCO

Stephen si voltò, attirato dal rumore dei miei passi lungo il corridoio. Era davanti alle scale che portavano al piano superiore, le braccia incrociate tanto forte che le vene sui muscoli si erano gonfiate. Sembrava preoccupato ma non capivo di cosa. Gli andai incontro a passi lenti, strisciando una mano sulla parete per sorreggermi. In quel momento sentii la porta d'ingresso sbattere, segno che suo padre se ne era andato. Tirai un respiro profondo.

"Dov'eri finita? Tutto bene?", domandò svelto, afferrandomi per un gomito quando le gambe minacciarono di non sorreggermi.

Provai ad annuire ma ogni movimento della testa mi provocava fitte e capogiri. Avevo la sensazione che la mia faccia fosse bianca come un lenzuolo.

"Forse dovresti mangiare qualcosa". Mi diresse verso il profumo di uova e pancetta, allontanò una sedia dal tavolo e mi fece sedere.

Mi riempì un bicchiere di succo d'arancia e lo trangugiai tutto d'un sorso. Avevo la gola arsa dalle lacrime che non avevo versato.

Tendevo le orecchie, attenta ad ogni rumore della casa. Accanto a Stephen mi sentivo al sicuro, ma non potevo dimenticare che pochi metri più in là c'era uno degli uomini che avevano popolato i miei incubi per otto lunghissimi anni. Dovevo andarmene. Mangiare in fretta e fuggire senza far insospettire Stephen.

Il suo sguardo era teso, preoccupato. Mi fissava da sotto le sue lunghe ciglia, in silenzio. Aveva sentito qualcosa di quello che c'eravamo detti suo padre ed io? Era per questo che mi studiava così? Ricambiai lo sguardo, cercando di recitare alla perfezione la parte dell'innocente.

"Ora tocca a te", dissi, giusto per distrarlo. "Presentarti ufficialmente a mio padre, intendo".

Lo sguardo nei suoi occhi rimase vuoto, senza la minima ombra di eccitazione. Era perso dietro una sequenza di pensieri, mi fissava senza vedermi.

Aggrottai la fronte, sorpresa. Era strano che, dopo aver insistito tanto per ufficializzare quello che c'era tra noi, di punto in bianco non si mostrasse entusiasta.

"Non ho idea di come la prenderà ma sarà bene spianare il terreno", continuai, parlando un po' più forte. "Sai, ci tengo alla tua vita".

All'improvviso sbatté le palpebre, scattando come se gli avessi tirato un calcio negli stinchi. "Che hai detto?".

Mi accigliai. "Non hai sentito una sola parola di quello che ho detto, vero?".

Infilzò rabbioso un pezzo di pancetta. "Ero un po' distratto. Non sei l'unica ad avere dei problemi, sai?".

Abbassai lo sguardo. Non era da lui comportarsi in quel modo. Cosa stava succedendo?

"Forse è meglio che vada via", azzardai, alzandomi.

Con uno scatto fulmineo della mano mi bloccò il polso. "Ti accompagno".

"Non ce né bisogno. Devo solo passare a casa a farmi una doccia e poi andrò a lavorare".

Sollevò le spalle.

"Sul serio Stephen".

"Ti accompagno comunque", ribadì, infastidito da qualcosa.

Senza mollare il mio polso mi trascinò verso la porta sul retro. Faticai a tenere il suo passo lungo lo stretto vialetto che portava al garage e più di una volta inciampai, rischiando di finire a faccia a terra. Probabilmente, se fossi caduta, mi avrebbe sollevata di peso usando una mano sola. Mi lasciò libera solo davanti alla sua Audi e a quel punto inciampai ancora e barcollai contro la portiera. La pelle sul polso mi si era arrossata.

"Sali", ordinò, brusco, e a grandi passi fece il giro al cofano, mettendosi al volante.

Mi sentivo completamente spiazzata dal suo cambio d'umore e aspettai di proposito che accendesse il motore prima di voltarmi a guardarlo. Non avevo la più pallida idea del perché il suo umore fosse cambiato, ma conoscendolo sapevo bene di quanto potesse essere passeggero il suo buon umore.

Di nuovo il dubbio mi assalì: aveva udito le ultime parole che avevo pronunciato uscendo dallo studio di suo padre? E subito ne seguì un altro: avevo forse sbagliato qualcosa stanotte durante... mentre noi... non riuscivo nemmeno a pensarlo.

Fingendo di star osservando il panorama lo guardai bene in faccia e ciò che vidi mi gelò il sangue. A farmi raggelare non era stato il suo volto, apparentemente calmo, ma l'espressione nei suoi occhi. Mi ritrassi davanti a tanta freddezza, sprofondando la schiena nel sedile. Assurdamente cominciai a sentirmi in colpa per qualcosa che non sapevo nemmeno di aver fatto. Il primo dubbio soccombeva sotto il secondo.

"Stephen?", lo chiamai in un soffio.

"Dimmi", si sforzò di parlare calmo eppure la sua voce somigliò ad una lastra di ghiaccio che si spezza. Teneva la mascella contratta, gli occhi fissi sulla strada.

"C'è qualcosa che non va?".

"E' una domanda o un'affermazione?". Prese fiato e riprese senza aspettare una risposta. "Perché se è una domanda devo cominciare a dedurre che non mi conosci così bene come vuoi farmi credere".

Sbirciai verso di lui e incrociai i suoi occhi. Lo sguardo non durò per più di un secondo. "Sento di aver fatto qualcosa... ma non so cosa".

"Il Mondo non gira attorno a te, Micol". Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo.

Sentivo le lacrime raschiarmi la gola e mi rifiutai di tornare a guardarlo per controllare se l'espressione nei suoi occhi fosse cambiata.

Stephen accostò la macchina al marciapiede accanto al vialetto di casa mia, lasciò la marcia in folle senza spegnere il motore e balzò giù.

"Immagino che i tuoi genitori vogliano parlarmi", disse, voltandosi per accertarsi che lo stessi seguendo. E poi scattò veloce verso l'ingresso, bussando alla porta prima ancora che l'avessi raggiunto.

"Pensavo che con i miei genitori fosse tutto a posto", gli ricordai, colta da una fitta d'ansia.

"Stai tranquilla, e lascia parlare a me", mi liquidò, serio.

Oltre la porta riconobbi i passi di mia madre. Ci aprì un secondo dopo.

"Lo sai quanto mi hai fatto preoccupare?", esordì, furiosa, guardandomi di sfuggita e riportando subito lo sguardo su Stephen.

Il volto di Stephen era tornato ad essere amichevole e affascinante come al solito. "Se le prometto che non accadrà più posso ritenermi perdonato?".

Mia madre strinse le labbra, facendoci cenno di entrare. "Ci devo pensare. Dio... stavo per chiamare la polizia. Lo sai questo, Stephen?".

Aprii la bocca svelta, battendo Stephen sul tempo. "Mamma, è tutta colpa mia. Non prendertela con lui".

"Ah, puoi starne certa", promise, tuttavia tornò a concentrarsi su di lui. Era assurdo il rapporto che si era andato a creare tra loro due.

"Ero molto stanca e mi sono addormentata mentre....", mi fermai, ripensando a ciò che avevamo fatto. Non sopportavo che quell'incanto si fosse spezzato. Un'altra volta il dubbio di aver sbagliato qualcosa mentre facevamo l'amore mi assalì ma lo misi subito a tacere.

Entrambi continuarono ad ignorarmi. "Spero proprio per te che non accadrà più, Stephen. Pretendo che mia figlia sia in casa ad una certa ora della notte".

Stephen sfoderò un mezzo sorriso, glaciale e distaccato, innescando in me una dolorosa sensazione. Annaspai per ignorarla ma era impossibile. C'era davvero qualcosa che non andava? O semplicemente ero io a non essere troppo lucida in quel momento?

"Può stare certa che non accadrà più", le assicurò in un modo talmente distaccato che lasciava ad intendere ci fosse un secondo significato in quella semplice frase.

Ragionai nel tentativo di leggere tra le righe e immediatamente trasalii. Sentivo il panico crescermi dentro, lentamente, strisciare sotto la pelle fino a raggiungere il cuore e stringerlo in una morsa. Non voleva mai più dormire con me? Era questo che intendeva dire?

Scappai verso le scale. "Vado a cambiarmi", annunciai.

Stephen si voltò verso di me accennando un sorriso.

"Mi aspetti, Stephen?". Più che a una domanda somigliava ad una supplica. La dolorosa sensazione di prima si fece pungente. Avevo paura di vederlo svanire come in un sogno.

"Non metterci troppo". Il sorriso era già svanito.

Feci i gradini a due a due e mi gettai sotto la doccia senza aspettare che il getto d'acqua diventasse caldo. L'effetto rilassante durò fino a quando mi avvolsi nell'accappatoio. C'era qualcosa che non andava, ed era peggio di quel che temevo. Cercai di coordinare i movimenti mentre mi infilavo la divisa che avevo tolto dalla cesta dei panni puliti. Le mani mi tremavano sia per l'agitazione che per la fretta.

Qual'era la cosa più grave che sarebbe potuta accadere?

Mi si mozzò il respiro appena ipotizzai la risposta. Il mio cervello non riusciva nemmeno a metabolizzare il dolore che avrei provato se Stephen avesse chiuso con me.

Mi infilai le scarpe e corsi giù per le scale, lasciando vagare lo sguardo per il salotto.

"Stephen?", urlai angosciata.

"Sono qui".

Mi voltai di scatto e lo vidi accanto all'ingresso spalancato. "Ero andato a spegnere il motore dell'auto", spiegò.

Aveva parlato con ancor più distacco di prima. Non si sforzava nemmeno di mantenere la falsa maschera allegra che aveva recitato davanti a mia madre. Con disinvoltura lo raggiunsi e gli strinsi la mano.

"Mi accompagni tu a lavoro?". Di nuovo sembrava che stessi supplicandolo.

"Oggi no". Scrollò la testa e sfuggì alla mia presa con disinvoltura. "Ma se ti fa piacere posso venire a prenderti".

Mi fissò a lungo, studiando la mia reazione. Mi sentivo come sotto esame.

"Stasera ho un appuntamento", chinai di colpo la testa per paura che potesse leggermi negli occhi la menzogna. Era difficile mentire proprio a lui.

"Ci avrei scommesso", sussurrò tra sé e sé.

"Ma ci vediamo domani, no? Domani ci vedremo?", aggiunsi affannata.

"Certo". Sfoderò un sorrisetto teso e subito guardò altrove.

Una fitta d'inquietudine mi perforò lo stomaco.

"Stephen?", lo chiamai quando aprì la portiera dell'Audi.

Percorsi velocemente il tratto di vialetto che ci separava sentendo il suo sguardo freddo congelarmi il volto. "Mi dispiace".

Posò i gomiti sul bordo più alto della portiera aperta e sollevò le sopracciglia. Sembrava stranito. "Per cosa?".

"Per...", ci pensai su, valutando i dubbi che mi avevano assalita mentre facevamo strada per casa mia. "Non lo so. Stavo pensando che forse... questa notte... non è andata come speravi. Che...".

Mi zittì posando due dita davanti alla mia bocca. "Se pensi questo, allora sono io a dovermi scusare con te".

Per qualche attimo la rabbia abbandonò il suo sguardo e tornò ad essere il mio angelo perfetto. Lasciò scivolare le dita attorno alle mie e lentamente mi sollevò il polso, portandoselo all'altezza degli occhi. Lo osservò a lungo, passando il pollice su e giù lungo la cicatrice bianca sul dorso della mano.

"E' questa la cicatrice?", mormorò.

Guardai a mia volta sotto il suo pollice. "Sì".

Si chinò a baciarla.

"Stai attenta", sussurrò, il suo alito caldo sulla mia cicatrice.

Chiusi gli occhi, schivando il ghiaccio dentro i suoi. Un attimo dopo lo sentii avviare il motore. Quando risollevai le palpebre la macchina era già lontana. Ammutolita rimasi a guardarla finché non imboccò la strada laterale che portava al supermarket di sua madre. E le lacrime, tutta la tensione delle ultime ore, mi fece piegare le ginocchia.

"Micol? Che ci fai qua fuori?". Un'ombra si allungò alla mia destra, unendosi alla mia.

Strinsi i denti per la frustrazione. Merda! "Salve dott. Craoge".

"Solitamente quando vengo a farti visita fuggi ovunque per non parlare con me. Devo dedurne che stai facendo dei miglioramenti?".

Lo fissai atterrita. "Come?".

"Sei qua fuori". Con un gesto del braccio indicò la strada. "Stavi aspettando me?".

Colsi una sfumatura d'ironia nella mia voce. "Crede sul serio che io sia in ansia per vederla?".

"Credo tu sia in ansia e basta", mi spiazzò.

Respirai a fondo. "Cosa vuole?".

Mi guardò come se mi stesse fuggendo qualcosa di ovvio. "Parlare con te".

"Giusto", borbottai. "Senza appuntamento?".

Si strinse nelle spalle. "L'appuntamento l'avevamo giovedì scorso..."

"Dio!", esclamai, chiudendo gli occhi. "Mi dispiace... me ne sono dimenticata".

"Oh, non è il caso di dispiacersi", tagliò corto. "Stavi uscendo?".

Guardai l'orologio sul suo polso. "Sto andando a lavoro".

"Già, tua madre mi aveva accennato qualcosa. Senti, Micol", espirò dal naso, "avendo sempre i minuti contati, che ne diresti di seguire un'altra strategia?".

Mi misi subito sul chi va là. "Non ho tempo ora".

"Non ora ma la prossima volta che deciderai di presentarti al nostro appuntamento".

"Non voglio farle perdere tempo".

"Pensi di essere una perdita di tempo?".

"Non ho detto questo", sbottai. Poi lo guardai cercando di comunicargli la fretta che avevo. "Devo proprio andare, adesso".

Sollevò entrambe le mani in segno di resa.

"Nessuna curiosità riguardo alla nuova strategia?". Mi urlò dietro.

Mi fermai. "Non ho niente da dirle Dott. Craoge. Né ora né un altro giorno." Stavo rasentando la maleducazione. "Sul serio, non voglio farle perdere tempo. E lei non può aiutarmi".

"Perché lo pensi?".

Allungai la mano verso di lui. "Perché non è lei ad essere le mia alternativa al dolore".

"Se vorrai interrompere la terapia ne dovrò comunque prima parlare con i tuoi genitori", mi avvertì.

Annuii e saltai sull'auto di mio padre senza lasciargli il tempo di aggiungere altro.

Fu davvero difficile persuadere la parte di me che voleva svoltare nella stessa strada dove avevo visto scomparire l'auto di Stephen. Dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per proseguire dritto, fino all'imbocco dell'autostrada.

Una volta inserita la marcia più alta, rovistai nella mia borsetta alla ricerca del cellulare. Digitai il numero della chiamata rapida e aspettai col cuore in gola. Tenevo il cellulare infilato tra l'orecchio e la spalla mentre inserivo la freccia a destra e curvavo nella rampa d'uscita. La voce metallica della segreteria telefonica partì dopo il terzo squillo.

Mi schiarii la gola tamburellando agitata le dita sul volante.

"Ciao Alex, sono Micol", dissi, appena udii il bip del segnale. "Ho... beh, ho ripensato a quello che è successo l'altro giorno a casa mia e avevi ragione. Stephen è un'egoista, non mi avrebbe mai permesso di continuare a vederti. Hai sempre avuto ragione tu". Tirai un lungo respiro. "Ci siamo lasciati. Abbiamo litigato e... quindi... non lo so forse... forse dovremmo parlarne. Magari stasera. Sai?...", strinsi i denti, "mi sei mancato".

E riagganciai.

Abbassai l'aletta parasole per controllare il mio volto riflesso nello specchietto; avevo del mascara colato sotto gli occhi e il naso rosso. Grandioso!

Quando entrai al Burgher King, il Signor Robert era chiuso in ufficio con Giusy perciò me ne guardai bene dal bussare alla porta. Mi infilai il grembiule e mi gettai nel lavoro, abbassando la guardia in modo che nella mia testa non ci fosse spazio per nient'altro che non fossero patatine fritte e bibite.

Il pomeriggio trascorse veloce. Un paio di clienti mi lasciarono più mancia del solito e il cuoco non ebbe niente da ridire sul mio sistema di segnare le ordinazioni. Non avevo fatto altro che correre da un tavolo all'altro, tenendo costantemente sotto controllo l'orologio e sussultando ogni volta che le lancette scattavano in avanti. Quando le luci dei lampioni si accesero, gettando luci arancio sulla strada, avevo lo stomaco contorto.

Il tempo era scaduto.

E non avevo ancora capito se effettivamente mi sentissi pronta.

Appena entrai nell'ufficio di Robert per cambiarmi controllai il cellulare: Alex mi aveva mandato un messaggio un'ora prima, confermando l'invito.

Mi sentii come se mi avessero preso a calci le ginocchia. Ossessionata com'ero stata dal mio piano non avevo dato peso a ciò che questo implicava. Volevo sempre metterlo in pratica ma l'idea di ottenere la mia vendetta tutto ad un tratto mi terrorizzava. Ero davvero disposta a rovinare la vita di una ragazza per riottenere la mia libertà? Infliggere dolore ad un'altra persona mi avrebbe davvero lasciata libera dall'orrore che avevo vissuto? E Stephen lo avrebbe scoperto? Avrebbe capito o mi avrebbe giudicata?

Di colpo ricordai le parole di mia nonna: Dio ti sembrerà ingiusto... non giudicarlo!

Valeva lo stesso per me?

Cominciai a contorcermi le mani, fissando il buio fuori dalla finestra. Mi accorsi a malapena che Robert era entrato e stava controllando qualcosa tra le sue scartoffie.

Qualcuno bussò alla porta. Era Giusy.

"C'è un uomo che vuole parlarti", mi informò, restando sulla soglia.

Trasalii. Un formicolio alle guance mi fece capire che ero impallidita. "Puoi dirgli di aspettarmi sul retro?".

"Sì, certo. Ah, Robert, mi accompagni tu a casa?".

"Va bene". Robert non sollevò nemmeno lo sguardo.

Ne approfittai all'istante, sgattaiolando fuori dall'ufficio prima che gli venisse l'idea di accompagnare anche me. Non ero certa che il fatto di essere qui con la mia macchina potesse fare la differenza per lui.

Il padre di Stephen mi stava aspettando, con la schiena posata ad un tronco, lo stesso in cui molte sere prima avevo visto spuntare una sagoma. Mi avvicinai in fretta, reprimendo un brivido di paura. Scappare, chiudermi in macchina e tornare a Port Townsend senza dire niente a nessuno non era poi un'idea così cattiva e insensata. Ma la soddisfazione che provavo nel vederlo così teso era più forte di qualunque altra cosa.

Mi misi di fronte a lui. I peli sulle braccia mi si rizzarono. Se aveva preso in considerazione l'idea di uccidermi, quello era senz'altro il momento e il luogo più adatto per farlo. Dovevo inventarmi un diversivo per distrarlo.

"Alex sta per arrivare", esordii, guardando nervosa il parcheggio. Un testimone era l'ultima cosa che avrebbe desiderato. O no? "Sarà meglio che ci sbrighiamo".

Il suo sguardo si perse lontano tra gli alberi. Lo seguii, curiosa, e fu a quel punto che notai le altre due sagome, ad una decina di metri da me. Mi avevano circondata, chiusa in una specie di cerchio invisibile. Anche se avessi cercato di raggiungere la mia auto era troppo lontana per pensare davvero che non mi avrebbero riacciuffata.

Tornai a guardarlo.

"Mi metterò ad urlare tanto forte che non avrete nemmeno il tempo di scappare", lo minacciai. La voce stridula rischiava di tradirmi.

Scosse la testa con un'espressione gentile.

"Nessuno vuole farti del male". Mi assicurò. Sembrava sincero, tuttavia restava molto difficile credergli. "Non io per lo meno", aggiunse in un mezzo sorriso.

"Perché no?", squittii. Mi pentii all'istante di quella domanda. Il mio tentativo di distrarlo lo stava invece portando sulla strada giusta.

Controllai il parcheggio, pregando che qualcuno scegliesse proprio quel momento per andarsene a casa. Tutte le macchine erano parcheggiate vicino alla mia, le luci nell'ufficio erano ancora accese. Ero sola, pensai con sgomento.

La sua voce divenne un soffio. "Vedila così: sei fortunata che io ami mio figlio. E che lui ami te".

Sentir tirare in ballo proprio Stephen mi fece accapponare la pelle.

Suo padre fece un piccolo passo avanti e immediatamente indietreggiai, compensando il movimento.

"Non voglio perdere mio figlio. Finita questa storia tu ti dimenticherai di me e io farò altrettanto con te, Micol". Scosse la testa, lentamente. "Mi chiedo solo che cosa potrebbe mai pensare di te se venisse a sapere cos'hai in mente di fare". Scosse di nuovo il capo, quasi nauseato. "Come hai potuto vedere ho informato gli altri due, aspettano solo che tu ci dica quando dobbiamo andare a casa del Professor Norton".

"Tra mezz'ora", risposi automaticamente.

"Bene".

"Farete in modo che lui stia guardando", gli ricordai.

A quel punto fu lui a retrocedere, scoccandomi un'occhiata disgustata. "Avrai la tua vendetta".

Annuii risoluta e lo fissai scomparire insieme alle altre due sagome, inghiottito dai rami bassi e neri del bosco.

Qualche minuto più tardi due fasci di luce bianca mi sbatterono contro le gambe. Il rumore di una frenata sulla ghiaia mi lasciò di sasso. Con uno scatto girai la testa e mi accorsi di Alex, seduto in macchina, con la luce fioca dell'abitacolo che gli rischiarava il profilo.

Sentii dentro di me un suono sordo, simile al gong d'inizio match. Non potevo più tornare indietro. Potevo sperare che andasse tutto come l'avevo programmato. Ma tornare indietro no!

"Sono in ritardo?". Alex si stupì di trovarmi là fuori.

"No". Stavo boccheggiando.

"Sono felice di vederti", sorrise allegro. "Quando ho sentito il tuo messaggio sulle prime pensavo fosse uno scherzo".

Quando fui abbastanza vicina mi studiò attentamente. "Davvero tu e Stephen...?".

Senza volerlo mi lasciai sfuggire un rantolo. "Sì, ci siamo lasciati".

"E il motivo sarebbe?". La voce gli uscì distorta, simile a quella di un doppiatore. Non l'avevo nemmeno visto muovere le labbra.

Mi ci volle un po' a capire che non era stato lui a parlare. Drizzai le spalle, sgranando gli occhi verso il punto che aveva attirato l'attenzione di Alex.

"Stephen, cosa ci fai qua?". Non ero certa di aver parlato a voce alta. La mia gola era così secca che pulsò di protesta appena tentai di aprire bocca.

Cercai di intercettare il suo sguardo per dargli un avvertimento e fargli capire che le parole che avevo detto ad Alex erano tutte una menzogna. Ma i suoi occhi rimasero fermi su Alex. Per un po' rimasero a fissarsi, immobili, le braccia incrociate al petto. Dopo quello che mi parve un minuto interminabile sentii Alex schiarirsi la voce.

"Suppongo che se Stephen è qua, è perché ci sono io", mi chiarì Alex.

Gli occhi di Stephen si ridussero a due microscopiche fessure. Avanzò svelto di qualche passo, posizionandosi fianco a me, e mi acciuffò per un polso. Non perdeva di vista Alex neanche per un attimo. Notai che c'era qualcosa di diverso nel modo in cui lo stava osservando. L'odio che provava per lui non era scomparso né diminuito ma c'era qualcos'altro. Una luce nuova a cui non riuscivo a dare un nome.

"Immagino tu sia felice che ci siamo lasciati", gli chiese a un certo punto Stephen, la sua calma intaccata.

Il mio tentativo di comunicare con lui attraverso lo sguardo quindi si era rivelato inutile.

"Se ti rispondessi che sì, mi dispiace, cosa faresti?", lo stuzzicò Alex.

"Farei comunque in modo che tu le stessi sufficientemente lontano", rispose inflessibile.

Un ghigno arrogante gli imbruttì il volto. "Quello che vuole lei non conta?".

Lo sguardo di Stephen incrociò il mio, poi tornò immediatamente ad Alex. La giostra di emozioni sul suo volto si bloccò in un'aria combattuta.

"E' proprio perché quello che vuole conta, che non è il caso che vuoi due stiate troppo vicini in questo momento". Era un messaggio in codice. Ne ero certa. Come ero certa, a questo punto, che avesse sentito tutta la conversazione avvenuta tra me e suo padre.

Alex aggrottò le sopracciglia, guardando lui, poi me. Infine nuovamente lui. "Non capisco".

"Vai a casa, Alex". La voce di Stephen, per quanto gentile, aveva una sfumatura autoritaria che non gli avevo mai sentito.

"No!". Il mio urlo rimbombò nel parcheggio deserto e feci l'errore di gettarmi in avanti.

Le braccia di Stephen si avvolsero ai miei fianchi come lacci, e con uno strattone mi obbligarono a retrocedere.

Alex sgranò gli occhi, irrigidendo le spalle. "Che sta succedendo?".

"Lasciami, Stephen", imprecai, dimenandomi nel tentativo di sfuggire alla sua presa.

Le sue dita si conficcarono nella mia carne. Sentii il dolore salirmi dal polso al gomito.

"Vai a casa. ORA! Sbrigati", ripeté, Stephen.

Alex scosse la testa, veloce, continuando a saettare con lo sguardo tra Stephen e la propria macchina. Sembrava combattuto. "Okay, prima dimmi che sta succedendo".

"Tua sorella", rispose laconico, tappandomi la bocca appena tentai di parlare.

Mi si rivoltò lo stomaco. La confusione si era impossessata del mio volto, ma qualcosa, forse il sospetto, mi tese le spalle. Aveva davvero sentito la mia discussione con suo padre!

Dalle labbra di Alex uscì immediato un ringhio. "Che cose le è successo?".

"Ancora niente", lo rassicurò, sollevando un braccio in segno di resa. Con l'altro mi strattonò ancora un poco, più indietro. Voleva difendermi da Alex?

Anche Alex notò il modo in cui mi stringeva a sé, come volesse farmi da scudo. Mi guardò sospettoso ed arretrai davanti ad un malessere tanto feroce da sfigurargli il volto. Tutta la sua arroganza era scomparsa.

"Cosa centra Micol in tutta questa storia?".

"Niente, non centra niente", Stephen aveva risposto troppo in fretta, aumentando involontariamente i sospetti di Alex.

Era difficile intuire cosa stesse pensando perché dentro di lui stava avendo luogo una vera e propria lotta. La potevo vedere mentre si manifestava in una catena di emozioni da cui dipendevano tutti i cambiamenti di espressione. Il panico vinse su tutte.

"Voi due non vi siete lasciati", ragionò Alex.

"No, infatti", confermai. A questo punto volevo soltanto che Alex non dubitasse di Stephen e che non facesse ricadere su di lui la responsabilità di ciò che stavano per fare a sua sorella.

"Era tutta una messinscena per distrarmi e allontanarmi da casa?", sbottò, sporgendosi verso di me.

"Vai, Alex", intervenne Stephen. Cercava ancora in tutti i modi di nascondermi dal suo sguardo.

"Lei viene con me", ordinò Alex e allungò un braccio per toccarmi.

"Non. Osare. Toccarla". Il ringhio di Stephen era qualcosa di spaventoso.

Un attimo dopo sentii i piedi sollevarsi da terra e mi ritrovai a quasi due metri di distanza da Alex con la spalla dolorante, premuta contro la corteccia di un albero. Nonostante la brutale forza che aveva usato per allontanarmi da Alex, Stephen era rimasto nello stesso punto, senza nemmeno cambiare posizione.

Per un attimo distolsi l'attenzione da loro due e mi concentrai sulle luci dell'ufficio di Robert. Da lì a pochi minuti sarebbe uscito, mi ricordai.

Tornai ad Alex, che nel frattempo si era avvicinato a Stephen per parlargli ad una spanna dal volto. Sentivo quello che si dicevano ma non riuscivo a concentrarmi. Stavo per crollare, lo percepivo dal respiro sempre più lento e irregolare. Le loro parole scorrevano tutte insieme, le sillabe persero il loro significato.

La luce nell'ufficio si spense. Tutto il parcheggio sprofondò nell'oscurità, le sagome di Stephen e Alex si confusero in un unico contorno. Con la luna nascosta dietro ad una massa di nubi non riuscivo nemmeno a vedere a mezzo metro di distanza.

"Non mi importa se non hai fiducia in me, Alex", la voce di Stephen si fece più chiara. "Verrò io con te e ti spiegherò tutto per strada. Ma dobbiamo farlo ora, prima che per tua sorella sia troppo tardi".

Guardai l'oscurità alle mie spalle e spostai a rilento la gamba verso l'interno del bosco. Sperare di riuscire a muovermi senza far rumore era a dir poco impossibile ma potevo comunque far affidamento al buio. Dove mi trovavo, i rami degli alberi si piegavano in una specie di arco fin quasi a toccarmi le spalle, i sottili bagliori argentati non riuscivano a penetrare tra il fogliame...

Non avevo tempo per cercare un'alternativa. Dovevo arrivare a casa di Alex prima di loro, era l'unica possibilità che avevo.

Adesso!, urlai nella mia testa.

Schizzai verso una mucchio di rami spezzati dall'ultimo temporale, schivando all'ultimo una roccia seminascosta da un groviglio di cespugli. Davanti a me il sentiero si spezzò e poco più in là il terreno cominciò a scendere verso il fiume. Ricordai che da piccola ci andavo spesso con i miei amici a costruire le dighe coi sassi. Ricordai anche che l'acqua non era troppo alta e si poteva benissimo attraversare passando per una ansa che si sporgeva verso l'altra sponda.

Guardai verso il basso, valutando in fretta da che punto ridiscendere la pendenza. Non avevo tempo. Nel giro di pochi secondi, Stephen e Alex si sarebbero accorti della mia fuga e uno di loro mi avrebbe cercata.

Mi piegai sulle caviglie e afferrai un ramo abbastanza lungo, usandolo a mò di corda per mantenere l'equilibrio e mi lasciai scivolare giù per il pendio. Le mie gambe penzolarono nel vuoto per circa un metro, poi piantai bene i talloni nella terra e mollai la presa, costringendomi a non guardare in basso. La terra franò sotto il mio peso e il vuoto d'aria mi fece sentire le farfalle allo stomaco. La pressione del vento mi schiacciò contro alcune pietre che spiccavano aguzze dal'ultimo pezzo di parete che scendeva quasi perpendicolarmente verso la riva del fiume.

Atterrai sulle ginocchia nel punto più fangoso. All'improvviso sentii un dolore bruciante alla gamba mentre strisciavo carponi, tastando con le mani ogni centimetro di terreno. La sentivo indolenzita, pulsava ad ogni pressione. Non potevo far altro che trascinarmi in avanti usando le braccia e la gamba sana.

Uno scroscio d'acqua mi coprì i piedi. Avvertii una folata d'aria calda in faccia e nell'istante successivo nelle nubi si aprì un varco, lasciando filtrare un po' di luce. Mi occorsero alcuni secondi per orientarmi; ero arrivata nel punto in cui l'acqua del fiume era più bassa ma, dopo una rapida occhiata, valutai che per raggiungere l'altra sponda avrei dovuto nuotare o arrischiarmi a saltare da un masso all'atro.

L'attraversata fu più difficile di quel che pensavo perché dall'ultimo temporale il livello dell'acqua si era alzato di quasi mezzo metro e i massi spuntavano solo con l'estremità più appuntita e viscida. Rischiai di scivolare nell'acqua una decina di volte prima dell'ultimo balzo, che mi fece planare dalla parte opposta, dove il bosco terminava su un piazzale illuminato.

Corsi senza guardare dove mettevo i piedi. La gente mi guardava perplessa ma la ignorai. Ero consapevole di avere i pantaloni zuppi e strappati all'altezza delle ginocchia.

A testa bassa schizzai al centro di un parcheggio dove avevo visto un taxi fermo nell'area di sosta. Sgattaiolai nel sedile posteriore senza nemmeno controllare se fosse già stato prenotato. L'autista si voltò sbalordito, mettendo un braccio attorno al poggiatesta.

"Di fretta?", indagò, poi si accorse del sangue sui miei vestiti.

Gli dettai l'indirizzo di Alex. "La prego, deve arrivarci il prima possibile".

"Conosco una scorciatoia".

Appena partì mi lasciai cadere indietro sul sedile, puntando lo sguardo sull'orologio del cruscotto. A quell'ora il padre di Stephen e gli altri due dovevano già essere arrivati a casa del professor Norton. Lo stomaco mi si contorse per il nervoso. Mi rifiutavo di pensare a quella ragazza, dovevo concentrarmi solo su Alex. Chissà dov'era? Se ero fortunata potevo arrivare prima di lui.

Posai la fronte sul vetro del finestrino, mordicchiandomi un'unghia e incitando mentalmente il taxista ad andare più veloce. Il tachimetro segnava le sessantacinque miglia quando imboccammo l'autostrada. Dubitavo che quel catorcio potesse andare più svelto. Mi dimenai sul sedile, facendo saettare gli occhi dal finestrino all'espressione rilassata del conducente.

Vai... vai ...vai!!!

Un camioncino ci sorpassò spedito mentre noi avanzavamo con calma, come se avessimo a disposizione tutto il tempo di questo mondo. Osservai la lancetta del contachilometri; era salita a settanta miglia. Tornai al finestrino, esultando dentro di me ogni volta che il codice postale sui cartelli stradali si avvicinava a quello della mia destinazione.

"Eccoci arrivati". Accostò lungo il marciapiede e si sporse verso di me.

"Grazie". Gli allungai un paio di banconote senza mai distogliere lo sguardo da casa di Alex e balzai giù.

Le tende alle finestre erano tutte tirate ma riuscivo a vedere il riflesso di alcune luci provenire dal piano superiore. Attraversai il vialetto asfaltato con la sensazione che i miei piedi fossero incollati a terra. Avevo l'impressione di muovermi al rallentatore, come dentro un sogno, martoriata dal terrore che si insinuava in ogni mia cellula, prosciugandomi da ogni forza.

Mi avvicinai all'ingresso e notai che la serratura era stata scassinata, dalla porta accostata filtrava una luce fioca. Eppure, quando posai la mano con cautela sulla maniglia e spinsi in avanti mi ritrovai in un atrio completamente inghiottito nel buio. Da qualche parte un ventilatore ronzava lento e monotono, non avvertivo il getto d'aria ma sentivo lo svolazzo di alcuni fogli alla mia destra.

Ricordai che le scale per il piano superiore erano proprio in fondo, dietro una parete bassa che separava il salotto dal corridoio. Mossi lentamente un piede davanti all'altro, spostandomi a tastoni contro la parete finché raggiunsi la prima finestra. Tirai la tenda di lato e il salotto venne rischiarato dalla luce esterna. Riuscivo a vedere solo i contorni delle cose; il divano sistemato in obliquo, un drappeggio che copriva un'intera parete, una piantana tra la credenza e il corridoio. E poi un tappeto chiaro che si allungava fino a toccare il primo gradino della scalinata a chiocciola.

Avanzai senza fare rumore, stringendo i denti ad ogni scricchiolio che provocavo. Da quando ero entrata non avevo sentito nessun suono, nessun urlo che potesse indirizzarmi nella parte giusta, perciò mi ritrovai a seguire una luce bassa e giallognola che filtrava da sotto una porta chiusa del secondo piano.

Non avevo idea di cosa avrei trovato, sapevo che comunque non mi sarebbe piaciuto. Fissai la porta come se potessi vederci attraverso e immaginai la sorella di Alex stesa sul pavimento mentre tre uomini ripetevano su di lei la stessa macabra danza che avevano obbligato a far fare al mio corpo di bambina.

Nonostante l'orrore, il desiderio di colmarmi gli occhi dell'espressione terrorizzata e sconfitta del padre di Alex mi diede la forza di ignorare i sensi di colpa. La paura divenne secondaria davanti alla mia vendetta. L'adrenalina mi spinse il braccio in avanti. La porta si spalancò.

La luce all'interno oscillò sulla punta delle mie scarpe rivelando la mia presenza. E l'istante successivo sentii su di me sei paia di occhi famelici e bramosi.


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