CHI E' IL PIù FURBO?

Ogni parte del mio corpo si irrigidì e nello stesso medesimo istante smisi di sentire il respiro di Stephen. Il suo braccio, allungato davanti a me come uno scudo, divenne immobile e rigido come un pezzo di granito, coprendomi in parte da ogni sguardo. Percepii il rumore di un sussulto, il tonfo minaccioso dei passi sul pavimento in legno, un'imprecazione talmente soffocata da somigliare ad un ringhio.

Tutti questi rumori furono l'unico presagio.

Subito dopo, la bassa luce proiettò davanti a me il movimento veloce di quattro ombre che si avvicinavano alla mia, fino a coprirla interamente. Sbattei gli occhi, frastornata, irrigidita dal terrore, e poi fu come se stessi spiccando il volo; Stephen fece scattare il braccio all'indietro, spingendomi con tanta forza da obbligarmi a retrocedere contro il muro. Senza quasi accorgermene mi ritrovai con le spalle premute contro la parete, costretta tra un mobile e il braccio di Stephen, ancora premuto contro il mio petto.

Vidi le sue spalle incurvarsi in avanti mentre divaricava le gambe in una posa di difesa. Il ringhio che gli salì dal petto coprì ogni rumore, ogni respiro, ogni ansimo, e interruppe per un secondo la danza macabra che stava avvenendo a meno di un metro da noi.

Ancora imprigionata tra la parete e il braccio di Stephen, trasalii per l'ondata di adrenalina che lo fece scattare senza preavviso verso la porta in una sequenza di movimenti troppo svelti per permettermi di stargli accanto senza inciampare. Cercai di reggere il suo passo mentre mi trascinava per un lembo della maglia.

"Non ti fermare mai... per nessuna ragione", annaspò, rafforzando la presa attorno alla stoffa.

Mi sospinse in avanti, senza mai mollare la presa, nemmeno quando procedetti trascinando le ginocchia sul pavimento del corridoio.

La mia mente era inerme, ormai completamente staccata dal corpo. Riuscivo a mala pena a respirare.

Scattammo verso le scale, senza mai voltarci indietro. Ogni volta che il mio passo si faceva malfermo, ostacolato dal buio pesto della casa, sentivo avvicinarsi i respiri affannati e i passi rapidi di quegli uomini che, a differenza nostra, conoscevano a memoria ogni dettaglio di ogni stanza. Non avevo la più pallida idea di dove stessi mettendo i piedi, capii solo ad un certo punto che qualcosa mi aveva sollevata, lasciandomi ricadere un metro più avanti.

Nello stesso istante sentii l'urlo di Stephen rimbombarmi in testa seguito da un dolore al fianco che mi tolse il respiro. Scivolai a terra, confusa, ansimando per il male. Cosa mi aveva colpita? Ci avevano raggiunti? Perché Stephen aveva urlato?

Qualcosa di duro e freddo si schiantò contro la mia tempia prima che avessi il tempo di portare in avanti le braccia per proteggermi il volto. Rotolai sul fianco, fermandomi soltanto quando i piedi di una sedia si incastrarono tra le mie caviglie.

Ero tramortita, non riuscivo nemmeno più a sentire il dolore. Il respiro mi graffiava in gola, sussultando ad ogni colpo sordo che percepivo accanto a me. Con sgomento mi resi conto che due di loro ci avevano raggiunti e che uno di questi teneva fermo Stephen, concedendo all'altro l'opportunità di colpirlo al volto.

Strisciai sul pavimento, avvertendo qualcosa di caldo scivolarmi sugli occhi. Avevo il presentimento fosse sangue misto a sudore, una combinazione che rendeva ancora più sfocata la sagoma di Stephen. Accanto a me stava facendo di tutto per tenerli lontani, concedendomi il tempo di sgusciare sotto il tavolo della cucina. Con la vista appannata allungai il braccio in avanti, muovendo la mano sul pavimento fino a fermarla su qualcosa di duro. Sulle prime non capii di cosa si trattasse.

Sollevai lentamente la testa, lasciando scorrere gli occhi sulle mie dita, poi su ciò che stavo toccando e infine su due gambe ben divaricate. Guardai più in su, seguendo al rallentatore ogni piega dei pantaloni, la cintura, la canottiera chiara che spiccava nel buio come una macchia di luce soffusa. E poi strizzai gli occhi per togliere la patina viscida che li riempiva, mettendo a fuoco il volto del padre di Alex.

Per qualche istante lo fissai senza respiro, rabbrividendo dalla testa alla punta dei piedi quando registrai il ghigno trionfante che lo sfigurava, poi con uno scatto mi lasciai cadere all'indietro, scalciando automaticamente contro le sue ginocchia e indietreggiando scoordinata.

In meno di un secondo mi travolse un'ondata di emozioni sconvolgenti. La prima era una sensazione di sconfitta che mi inchiodò sul posto. Poi, a mano a mano, la paura nel ritrovarmi di fronte al mio incubo annullò in un lampo la sensazione di sconfitta, rimescolandomi lo stomaco.

Ero sola, spacciata. Era la fine.

"E' delizioso l'odore della tua paura", mentre ancora stava parlando fece scattare in avanti la testa, gli occhi saettarono nei miei con una velocità inquietante.

Spostai gli occhi di lato, cercando di capire quante possibilità di fuga mi erano rimaste. Sentivo accanto a me gli ansimi di Stephen. Non avrebbe resistito ancora per molto. Lo sapevo.

Vidi l'ombra del padre di Alex incombere su di me. Un secondo dopo, con una sola mano mi imprigionò i polsi e con una gamba mi inchiodò contro la parete. Col braccio libero mi acciuffò una ciocca di capelli, tirandomi indietro la testa in modo che potesse guardarmi bene in faccia.

L'aria mi uscì dai polmoni con una violenza che sorprese entrambi e si esaurì con un gemito; il suo pugno al fianco mi fece tossire, mozzandomi il respiro. Smisi di cercare Stephen con lo sguardo, concentrandomi sulle mani del padre di Alex nella speranza di prevedere la mossa seguente.

Era finita, lo sentivo fin dentro le ossa.

"E' arrivato il momento di spiegarti che non stavo affatto scherzando otto anni fa", disse gentile, avvicinando il volto. La sua fronte mi sfiorava la frangia, il respiro si mescolava al mio. "Hai infranto la regola, l'unica che avresti fatto bene a seguire".

Strattonai le braccia per liberarmi e immediatamente le sue dita si conficcarono più a fondo nella mia carne. La sua presa era una morsa d'acciaio, mi indolenziva i polsi.

"Dovevi restare lontana da questa città". Il tono era ancora calmo ma scorsi nei suoi occhi un fremito di attesa. "Ti avevamo avvertita".

Lo guardai. Non ricordavo nemmeno più come si facesse a parlare. "Me ne sono andata".

"Il patto era che non saresti mai più tornata", precisò piano, seguendo la traiettoria del mio sguardo. "E che ti saresti tenuta per te ciò che era accaduto".

Un fascio di luce penetrò tra uno spiraglio nella tenda tirata, sbattendo sul suo profilo e rischiarando la rabbia che gli si rifletteva negli occhi, perseguitandomi fino a farmi boccheggiare.

"Nel patto era implicito che non avresti cercato di vendicarti coinvolgendo le persone che amo", continuò, dolce. Sembrava mi stesse facendo la predica.

Cercai di voltare la testa per controllare la posizione di Stephen. Era intollerabile saperlo vicino a me senza capire se fosse ferito. Un'altra ondata di paura mi fece agire d'impulso: feci scattare il braccio di lato, tagliando di netto il fascio di luce, e afferrai un coltello dal ceppo che si rifletteva in un arcobaleno di riflessi.

"Allontanati!!!", urlai isterica, puntandoglielo sotto il naso.

Per una frazione di secondo i suoi occhi si sgranarono sulla lama, poi retrocesse, spostando un piede dietro l'altro fino a sbattere contro la sedia che mi si era rovesciata addosso. Teneva le mani sollevate all'altezza del busto, in una posa di arresa totale. Più si allontanava, più sentivo infondersi dentro di me una dose di coraggio quasi viscerale. Lasciai scattare lo sguardo di lato, verso i gemiti, e fu a quel punto che vidi ciò che realmente lo aveva fatto indietreggiare.

Scorsi a malapena le due sagome stese a terra perché tutta la mia attenzione ricadde su Stephen, sui suoi muscoli tesi fino a scoppiare, sulla vena che pulsava al centro della sua fronte, sulla linea bianca dei denti scoperta dalla furia impazzita che gli alterava il volto fino a farlo somigliare a quello di suo padre.

"Più indietro", gli ordinò, puntandogli contro un coltello. Sapeva maneggiarlo molto meglio di me.

Il padre di Alex girò attorno alla sedia e indietreggiò verso i suoi compagni. Li osservò di sfuggita.

"Li hai uccisi?", chiese. Non sembrava preoccupato per loro ma solo spaventato per se stesso.

Stephen ignorò la domanda, scuotendo il coltello. "Ancora più indietro". Poi si voltò per mezzo secondo verso di me. "Corri!".

Il mio corpo si rilassò di colpo appena vidi Stephen scattare di lato in un movimento quasi impercettibile che mi fece capire quale punto della stanza dovevo raggiungere. Un altro movimento alle mie spalle smosse la tenda, permettendo ad una decina di fasci di luce, tremolanti e soffusi, di schiantarsi sotto i miei piedi, illuminando involontariamente la direzione che dovevo seguire.

Zoppicai fino al salotto, sostenendomi sopra ogni mobile che sorpassavo, voltandomi di continuo per accertarmi che nessuno mi stesse seguendo. I miei occhi si erano pian piano abituati all'oscurità e non fu così difficile individuare l'ingresso. Quando lo raggiunsi e tirai la porta, il cuore mi sprofondò nello stomaco: era chiusa!

"Via... via... VIA! Cerchiamo un'altra uscita". Stephen mi diede uno scossone per incitarmi a muovermi più in fretta. Appena dietro di lui si mossero tre ombre tutte insieme.

Provai a fare pressione sopra il ginocchio per alleviare il dolore, correndo col busto piegato in avanti a tal punto da essere quasi perpendicolare al pavimento. Ad un certo punto sentii le mani di Stephen infilarsi sotto le mie ascelle e i miei piedi si sollevarono da terra.

"Aggrappati forte, okay?", ansimò, sistemandomi tra le sue braccia, contro il petto.

Sentii il suo cuore rimbombarmi nelle orecchie mentre correva ad una velocità sorprendente verso una porta che non avevo ancora notato. Posai il mento sulla sua spalla, guardando dietro di noi le ombre sempre più vicine. Con una mano sola mi tenne ancorata a lui, si sporse in avanti e spalancò la porta di legno massiccio, poco più alta di un metro. Infine mi sospinse dentro, sorreggendomi a malapena mentre cercava qualcosa con cui sbarrarla.

Il rumore delle nostre scarpe riecheggiò nel vuoto di una stanza umida che puzzava di muffa. C'era solo una luce in lontananza che sottolineava la presenza di una rampa di scale in roccia non levigata. Portava verso il basso, congiungendosi ad un'ampia sala spoglia dal soffitto che si apriva in arcate sempre più basse, fino a scendere sopra una finestrella sbarrata da griglie arrugginite.

Avrei voluto chiedergli cosa sarebbe successo ma non riuscivo nemmeno a respirare. C'era un particolare che non riuscivo a togliermi dalla testa: se nessuno poteva entrare, era scontato che nemmeno noi saremmo potuti uscire di lì.

Stephen mi cinse i fianchi. Con la punta delle dita mi accarezzò il ginocchio e lo sollevò per esaminare la ferita.

"Aggrappati al mio collo", ordinò senza tradire alcuna emozione. Come se la situazione lo sfiorasse appena.

Feci come mi disse e mi lasciai condurre in fondo alla scalinata. Di tanto in tanto sentivo il rumore di alcune gocce d'acqua che si schiantavano sulla pietra dura. L'eco dei nostri cuori sbatteva contro le pareti fredde, davanti a noi il nostro respiro si allargava in una nuvola bianca.

Arrivati in fondo, la luce dalla finestra proiettò una luce grigiastra e mi concessi uno sguardo generale, registrando i dettagli della stanza: c'erano degli attrezzi da campagna appesi alle pareti, alcune corde erano state arrotolate nell'angolo più umido dello scantinato, dalle pietre smussate del soffitto si allungavano delle macchie scure di umidità. Cominciai a battere i denti, e non solo per la paura. Cosa diavolo era questo posto?

Stephen dal suo canto dava l'impressione di essere molto più rilassato di me, anche se il suo sguardo non si staccava nemmeno per un secondo dalla porta.

Mi rannicchiai in un angolo, portando le gambe al petto e appoggiando il mento sopra le ginocchia. Per un po' me ne rimasi in silenzio, osservando le braccia forti di Stephen che sollevavano i pesanti attrezzi, valutandoli come possibile arma.

Poi parlai tanto velocemente da mangiarmi la coda delle parole: "Ci uccideranno, vero? Riusciranno ad entrare da quella porta e tu non potrai fare niente per...".

"Andrà tutto bene", mi zittì.

Sollevai il mento quando posò accanto alle mie scarpe una falce arrugginita.

"Come posso credere che andrà tutto bene?".

Il suo corpo si irrigidì. "Esperienza".

Sfiorai con le dita la lama della falce. "Credi davvero che non riusciranno ad entrare?". Ero scettica.

"Ne sono piuttosto certo, sì".

Con la punta della scarpa spostai la falce. "Se lo pensi sul serio perché stai cercando tutte le armi possibili?".

Non mi lasciò quasi il tempo di finire. Lo vidi accovacciarsi di fronte a me, con la mano mi afferrò il mento e lo sollevò. "Sono per te".

Non riuscivo a capire. Lo fissai nell'oscurità, battendo i denti e notai che i suoi occhi non erano più fissi verso di me. Osservavano attenti le grate arrugginite alla finestra. Poi la indicò con un cenno del capo.

"Uscirai da lì. Ti aprirò un varco e riuscirai a passare. Quando sarai fuori dovrai correre il più veloce possibile ma se...", digrignò i denti, "... se dovessero inseguirti ti servirà qualcosa per proteggerti".

Aggrottai la fronte. Un attacco di nausea mi fece capire che non avevo capito male. "Dovrò andare da sola?".

"Non riuscirò mai a passare di lì. E' troppo stretto".

Cominciai a scrollare la testa prima ancora che finisse di parlare.

"Micol!". Il suo tono di rimprovero mi distrasse per un momento dalla paura. "Non è un buon momento per mettersi a discutere".

"Non è così stretto", protestai.

Mi lanciò un'occhiataccia. "Quando tu uscirai da quella dannata finestra -e credimi, lo farai- probabilmente se ne accorgeranno e cercheranno in tutti i modi di prenderti. Devo restare per distrarli, per farti guadagnare tempo".

"No. No. No. No". Scrollavo la testa, isterica, cercando di afferrargli le mani.

"Ascoltami". Il suo alito caldo mi accarezzò la fronte. "Non puoi restare qui. Su questo almeno spero tu sia d'accordo con me. Li ho tenuti a bada fino ad ora e riuscirò a farlo ancora per un po' ma sono in troppi. Ho bisogno del tuo aiuto, ho bisogno che sgusci fuori di qui e chiami la polizia".

Con uno scatto della mano annaspai nella tasca dei pantaloni, estraendo il cellulare. Lo sollevai sopra la testa, cercando il segnale.

"Non c'è campo qua dentro", disse.

"E ti pareva", brontolai, prossima alle lacrime. Scagliai il cellulare dall'altra parte dello scantinato, facendolo schiantare contro le corde.

Sulle sue labbra apparve un sorriso. "Non li guardi mai i film horror? Non c'è mai campo quando hai l'estremo bisogno di un cellulare".

"Mi dici come fai a stare così tranquillo?", sbottai.

Si strinse nelle spalle, prima di sollevarsi. "L'unica cosa che mi importa è che tu sia al sicuro".

Fece per afferrarmi una mano ma la nascosi dietro la schiena.

"Non ti lascerò qui", gracchiai.

Mi osservò a lungo, increspando la fronte. Il sorriso era diventato una semplice linea tesa sulle sue labbra. "Lo farai invece, razza di ragazzina testarda, sciocca e deliziosa".

"No, Stephen. No". Mi dimenai maldestra, graffiandomi le braccia sulla parete. "Resterò e ti aiuterò".

"Metterti nei guai non è aiutarmi".

Si accucciò per sollevare la falce e me la porse.

Sbattei i piedi a terra. "No, no e no".

La furia lampeggiò nei suoi occhi. "Porta il tuo culo fuori da questa casa, Micol, prima che sia io a obbligarti a farlo".

Nascosi il volto tra le ginocchia, incapace di trattenere le lacrime. Tutte le emozioni che avevo provato nelle ultime ore si stavano sfogando proprio in quel momento.

"Non posso farlo, Stephen. Non me lo chiedere. Io ti amo. Sei in questo guaio per colpa mia. E' SEMPRE colpa mia. Fuggiremo insieme e...".

Mentre ancora stavo parlando, sentii le sue mani afferrarmi per i fianchi e tirarmi in su. Dimenarmi fu del tutto inutile perché in un lampo mi ritrovai tra le sue braccia, con la guancia accostata alla sua mano che mi teneva la testa piegata all'indietro. La sua bocca si mosse tormentata contro la mia, trasmettendomi tutta la sua angoscia. Quando mi staccai per riprendere fiato, scese disperata sulla gola senza mai staccarsi dalla mia pelle. Sentivo il suo alito bruciarmi contro, il desiderio stava colando nelle mie vene come lava, mentre la consapevolezza che quello sarebbe potuto essere il nostro ultimo momento insieme si faceva strada, facendomi trasalire.

L'istante successivo le sue labbra si accostarono al mio orecchio. "Farai quello che ti ho detto?".

Non riuscivo più nemmeno a ricordare dove fossimo.

"Neanche per sogno", farfugliai.

Sorrise, furbo. "Posso tentare di convincerti?".

Provai a ribattere ma le sue labbra si scontrarono di nuovo contro le mie in un modo che dovrebbe essere dichiarato illegale. Mi sforzai di restare lucida. Non ci riuscii.

"Stai cercando di distrarmi... non di convincermi".

Le sue labbra si bloccarono di colpo. "Non importa se il risultato è lo stesso." E poi ripresero a muoversi persuasive. "Ti fidi di me?".

"Dipende dalla situazione".

"Lo prenderò per un sì".

Feci per lanciargli un'occhiata torva ma due ceppi di granito mi afferrarono i polsi, obbligandomi a risedermi sul pavimento.

"Ti voglio fuori di qui in meno di due secondi". Mi tappò la bocca con la mano libera appena tentai di protestare. "Qualunque imprecazione tu stia cercando di urlarmi contro dovrai rimandarla a più tardi. Ti garantisco che sarò felice di ascoltare quello che la tua linguaccia sarà in grado di dire. Ma sarò ancora più felice quando ti saprò al sicuro, lontano da questi bastardi, magari a casa tua, sotto le coperte. Siamo d'accordo?".

"No", pronunciai lentamente contro il suo palmo.

Roteò gli occhi. "Dovrebbe importarmene?".

"Sì. Se mi ami dovrebbe importarti il mio parere".

"Allora non ti amo".

"Sei un idiota. Non ti lascerò qua".

Sorrise, serio. "Che coincidenza, stavo per dirti la stessa identica cosa".

Aprii la bocca ma lui mi zittì sollevando un dito.

"Un'altra parola, Micol, una sola, e ti avverto che per creare un varco in quelle fottute grate userò la tua testa!!".

Mi voltò le spalle, allontanandosi di qualche passo verso l'unico fascio di luce proveniente dall'esterno.

"Idiota", bofonchiai.

Si voltò di scatto. "Ah! Ho forse sentito una parola?".

Lo uccisi con lo sguardo. "Non ho detto nulla".

Fece spallucce, inviandomi uno sguardo d'intesa. "Sarà stato il vento".

Poi riprese a camminare verso la finestra.

Attraverso i vetri opachi l'alba si annunciava in colori sempre più sgargianti, simili a quelli dell'ambra.

L'ombra di Stephen si scagliava maestosa in obliquo, il suo profilo, illuminato di traverso in un gioco di ombre, rifletteva la sua urgenza. Un movimento della sua gamba tranciò di netto il fascio luminoso, allargandolo in cerchi sempre più grandi sul pavimento di pietra. Si sentii il frastuono dei vetri che si infransero, volando aldilà delle sue spalle; le sbarre si erano piegate verso l'esterno ma avevano mantenuto la stessa distanza. Non sarei riuscita a oltrepassarle neanche se avessi trattenuto il respiro.

"Ci uccideranno", la mia voce tremò nonostante avessi impiegato ogni grammo della mia forza per mantenere saldi i nervi.

"No, che non lo faranno".

Un colpo sulla porta ci fece sussultare. Senza ombra di dubbio dall'altra parte qualcuno stava cercando di abbatterla.

"Quanto credi impiegheranno ad aprire quella porta?".

"Per come l'ho bloccata, direi ad occhio e croce un'oretta".

Si voltò a studiare la mia espressione, valutando gli effetti che la sua rassicurazione stava avendo sul mio volto.

Trasalii quando un altro tonfo fece vibrare l'intero telaio della porta.

"Perché non sono scappati?", mormorai. "Sanno che ho violato il patto parlandone con te. Ed ora anche Alex sa tutto. Cosa li tiene qua? Dovrebbero fuggire, non credi?".

"Come puoi essere così ingenua?", la voce di Stephen rimbombò nella piccola cantina. "Non è tanto il fatto che tu abbia raccontato tutto a me. Non sono affatto spaventati da quello, che io sappia. E' un altro motivo che li tiene qua".

Si accucciò per afferrare un palo e lo infilò tra due grate, cercando di allargarle facendo pressione. Al secondo tentativo riprese il discorso da dove lo aveva interrotto.

"Non ti rendi conto che stanno giocando con la tua ingenuità? Quella minaccia è priva di fondamenta, come ne è priva ogni tua accusa nei loro confronti. Davanti ad un giudice, le tue accuse morirebbero. Senza uno straccio di prova, un bravo avvocato ti farebbe a pezzi e prenderebbe per falsa la tua testimonianza. Potresti addirittura essere denunciata per calunnia".

"Quindi per tutti questi anni mi sono tenuta dentro questo dolore per niente?".

Stephen incastrò il palo tra altre due grate, prese un forte respiro e spinse, strizzando gli occhi per la fatica.

"Diciamo che...", ansimò, sotto sforzo, "...il loro intento... ", ansimò ancora, "... era quello di proteggersi da varie tue vendette". Con un ultimo strattone allargò le grate di quasi una spanna. "Mettendoti paura sapevano che, oltre a non correre dalla polizia quando sul tuo corpo erano evidenti i segni della violenza, non avresti cercato di far loro rimpiangere di essere nati".

Il suo ragionamento era così logico che mi era impossibile metterlo in dubbio.

"Vedi, amore mio, il tuo piano li ha senz'altro colti di sorpresa perché di certo non si aspettavano un tale folle coraggio da parte tua. Non dopo otto anni perlomeno. Ma, per quanto diabolico e studiato nei dettagli, il tuo piano era pieno di falle. Perché la vendetta esige vendetta".

Lo fissai, in silenzio. Non capivo dove volesse arrivare.

"Credi davvero che il padre di Alex ora non ti voglia morta? Credi davvero non voglia vendicarsi dal momento che hai tentato di far del male a sua figlia? E credi che gli altri, ad esclusione del bastardo che chiamo padre, non lo aiuteranno a vendicarsi in cambio di essere perdonati?".

Lo fissai ancora. "Ma allora perché, sapendo che non avevo prove contro di loro, quando siete arrivati tu e Alex non si sono interrotti? Perché non sono scappati mandando a monte il mio piano?".

Stephen abbassò lo sguardo, interrompendo il suo lavoro alla finestra. Sembrava sentirsi a disagio.

"Sono certo che sulle prime mio padre abbia voluto assecondarti per timore che tu mi svelassi che lui era uno dei quattro che ti hanno violentata. Suppongo abbia dovuto faticare parecchio per convincere gli altri due pezzi di merda ad appoggiare il tuo piano". Inspirò e lasciò andare il respiro lentamente. Quando parlò, il suo tono si era abbassato di parecchi toni. "Voglio che tu sappia che non giustifico mio padre e che non lo difenderò in alcun modo. Uscito di qui voglio essere io personalmente a denunciarlo per averti fatto del male".

"Ti rendi conto che se io e te ci sposeremo sarò imparentata anche con tuo padre? Andrà a finire che dovrò dividere la tavola con lui il giorno del Ringraziamento". Cercai di scherzare per cacciare dalla sua testa ogni possibile senso di colpa. Non era colpa sua se suo padre era l'uomo che era.

Stephen scoppiò a ridere. "Prima di tutto mio padre marcirà in prigione, quindi non sarai costretta a fargli un regalo a Natale o a mangiare lenticchie e tacchino la sera della vigilia insieme a lui. Secondo, amore mio e unica mia ragione di disgrazia, potresti sforzarti di essere un po' più tradizionalista e aspettare che sia io a chiederti di sposarmi?".

Spalancai la bocca, presa in contro piede. "Ma io non intendevo... ti giuro che...".

La sua risata mi fece arrossire. "Ssshhhh, fossi in te non aggiungerei altro. Hai la tendenza a commettere gaffe quando sei nervosa". Infine tornò serio. "E per rispondere alla tua domanda di prima...".

"Ah già!", esclamai, felice di poter cambiare discorso. "Secondo te perché non sono scappati quando sei arrivato con Alex?".

Stephen piegò le labbra in un ghigno, infilò la mano in tasca e ne estrasse il cellulare. "Per questo".

Poi azionò un tasto e partì un file video in cui si vedeva chiaramente come suo padre e gli altri due avevano picchiato il professor Norton e tentato di molestarne la figlia.

"Li hai registrati?", sbottai tra il sorpreso e l'inorridito.

Mise via il cellulare e tornò ad occuparsi delle grate. "Quando sei arrivata –e santo cielo se ce ne hai messo ad arrivare- avevo appena mostrato loro il video. Alex era in confusione. Sapendo poco o niente della vicenda non capiva perché io non facessi nulla per fermare mio padre e gli altri due. Poi tu hai fatto il tuo ingresso trionfale e mi complimento perché non sembrava affatto che ti stessi cagando addosso dalla paura. Ma a quel punto il tuo piano era già andato a monte. Nessuno di loro tentava di scappare, è vero, ma di certo non perché erano decisi a portare avanti il tuo ordine. In realtà loro aspettavano una MIA decisione. Ma prima di dire qualunque cosa volevo che ti rendessi conto dell'errore che avevi commesso coinvolgendo quella ragazzina innocente".

"E' per questo che, sapendo ciò che ero intenzionata a fare, non hai interferito nel mio piano? Volevi che vedessi con i miei occhi ciò che per causa mia stava per accadere a quella ragazzina?".

"Anche. Ma in realtà la vera risposta è sempre in questo video. Vedi, dopo tanti anni nessun giudice...".

Un colpo fortissimo alla porta coprì le sue seguenti parole. Il legno si scheggiò e una cerniera cedette, creando un minuscolo varco nella parete.

Stephen lasciò cadere il palo e il rumore si propagò in un eco.

"Non abbiamo più tempo. La porta cederà. Vieni qui e prova a infilarti tra le grate".

Mi avvicinai lentamente, incerta su ciò che volevo davvero fare. Uscire da lì era la prospettiva che più mi piaceva ma lasciare Stephen dentro questa cantina era intollerabile.

"Stephen, non credo di poterlo fare".

"Per la puttana, Micol!!! Vuoi uscire di qui con le buone o con le cattive?".

Affrettai il passo e mi piazzai davanti alla finestra. L'aria calda all'esterno era un piacevole contrasto con l'umidità della cantina. I colpi sulla porta aumentarono. Dalla parte opposta si distinguevano chiaramente le loro voci ma erano troppo basse per riuscire a capire cosa si stessero dicendo.

"Okay, dimmi quello che sai di difesa personale", domandò.

"Poco".

"Se dovessi essere fermata da uno di loro colpiscilo agli occhi. Okay?". Mi accarezzò i capelli e sospirò. L'ansia lo faceva parlare in fretta. "Colpisci con l'intento di uccidere. O lui o te! Non avere esitazioni... loro non ne avranno con te. Mi hai capito?".

Annuii e mi lasciai issare verso la finestra.

"Non posso lasciarti qui", tentai ancora.

Ovviamente mi ignorò. "Infila le gambe qua e mettiti di lato".

A parte qualche difficoltà a far passare in mezzo alle grate le spalle e la testa non fu difficile sgattaiolare fuori da lì.

Il sole era quasi completamente sorto e la strada cominciava ad essere percorsa da qualche macchina solitaria. Il giardino davanti casa di Alex era deserto, le luci delle stanze tutte spente.

Stephen si sporse contro la finestra, allungando un braccio verso di me per porgermi la falce. Gli afferrai la mano, incapace di scappare via nonostante la paura.

"Vai alla polizia, corri. Ci vediamo lì tra mezz'ora".

Scoppiai in lacrime. "Sei lì dentro per colpa mia. Io sono libera e tu sei lì dentro".

"Micol?".

Tirai su col naso. "Dimmi".

"Non aver paura perché io non ne ho. Via ora, vattene prima che ti vedano".

"Tra mezz'ora alla polizia?".

Mi sorrise. Un sorriso autentico.

"Tra mezz'ora", confermò.

Mi accucciai, fiondandomi disperata sulla sua bocca. Era morbida, sicura ed esperta come sempre.

L'attimo successivo stavo correndo attraverso il giardino, in direzione della strada, puntando verso un qualunque segnale di vita che avrebbe finalmente spazzato via quell'incubo.


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