ADESSO SEI MIA

Quando uscii nel parcheggio non trovai Stephen come invece mi aspettavo, dal momento che mi aveva accompagnata con la sua macchina. Mi infilai il grembiule sotto l'ascella e irritata afferrai il cellulare per chiamare un taxi. Era assurdo pensare che mi avesse lasciata a piedi per evitare di spiegarmi cosa avesse detto al mio capo.

Stavo per comporre il numero quando mi sentii chiamare da Robert. Dalla finestra del suo ufficio mi stava facendo segno col braccio di aspettare. Riposi il cellulare e un attimo dopo la porta sul retro si spalancò. Nel buio non vidi la sua espressione ma dal tono capii che era furioso.

"Che ti è saltato in mente di uscirtene da sola?". Mi strattonò per un gomito, trascinandomi lungo il parcheggio. "E' l'una di notte, potevi aspettarmi, no?".

Era la prima volta che mi sgridava perciò mi ritrovai a balbettare, sorpresa dalla reazione. Uscivo da sola tutte le sere. Cos'era cambiato?

"Aspettavo Stephen. Ero certa che sarebbe passato a prendermi".

"Stephen avrà avuto da fare", disse brusco e mi lasciò andare.

Mi accorsi un po' in ritardo che mi aveva trascinata davanti all'auto del cuoco, già seduto al posto di guida. Mi aprì la portiera guardandosi attorno con circospezione e praticamente mi scaraventò dentro.

"Aspetta...", protestai. "Che sta succedendo? Perché Stephen non è qui".

Robert si sporse nell'abitacolo, sdraiandosi quasi sulle mie ginocchia per guardare bene in faccia il cuoco.

"Portala dritta a casa", si raccomandò.

"Agli ordini capo", lo canzonò, facendo il saluto militare. Poi avviò il motore e Robert sbatté la portiera.

Mi voltai verso il cuoco, ancora confusa. "Tu lo sai che sta succedendo?".

"Certo che no". Chissà perché lo dava per scontato? "Robert mi ha detto solo di portarti a casa, nulla di più".

Mi accasciai sul sedile. Stavo cominciando a insospettirmi. "Non è che potresti portarmi a casa del mio fidanzato?".

Per un momento apparve dubbioso.

"Andiamo, cuoco", mi lamentai.

"D'accordo. Non mi ha dato divieti su questo. Ma se perdo il posto è colpa tua".

"Non glielo diremo", cospirai, soddisfatta.

Con una brusca manovra invertì il senso di marcia e si infilò nell'autostrada. Quando parcheggiò sul ciglio del marciapiede attese che attraversassi la strada e suonassi il campanello – per la verità avevo finto di farlo perché erano quasi le due del mattino- prima di ripartire. Era tutto molto strano. Troppo strano per non voler indagare. E ora Stephen avrebbe dovuto darmi delle risposte.

Feci il giro della casa e raccolsi alcuni sassolini che scagliai contro il vetro della finestra della sua camera. Picchiettavo impaziente la punta della scarpa sull'erba, contando lentamente i secondi tra un lancio e l'altro. Poi finalmente la luce si accese e dopo pochi attimi Stephen si affacciò con un'espressione irritata stampata sul volto.

"Lo sai che ore sono, ragazzina?", parlò a voce alta. "Entra dal retro. E' aperto".

Socchiusi piano la porta, girando cauta la maniglia e puntai immediatamente le scale, camminando in punta di piedi.

Entrare in camera sua fu come mettere piede tra le pagine di una rivista di arredamento. Era cambiato tutto, non c'era più niente di quello che ricordavo. I poster dei Simpson erano stati sostituiti da un'alta libreria di metallo, accanto alla scrivania c'era un grande impianto stereo e dalla parte opposta del letto a due piazze c'era un tavolino rotondo e un divano di stoffa bianca, che si abbinava alle tende della finestra e al copriletto di raso. Più che una camera da letto sembrava un salotto. C'erano un sacco di libri infilati nei ripiani della libreria e un computer portatile sulla scrivania che faceva sembrare il mio un vecchio oggetto di antiquariato. Mi guardai attorno intimidita fino a quando la sagoma di Stephen accanto alla finestra attirò la mia attenzione.

Smisi di respirare per qualche secondo. Era bello come quei modelli di Versace che si vedevano in televisione negli spot dei profumi. Appena si accorse della mia presenza si voltò e attraversò la stanza. Ad ogni passo il suo volto veniva illuminato dai fasci di luce arancio che filtravano dalla finestra.

"Ciao", mi alitò contro, molto più rilassato di me, posando poi le labbra sulla mia fronte.

Deglutii. O almeno ci provai. "Ciao".

Avevo completamente dimenticato il motivo per cui avevo chiesto al cuoco di accompagnarmi in questa casa alle due del mattino. Non riuscivo più nemmeno a ragionare. Me ne stavo irrigidita e impacciata, riempiendomi gli occhi di Stephen. Era molto diverso che stare in camera mia. La pelle cominciò a bruciarmi, la salivazione aumentò. Stavo per avere un vero e proprio attacco di panico.

"Perché sei venuta qui?", parlò piano, tornando a mettersi accanto alla finestra. Guardava fuori ma lo sguardo era assente.

"Mi sono preoccupata quando non ti ho visto".

"Mi dispiace", sorrise per scusarsi. "Sarei passato domani mattina da te per accertarmi che stessi bene".

"Perché non sei venuto?". Mi era tornata la voce accusatoria. Dovevo calmarmi.

Il suo sguardo scompigliò i miei pensieri. "Il signor Robert non ti ha detto niente?".

Scossi la testa lentamente. "No".

Roteò gli occhi. "Chissà perché me lo aspettavo. Anne è stata poco bene, così insieme a Trevis l'ho accompagnata al pronto soccorso. Quando mi sono ricordato che eri senza la tua auto ho chiamato Robert e gli ho fatto promettere che ti avrebbe accompagnata a casa".

Lo fissai stranita. Non mi aspettavo nulla del genere. "Tutto qui?".

"Perché? Hai altre domande?".

Si mosse nella stanza con una grazia inquietante. La sua perfezione mi intimidiva. Mi faceva sentire sciapa e inferiore.

"Giusto un'altra", dissi svelta.

Sollevò un sopracciglio. "Ovviamente".

"Cosa dovevi dire al sig. Robert?".

Sbuffò, irrigidendosi in mezzo alla stanza. "Micol, ti stai fasciando la testa inutilmente. Datti una calmata. Ho solo pensato che se non voglio rischiare di diventare pazzo ogni volta che non ti ho accanto è molto meglio accertarmi che qualcun altro al posto mio ti tenga d'occhio".

"Quindi gli hai solo detto di non lasciarmi tornare a casa da sola?".

"In un certo qual senso", fece spallucce. "Cosa credevi?".

Scrollai la testa, sentendomi improvvisamente stupida.

Mi si avvicinò. "Dimmelo".

"Ero solo preoccupata che tu avessi potuto raccontargli...

qualcosa". Mi pentii all'istante di averlo anche solo pensato.

Stephen affinò lo sguardo su di me. "E' dunque questo? Non ti fidi di me!". Non era una domanda.

"Ho difficoltà a fidarmi quando c'è in ballo la vita di qualcuno".

"Non ti fidi di me!". Il tono che usò mi convinse ad alzare lo sguardo: era offeso ma la rabbia che temevo lo sfiorava solo in parte.

"Sì, invece", mormorai, arrossendo per i sensi di colpa. Ed era vero. Mi fidavo di lui più che di me stessa.

"Gli ho chiesto gentilmente di scambiarti i turni con qualcun altro, in modo che non dovessi uscire sempre a notte fonda", parlava fissando il vuoto nella stanza. Era difficile intuire cosa gli stesse passando per la testa. "Mi rendo conto che il mio concetto di protezione per quanto ti riguarda è un po' eccessivo. Non avrei dovuto interferire col tuo lavoro ma era l'unico modo che avevo per tenerti d'occhio".

"Grazie", commentai.

"L'ho fatto perché ti amo, non devi ringraziarmi".

Mi avvicinai alla finestra e lo baciai sulla spalla nuda. "Sono tante le cose che fai per me. Ti ho stravolto la vita".

Fece uno di quei suoi sorrisi sghembi. "Non sai quanto".

"Non intendevo questo. Prima di conoscere me non correvi pericoli".

"Nemmeno ora".

Tutto ad un tratto però mi parve rassegnato. Si voltò verso di me e si chinò in avanti per posare la fronte sul mio collo.

"Micol?", mi chiamò, tormentato. "Devo dirti una cosa e non ti piacerà".

"Dimmi".

Gli accarezzai i capelli, attorcigliandomi una ciocca al dito. Il suo alito mi accarezzava la clavicola.

"Ho riconosciuto quel tale che ti stava minacciando nel parcheggio".

Bloccai la mano e la ciocca dei suoi capelli mi scivolò fuori dalle dita.

"E' un vecchio amico di mio padre", chiarì.

Mi sentii impallidire. La stanza cominciò ad ondeggiare.

"Ne sei certo?", riuscii a dire.

"L'ho visto parecchie volte negli ultimi mesi, da quando mio padre è tornato a Port Angeles". Sollevò lo sguardo. Nell'oscurità della stanza brillò come un lampo. "E' molto amico anche del padre di Alex, il nostro vecchio professore".

Mi fissò a lungo, cercando di comunicarmi qualcosa che finsi di non capire.

"Davvero?", balbettai, fingendomi stupita. Stavo tremando.

Mi afferrò per le spalle, urgente. "Micol ti prego, ti prego, ti prego, dammi il permesso di parlarne con mio padre. Devo metterlo in guardia... devo... fare qualcosa. Per aiutarti" .

Lo fissai gelida. "Mettere in pericolo tuo padre non è aiutarmi".

Vidi i muscoli della sua mascella tendersi solo al pensarci. Ora che non era più il solo a rischiare aveva cominciato a dare il giusto peso a quella vecchia minaccia: chi sapeva, moriva. Vero o falso che fosse, fino a che punto poteva essere disposto a rischiare?

"Vorrei che anche uno solo di loro fosse qui, proprio in questo momento." La brama selvaggia di vendetta e furia nella sua voce mi fece rabbrividire. "Mi basterebbe anche per pochi secondi".

"Calmati, Stephen. Per favore, sveglierai tuo padre".

"Così forse lo conosceresti una buona volta. E' assurdo che voi due non vi siate mai incontrati".

"Non voglio che lo coinvolgi. Andrà tutto bene, me lo sento".

"E come?". Intuii che stava per perdere la testa. "Il tuo ritorno li ha insospettiti. Pensano che sei tornata per parlarne e non ti lasceranno in pace fino a quando non potrai dimostrare che non hai raccontato nulla. E magari nemmeno in quel caso".

Continuai a guardarmi le mani. "Sì, è probabile".

"Allora forse...", indugiò, cercandomi con lo sguardo, "...potremmo andarcene. Via da qui. Sarà come se non fossi mai tornata".

Scossi la testa. "Non posso andarmene ora. C'è il rischio che pensino abbia raccontato tutto ai miei genitori. Non posso lasciarli da soli".

"Non c'è soluzione quindi?". Percepii nella sua voce il tono

tombale che per anni aveva caratterizzato la mia.

"Non c'è mai stata".

Restammo immobili al centro della stanza, in preda ad un'ansia così opprimente da impedirci di muoverci. Man mano che passavano i secondi sentivo il mio viso cambiare espressione e ritornare spento.

"Sono io la soluzione". La sua voce frustò il silenzio.

"No!!!". Scossi la testa. "Non ci pensare neanche".

"Stammi a sentire, Micol...".

"No", lo interruppi.

"Se io dicessi a quel tale che so, tutta la loro attenzione si riverserebbe su di me. Tu te ne potresti andare, fingendo di aver troppo timore a vivere in questa città e io ti raggiungerei dopo qualche settimana".

"No", alzai la voce. "Ti uccideranno".

"So difendermi molto bene". Sprizzava tranquillità e sicurezza da tutti i pori. Non sembrava nemmeno voler prendere in considerazione l'idea che avrebbe potuto avere la peggio.

"Anche loro. Troveremo un'alternativa".

"Non ci sono alternative".

Cercai di mantenere un po' di calma almeno nel tono. "Può esserci un altro modo per risolvere la cosa".

"D'accordo", allargò le braccia. "Quale?".

"Ora non lo so", mentii. Nella testa il mio piano martellava, pronto ad uscire.

"Raccontarlo a qualcuno è l'unico modo per proteggerti", rigirò le carte. "Ed ora sappiamo il nome, sappiamo che è amico di mio padre e del padre di Alex. Possiamo tenerlo d'occhio".

Era un'idea che non avevo mai voluto prendere in considerazione. E non avevo intenzione di farlo proprio ora che l'unico a sapere cosa mi era successo era proprio lui.

Fui costretta a riordinare i miei pensieri. Dirgli del mio piano non era una soluzione, perché mai e poi mai mi avrebbe permesso di metterlo in atto. Inoltre, avevo l'impressione di metterlo in pericolo ogni volta che aprivo bocca. Sapevo che ricordava benissimo le parole che gli avevo confidato la sera prima. Attendeva solo che fossi io a tirare fuori il discorso, rivelandogli il vero motivo per il quale ero tornata. Ma il silenzio era l'unica carta che mi restava per impedirgli di fingersi da esca e far scappare me. Non potevo bruciarla.

"Non farmi pentire di averti raccontato tutto". Pronunciai ogni parola con rabbia, con lo schifosissimo scopo di ferirlo, in modo tale da sviarlo su altro.

Ci riuscii.

"Non è quello che voglio", sussurrò, guardandomi tormentato. E poi riprese a parlare a raffica. "Quello che desidero è che per almeno una volta tu faccia quello che ti dico io. Che provi almeno a fidarti di me".

Gli presi la mano e me la portai alla guancia, guidandola poi lungo il collo in una lenta carezza. "Se non mi fidassi di te non sarei qui".

Si sforzò di non sorridere. "Stai cercando di distrarmi o di sedurmi?".

"Sciocco! Vorrei solo che potessimo starcene un po' noi due da soli. Senza pensieri o brutti ricordi. Vorrei ricordarmi cosa si prova a stare in pace".

Inspirò profondo e poi lasciò il respiro con calma. Mi acciuffò il volto, tenendolo stretto tra le mani, e lo avvicinò al suo. Sulle prime pensai che stesse per baciarmi, ma immediatamente pronunciò il mio nome, dolce:

"Micol... se solo fossi in grado di amarti un po' di meno non rischierei la follia ogni istante delle mie giornate".

Il cuore mi si fermò un attimo e riprese ad andare più veloce. Forse perché era la seconda volta che lo sentivo dirmi che mi amava o forse per via del fatto che si era chinato per darmi il bacio che stavo aspettando. Fu un bacio diverso, che partì lento per poi crescere pian piano. Le sue labbra, sigillate alle mie, avevano perso quell'autocontrollo che aveva imparato a gestire molto bene. Erano diventate impazienti e affamate.

Feci scivolare il braccio attorno alla sua nuca e lo strinsi a me.

"Io mi fido di te", scandii lentamente, appena si staccò di qualche centimetro.

"Fino a che punto?", sondò.

"Mi fido ciecamente". Avevo risposto in fretta. Troppo in fretta.

Riecco il sorriso.

"Perciò ora...", scivolò alle mie spalle, posando le labbra sulla mia clavicola, "...se ti lecco in questo punto non scapperai?".

Feci segno di no e la sua lingua si mosse lungo la mia spalla, lenta e calcolata. Poi si staccò per qualche attimo. Rimasi in attesa nel silenzio, rotto solo da qualche piccolo rumore che non mi aiutava a presagire la piega che stava prendendo la situazione. Mi voltai di fronte a lui per capire cosa stesse facendo. Lo trovai nudo dalla vita in su, la muscolatura asciutta scolpita dalla luce dei lampioni che filtrava attraverso le persiane.

"Perché ti sei spogliato? Che intenzioni hai?", chiesi, sospettosa.

"Ho intenzione di fare l'amore con te".

"No", boccheggiai, indietreggiando.

Lui compensò il mio movimento facendo due lenti passi avanti.

"Oh si", disse in tono strascicato. Lo sguardo urgente mi faceva capire chiaramente che questa volta non si sarebbe fermato.

Lo squadrai da capo a piedi mentre adagio si avvicinava ancora, sbottonandosi i jeans. Distogliere lo sguardo dal suo petto era impossibile. Non avevo mai visto niente di altrettanto bello.

I suoi occhi danzarono come lampi e incrociarono i miei. "Sto per toccarti come non ho mai fatto prima".

Cominciai a tremare e mi strinsi le mani al seno. "Non credo di essere pronta".

"Può darsi", convenne con un ghigno.

L'urgenza che vidi nella sua espressione era terrorizzante ed eccitante allo stesso tempo.

"Se ti avvicini mi metto a urlare".

Stephen scosse la testa, piano, sicuro come sempre: "No, non lo farai".

Infine mi raggiunse, bloccandomi di schiena contro la porta. Chiusi gli occhi, nel panico. Li strizzai tanto da veder comparire nel buio un milione di puntini bianchi. La testa mi girava, ma non lo fermai.

Mi posò due dita sul collo e le fece scorrere fino alla gola, in mezzo ai miei seni, verso l'ombelico. Pensai che si sarebbe fermato ma invece proseguì. Spalancai gli occhi e mi morsi il labbro, sentendomi imprigionata tra desideri che lottavano tra di loro per prevaricare l'uno sull'altro. Non volevo lasciar vincere il mio desiderio di scappare proprio mentre le dita di Stephen avanzavano lente, centimetro dopo centimetro, fino a sistemarsi in mezzo alle mie cosce. Ma era così difficile lasciare che la paura si sottomettesse alla passione!

Sulle prime la sua mano rimase immobile. Nonostante la stoffa dei pantaloni sentivo il calore della sua pelle e i piccoli movimenti dei polpastrelli, smaniosi di toccarmi più a fondo.

Dal mugugno rauco e profondo che sfuggì a Stephen capii che il suo autocontrollo era già al limite. Faceva leva sulla mia paura per trattenere la sua voglia e per procedere cauto, fingendo di avere la situazione sotto controllo e illudendosi che la passione che leggevo nel suo sguardo non lo smascherasse.

E poi di colpo tolse la mano.

"Posso andarmene?", chiesi, ma la mia voce tradì la calma che ostentavo. Tremavo sotto la consapevolezza che non avevo modo di oppormi a ciò che voleva farmi.

"Credi che ti lascerò scappare senza prima averti assaggiata?".

E sulla clavicola, al posto delle sue dita avvertii le sue labbra. Una sensazione umida tracciò un percorso fino alla mia bocca, trasformandosi in un bacio che sapeva di possesso. Non c'era dolcezza nei movimenti della sua lingua mentre guizzava attorno alla mia, invogliandola a seguirne i gesti e a partecipare. Mi dimenai in un ultimo disperato tentativo di protesta ma fu tutto inutile. Le sue braccia mi tenevano immobilizzata.

"Hai un odore buonissimo", commentò, immergendo il volto tra alcune ciocche.

"Il mio odore non ti riguarda".

Stephen si lasciò sfuggire un ghigno e, come volesse punire la mia insolenza, premette una mano sul mio seno, muovendo il pollice in cerchio. Delle scariche elettriche si sprigionarono dentro il mio ventre, dimenandosi per esplodere. La paura le teneva a bada, come un getto d'acqua su un fuoco che smania per trasformarsi in incendio. Eppure, ad ogni movimento del suo pollice sentivo le ginocchia piegarsi, incapaci di reggere il mio peso.

Percependo la mia debolezza, Stephen mi schiacciò con più forza contro la parete e infilò un ginocchio tra le mie gambe, senza però smettere di toccarmi. Il suo autocontrollo era ammirevole e vacillò solo quando involontariamente mi strusciai sulla sua coscia. Lo vidi posare la fronte sulla parete e stringere i denti.

"Oh si, amore, urlerai. Ma di certo non lo farai per la paura", ansimò sulla mia lingua. Il suo alito era come una droga che mi faceva girare la testa.

Lo fissai. Ero abbastanza certa di avere lo sguardo confuso e tormentato. Sbattei le palpebre per mettere a fuoco il suo volto meraviglioso, appena visibile nella penombra, pensando velocemente a come sconfiggere ogni rimasuglio di paura. Il mio cervello lavorava frenetico, simile ad un computer per gli esami del DNA, mentre aspettavo rassegnata che la marea di dolore e repulsione mi affogasse.

"Stephen, ti prego", boccheggiai, premendomi ancora contro la sua coscia per alleviare la tensione.

"Ti prego cosa?", mormorò, divertito da qualcosa.

Scossi la testa. "Non lo so...".

"Potrebbe esserci la mia mano al posto della coscia, lo sai?", mi stuzzicò, implacabile. "Oppure potrebbe esserci questo", aggiunse, afferrandomi un polso.

Sulle prime non capii cosa volesse fare, finché non si posizionò la mia mano sopra i jeans sbottonati.

Fu a quel punto che lo avvertii: il suo rigido bisogno che mi premeva sulle dita e pulsava ad ogni mio più impercettibile movimento. Era sconvolgentemente perfetto.

"Voglio scivolarti dentro", ansimò, rauco, baciandomi l'angolo della bocca. "Spingermi fino in fondo", aggiunse, succhiandomi il mento. "Voglio entrare dentro di te e mostrarti che non c'è nulla di doloroso e spaventoso nell'amore", terminò, leccandomi dietro l'orecchio.

E in quel preciso istante cedetti. Mi accasciai contro il suo petto, aggrappandomi alle spalle per non scivolare a terra e premetti la bocca sul suo petto, gustando il sapore della sua pelle, deliziandomi del suo sudore. In risposta lui emise un basso gemito di puro desiderio che mi infuocò.

"Se hai intenzione di dirmi di no fallo ora, perché quando ti avrò nuda sotto le mie mani non mi fermerò", mi avvertì.

Annuii. Non potevo concedermi altro.

"Gioca con la tua fantasia", soffiò sulla mia lingua. "Fammi diventare il primo".

Annuii ancora. Gli occhi spalancati contro di lui mentre mi guidava verso il letto in un tumulto di baci e carezze. Sentii il materasso dietro i polpacci e mi irrigidii contro di lui, in attesa della sua prossima mossa.

"Ora cosa mi fai?", sussurrai.

"Ti spoglio", mi avvisò, prendendomi il viso a coppa tra le mani.

Ogni mio muscolo diventò pietra nel momento esatto che avvertii il tocco lieve delle sue dita lungo la schiena e poi sempre più su, verso la spallina della mia canottiera e di nuovo giù. Una sensazione di freddo mi colpì il seno, e immediatamente nella fiducia che riponevo in lui si andò a formare una crepa, come un mattone mancante che indebolisce l'intera costruzione.

"Sdraiati!", ordinò, avido, incoraggiandomi con un mezzo sorriso.

Provai a ricambiare il sorriso, poi corsi sopra il suo letto, tirandomi il lenzuolo fin sopra il mento. Era difficile staccare lo sguardo da lui mentre si toglieva le scarpe con un calcio e si sfilava i pantaloni.

Con una lentezza misurata, senza mai distogliere lo sguardo dai miei occhi, posò un ginocchio sopra il materasso, poi anche l'altro e infine entrambe le mani. Mentre avanzava con tutta calma verso di me, riempiendosi gli occhi del mio volto, sembrava una pantera che aveva appena puntato la sua preda.

Infine si sdraiò accanto a me, il mento posato sul palmo della mano mentre con l'altra tracciava un sentiero infuocato lungo il mio ventre, sempre più giù, verso il punto tra le gambe che mi pulsava.

"Accendi la luce", lo supplicai. "Voglio vedere che sei tu, sempre tu".

Allungò il braccio e la stanza si illuminò di un tenue color ocra. Mi sembrava di essere finita dentro un tramonto.

"Chiudi gli occhi, Micol. Entra nel nostro mondo ed esci dal tuo", bisbigliò al mio orecchio.

Il materasso oscillò, Stephen puntellò i gomiti nel cuscino, attorno alla mia testa e si girò fino ad sdraiarsi sopra di me. La sua pelle scottava, facendo sembrare la mia un blocco di ghiaccio. Il suo cuore batteva sopra il mio, unendosi in un unico singolo suono. I nostri respiri si mescolarono in un solo alito di vento che mi trascinò lontano dalla realtà. E finalmente chiusi gli occhi e sollevai le braccia sopra la mia testa per intrecciare le dita alle sue.

"Ho paura che dovrai dirmi quello che devo fare", mugugnai, di colpo mortificata.

Non c'era in lui alcuna traccia che potesse farmi credere non stesse apprezzando qualcosa in me, eppure non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto che in passato avesse avuto una ricca collezione di conquiste. Avevo la stupida paura di essere giudicata da un intenditore e di non essere all'altezza.

Avvertii il suo sorriso mentre mi baciava la fronte. "Non preoccuparti. Lascia fare a me".

La mortificazione aumentò.

"Scommetto che dopo riderai di me", gli alitai contro. Avrei voluto vedere la sua espressione. Sembrava accigliato, ma non potevo esserne certa. "Non so nemmeno se riuscirò ad andare fino in fondo".

Nessuna risposta. Si limitò a stringermi a sé, facendo aderire ogni lembo della nostra pelle. Sentivo il seno schiacciarsi contro il profilo snello e duro del suo petto. A quel punto ero davvero curiosa di vederlo in faccia. Mi sentii prendere dall'ansia.

Feci per parlare e lui fece altrettanto. "Questa è la nostra prima volta. Niente di ciò che è successo prima conta".

Le sue labbra ripresero a scorrere lentamente sulla mia guancia, fin giù sulla clavicola, e si fermarono.

"Zitta ora! E chiudi gli occhi", mosse la bocca contro la mia pelle.

Abbassai le palpebre.

Le baciò. "Ci siamo solo io e te".

Tirai un lungo respiro. Ma appena la sua mano si posò sul mio ginocchio, premendo dolcemente per spostarlo e divaricarmi le gambe, gettai fuori l'aria in un gemito.

"Respira", sussurrò piano.

Ci provai. Una, due volte... tre. Il fiato rimase sospeso in fondo alla gola quando infilò le dita di una mano tra i miei capelli e mosse lentamente l'altra lungo il mio fianco.

"Ho paura".

"Lo so".

Una lacrima rimase incastrata nelle mie ciglia. "Avrò sempre paura".

"Non di me".

"Stephen?". La voce mi tremava.

Cercò di scherzare. "Hai gli occhi aperti!?".

Li richiusi. Digrignavo i denti per il terrore, immobilizzata dal collo in giù. Respiravo appena. Di sicuro non pensavo.

Le sue braccia mi strinsero di più, non potevo muovermi neanche di un millimetro. Ero imprigionata. Non avevo scampo. Strizzai gli occhi, ripetendo che era Stephen. Io e lui, e basta. Non c'era nessun'altro sopra di me. Solo Stephen.

Le sue dita tornarono ad afferrarmi il ginocchio e questa volta lo lasciai fare. Si portò la mia gamba sopra al fianco e immediatamente le sue dita si spostarono sul mio ventre, puntando il punto tra le mie cosce che sentivo bruciare. Ero annientata, divisa in due tra paura e desiderio. Se da una parte il mio corpo si sottometteva a ogni sua carezza, bagnandosi e scaldandosi, dall'altra il mio cervello restava sul chi va là, urlando per difendersi da quelle dita, grosse e implacabili, che cercavano dentro di me una passione che non avrei mai potuto concedergli.

Fu a quel punto che mi sentii menomata come donna, incapace di reggere il confronto. Non sarei mai potuta essere come le altre ragazze. Sarei rimasta sempre un passo indietro, inciampando ogni volta che Stephen avesse desiderato fare l'amore con me.

"Sei così bagnata", ansimò.

"E'... è un bene, vero?".

Le sue labbra vibrarono sulla mia clavicola in una risata. "Sì, amore mio, è un bene. Significa che sei pronta".

"Per cosa?".

"Per me", ansimò, sollevandosi un poco per premere la punta della sua erezione sulla mia apertura.

Appena lo sentii strusciarsi sulla mia carne contrassi i muscoli pelvici e per reazione lo sentii pulsare e guadagnare qualche centimetro.

Il panico arrivò tutto d'un colpo, colpendomi alla bocca dello stomaco, ma lui non lo avvertì. Teneva la mascella contratta, la fronte corrugata in un'espressione quasi sofferente.

"Micol, amore, sto per entrare dentro di te. Lo sai, vero?".

Mi aggrappai alle sue spalle, cingendogli la vita con le gambe e rassegnandomi al peggio. "Sì".

Sulle braccia di Stephen spuntavano in evidenza i nervi, tesi nello sforzo di trattenersi. Percepii un mutamento nel suo respiro, come se si fosse fermato per un secondo, e quando tornò normale, spinse i fianchi in avanti, con più forza, avanzando ancora qualche centimetro dentro di me.

"Ti faccio male?", ansimò.

La pressione in mezzo alle mie gambe non faceva male, c'era solo calore e pienezza. Negai quindi con un movimento della testa per poi nasconderla nell'incavo del suo collo. Era sudato e caldo. Ci passai la lingua, spinta dalla curiosità di sentire per la prima volta il sapore di un uomo nella mia bocca e lui interpretò il mio gesto come un invito. Si ritrasse lentamente e poi spinse con un po' più di forza, guadagnando altro terreno dentro di me. Pochi centimetri, ma bastarono a farmi sentire invasa. Un moto di protesta si mosse dentro di me, spingendo le mie gambe a chiudersi. Ma Stephen le tenne ferme, imprigionandole sotto le sue caviglie.

"No", mi ammonì, dolce, facendo schioccare la lingua per tre volte e inviandomi un sorriso sghembo.

Nonostante la dolcezza nel suo sguardo, le sue mani si mossero autoritarie e senza incertezze mentre agguantavano le mie cosce per spalancarle di nuovo. In un'alternanza di terrore e desiderio mi ritrovai con le mani strette a pugno sul lenzuolo.

L'attimo seguente spinse i fianchi contro i miei, entrando completamente e con un unico colpo dentro di me.

"Mia", ringhiò in un affanno, restando fermo dentro di me per lasciarmi il tempo di accettarlo. "Adesso sei mia".

Con lentezza aprii un dito dopo l'altro, lasciando la presa sul lenzuolo e avvinghiai le braccia al suo torace, lasciando che la paura si dissolvesse nel piacere di quelle spinte, lente ma decise, che mi legavano a lui.

Sentivo il suo sguardo su di me, mi rassicurava, cullandomi in una dolce sensazione sempre più calma, sempre più serena. Fino ad annullare il dolore. Qualsiasi dolore. Regalandomi la libertà che avevo perduto da bambina e che per otto anni avevo sfiorato con la punta della dita, temendo che comunque, anche se fossi riuscita ad afferrarla, non sarebbe mai stata mia.

Ora sapevo che non ero affatto menomata. Non c'era niente che mi differenziasse dalle altre donne. Come ogni ragazza innamorata accoglievo dentro di me le spinte sempre più esigenti del suo membro dolorosamente turgido, che spingevano Stephen verso l'orgasmo e che accompagnavano me verso la libertà più grande: quella di essere felice!



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