ABBRACCI
Arrivai al Burgher King prima del sig. Robert perciò, non sapendo esattamente quello che dovevo fare, rimasi nascosta nel suo ufficio dove noi dipendenti lasciavamo i nostri oggetti personali –che nel mio caso era una borsa sportiva dove avevo infilato il ricambio per dopo- fino a quando vidi dalla finestra la sua Pontiac G5 fermarsi accanto all'auto di Giusy, arrivata insieme a lui. O più precisamente con lui. Mi suonava strano.
Li spiai mentre si scambiarono qualche parola che non potevo sentire e pregai che non stessero parlando di me. Anche se mi aveva ufficialmente assunta sapevo che era sua prerogativa cambiare idea e cacciarmi su due piedi.
Entrarono nell'ufficio insieme e smisero di parlare appena mi videro.
"Ciao Miol!", mi salutò Robert, facendo il giro della scrivania. Non riusciva a pronunciare bene il mio nome e si mangiava la "c". Poi osservò il suo orologio da polso. "Sei puntuale. Mi piaci, ragazza! Okay, ora tutti fuori di qui, devo fare la contabilità che ieri non ho potuto concludere!".
Io e Giusy ci allacciammo il grembiule e attraversammo il corridoio.
"Ci andrai alla festa di inizio estate?", mi chiese lei, un attimo prima che partissi verso un tavolo dove tre signori mi stavano chiamando.
"Devo!", roteai gli occhi.
"Ehi, frena l'entusiasmo".
"E' solo che devo un favore ad un amico, per questo ci vado."
Andrè, il cuoco, si avvicinò allo sportello di servizio con due piatti e mi strizzò l'occhio, agitando le folte sopracciglia ingrigite. Aveva la pelle così rugosa che quasi non gli vedevo gli occhi.
"Voi due!", ci chiamò. "Se vorreste rimandare a più tardi il vostro piccolo sproloquio sugli uomini in cui una dice all'altra quanto la razza maschile sia difficile da comprendere ma allo stesso indispensabile per farvi capire che non mi importa un cazzo di quello che state sproloquiando, avrei otto ordini qua sul banco. Spicciatevi!"
"Non siete inutili, siete solamente incapaci di comprendere quanto la vostra utilità rovini le nostre esistenze", protestò Giusy, ignorandolo poi con un gesto frettoloso della mano. Tornò a rivolgersi a me. "Che genere di favore?".
Finsi di non accorgermi del tono malizioso.
"Niente di esaltante. Un ballo... Devo andare da quei tre signori".
Mentre mi avvicinavo al tavolo, Giusy mi scoccò un'occhiata da cui capii che mi avrebbe fatto il terzo grado non appena ne avesse avuto l'occasione.
Quando finii il turno andai nell' ufficio del sig. Robert per prendere la sacca e corsi nel retro del locale, dove avevo parcheggiato la mia auto. Chiusi le sicure, abbassai il finestrino di mezzo centimetro, sprofondai il collo nel poggiatesta e mi sfilai le scarpe perché avevo i piedi distrutti. Mi erano rimasti solo cinque minuti per riposare perché avevo calcolato male la mia tabella di marcia.
Il parcheggio dei dipendenti era abbastanza isolato e lontano dalla strada, perciò sentivo solo qualche clacson in lontananza. Il pavimento ghiaiato era illuminato soltanto in un minuscolo punto dalle luci delle cucine.
Inspirai.... Ancora due minuti, pensai.
Un gatto fece rovesciare il coperchio di uno dei grandi bidoni neri dell'immondizia stracolmi di sacchetti e verdura marcia. Lo vidi sgattaiolare dietro l'angolo del locale, trasportando coi denti qualcosa che non riuscii a riconoscere per via del buio. Sbuffando, presi le chiavi da sopra il sedile del passeggero, avviai il motore e accesi i fanali.
E fu solo allora che mi accorsi della macchia grigia in lontananza, al limitare del bosco. Nel timore che fosse uno scherzo dei miei occhi sbattei le palpebre un paio di volte. A giudicare dalla forma non sembrava affatto un albero come avevo creduto all'inizio. Aguzzai lo sguardo, spaventata, e improvvisamente la macchia si trasformò nella sagoma di un uomo.
Posai il pugno chiuso sulla bocca per impedire all'urlo di uscire. Il sangue mi si ghiacciò nelle vene, il cuore sussultò perdendo qualche colpo e mi finì in gola, scontrandosi con l'urlo che a mala pena ero riuscita a trattenere.
Controllai le sicure. Erano chiuse.
L'ombra era sempre ferma lì. Immobile.
Senza pensarci troppo inserii la retro e puntai gli occhi sullo specchietto retrovisore; fu a quel punto che notai riflessa nello specchietto retrovisore una seconda sagoma, vicino al limitare del bosco, camuffata tra i tronchi degli alberi.
Il mio piede affondò brusco nel pedale dell'acceleratore e la macchina sobbalzò due volte sul posto, facendo ringhiare e poi spegnere il motore. Annaspai alla cieca cercando di rimettere in moto l'auto, tenendo gli occhi incollati sullo specchietto;
Il rombo del motore spezzò il silenzio, coprendo il canto delle cicale. Le mani mi tremavano così tanto che faticai a tenere fermo il volante mentre retrocedevo nel piazzale, slittando con le ruote sulla ghiaia. Oltrepassai la sagoma di un breve tratto, quasi decisa a ignorarla, ma poi mi fermai allo stop e diedi una sbirciata.
Non c'era più!
Quando raggiunsi la palestra stavo ancora singhiozzando. Mi asciugai le lacrime e il naso con la manica della maglia e mi tranquillizzai solo quando sbattei contro il banco della receptionist. C'era la stessa ragazza dell'altro giorno.
"Buonasera, Signorina Connor!", mi sorrise incerta, notando i miei occhi rossi. "Il tuo istruttore ti sta aspettando. Hai bisogno di cambiarti?".
"No, l'ho fatto a lavoro".
"Okay. Allora basta che vai in fondo alla sala. E' la seconda porta sulla sinistra".
Passai accanto a dei materassini leggeri posizionati a terra, oltrepassai le sbarre in legno e infilai la testa nella porta che mi era stata indicata.
L'allenatore mi dava le spalle ed era accucciato a terra, intendo a riordinare alcuni attrezzi. Li accatastava uno accanto all'altro per poi addossarli alla parete. Mi aveva sentita arrivare perché cominciò a parlare prima ancora che aprissi bocca.
"Arrivo subito!", farfugliò.
Gettò a lato un peso e balzò su agile.
"Eccomi qui". Si voltò sorridente verso di me. "Oh buon Dio!". Appena mi vide il sorriso svanì di colpo. Come il mio.
In seguito parlammo contemporaneamente:
"Tu sei il mio allenatore?".
"Tu sei la mia allieva?".
"Non ci posso credere!".
Stephen mi venne incontro, mettendo momentaneamente da parte l'espressione sorpresa. "Perché sei qui?".
Mi strinsi nelle spalle, allargando le braccia. "Il corso?".
"Già". Si passò una mano tra i capelli umidi di sudore.
"Non mi avevi detto di questo tuo secondo lavoro".
"Mi serve giusto per arrotondare. Lavoro qui qualche sera a settimana".
Gli allungai il volantino con stampato il mio orario.
"E a quanto pare una sera è dedicata a te", commentò acido mentre leggeva.
Aggrottai le sopracciglia. Questa sua reminescenza non aveva alcun senso per me. Pagavo come tutti gli iscritti, dov'era il problema?
"Non sembri contento".
"No, infatti". Si asciugò il sudore alla fronte. "Non prenderla a male, non dipende da te, ma... probabilmente c'è stato uno sbaglio in segreteria".
Si affrettò verso la porta tanto velocemente da urtarmi col braccio; mi ritrovai schiacciata contro la parete, con lo stomaco che sbatteva contro la spina dorsale. Quindi si bloccò di colpo per lanciarmi un'occhiata di scuse.
"Mi dispiace", la sua voce era densa di dispiacere. "Capisci, ora, dove sta l'errore?", cercò di giustificarsi, senza trovare il coraggio di guardarmi.
Mi massaggiai la spalla indolenzita e feci un passo in avanti, staccandomi dalla parete. Avevo il sospetto che fosse rimasto il calco della mia sagoma nell'intonaco, ma preferii non voltarmi per accertarmene.
"Io non sono un istruttore femminile. Non saprei davvero incanalare la mia forza e finirei col farti del male". Attraverso il suo imbarazzo capii che quella spiegazione suonava zoppicante alle sue stesse orecchie.
"La ragazza là fuori", indicai col pollice la porta, riferendomi chiaramente alla receptionist, "mi ha detto che ci sono un sacco di iscrizioni femminili da quando ci sei tu".
Ribolliva di disapprovazione, glielo si leggeva chiaramente in faccia.
"Le altre non sono te".
Stavo cominciando ad arrabbiarmi sul serio. "Che significa?".
"Fammi il favore, Micol", si spazientì, "non voglio neanche parlarne. Ora vado a vedere se riesco a sistemare le cose. Tu aspettami qui".
Mi aggrappai al suo braccio ma era come cercare di trattenere un camion in discesa. Mi aveva trascinata fin sotto la porta prima di accorgersi che ero appesa al suo polso.
"Scommetto che stai pensando che come donna sono troppo debole per riuscire ad allenarmi con te", brontolai.
"Non è questo il motivo".
"E allora qual è? Tu sei bravo. Me lo hanno confermato. Come mi hanno confermato che alleni praticamente solo donne. E infatti...", dimenai il volantino sotto il suo naso, "questo è un corso di autodifesa personale femminile".
"Ho detto di no."
"Scommetto che le altre le alleni senza tanti problemi. E che con loro non fai tutte queste storie", aggiunsi.
"Non voglio farti del male, okay?". La mia schiettezza a quanto pare era riuscito a farlo infuriare. "Non a te. Punto!".
Senza difficoltà si liberò dalla mia stretta e tornò ad accucciarsi sui pesi che stava riordinando.
"Non posso farlo, Micol", mormorò dopo un pò. "Non potrei sopportare di considerarti un avversario. Averti davanti e analizzare tutti i modi per ferirti... e ti garantisco che ne conosco molti. E' vero, alleno molte ragazze, ma come ti ho già detto loro non sono te. Inoltre...", continuò, voltando la testa di lato per inviarmi un'occhiata strana, "...sbaglio o non gradisci essere toccata da me?".
"E ora questo che centra?".
"Ho visto come hai reagito quando mi sono permesso di sfiorarti la schiena".
I suoi occhi si incatenarono ai miei, improvvisamente più scuri e sensuali. Sembravano provocatori e smaniosi di vedere i miei abbassarsi verso il pavimento.
"Se ti allenerò dovrò toccarti molte volte", il suo tono si era fatto sensuale come lo sguardo.
Fece un passo verso di me ma mi rifiutai di retrocedere.
"E dovrò toccarti in molti posti". Un altro passo avanti.
Arricciai le dita dei piedi per impedire alla mia scarpa di slittare indietro.
L'atmosfera nella stanza era diventata di colpo troppo intima e il motivo che mi aveva spinta ad entrare in quella palestra non aveva più alcun senso e men che meno un traguardo. Stephen aveva rovinato tutti i miei piani. Puff ... svaniti più velocemente di uno schiocco di dita.
"Troverò qualcun altro più ben disposto di te", ribattei in tono basso ma molto tagliente.
Poi gli voltai le spalle, riluttante ad ammettere perché ero tanto infuriata ma decisa comunque a fargli capire che lo ero. Non raggiunsi nemmeno la prima metà dell'ampia sala che mi riacciuffò e mi obbligò a tornare sui miei passi.
"Aspetta un momento. Lasciati guardare", mi ordinò. Abbandonata la rabbia, si era accorto che avevo gli occhi e il naso arrossato.
Mi fece scivolare seduta su un materassino accanto a lui, quindi incrociò le braccia, stiracchiò le gambe in avanti e posò la schiena sul muro. Stava vagliando le espressioni che si alternavano sul mio viso, in cerca di ciò che mi aveva turbato. Infine inclinò la testa per guardarmi meglio e aggrottò la fronte.
"Fammi un po' capire che succede".
Guardai davanti a me, ripensando mio malgrado a ciò che mi era appena accaduto, nauseata dall'improvviso attacco d'ansia in procinto di trasformarsi in orrore. Ma ero incapace di pensare, in balìa di alcuni flashback che si sovrapponevano in continuazione. Dopo di ché si allinearono in una sequenza calcolata di immagini, come lo storyboard di un film dell'orrore. Strizzai gli occhi, illudendomi così di far svanire le due ombre dalla mia mente, di poterle trasformare in un banalissimo sogno che avrei scordato il giorno seguente.
Le immagini ripresero a mescolarsi, seguendo tuttavia un filo logico: il parcheggio del Burgher King, il gatto che scompariva dietro l'angolo del locale, l'ombra riflessa nello specchietto, l'altra di fronte a me che si avvicinava, sempre di più, e ancora... e ancora...
E la molla scattò...
Spalancai gli occhi contro Stephen, incapace di contenere l'ansia. Sapevo a chi appartenevano quelle due ombre! L'avevo saputo fin dall'inizio.
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