V

Ci mettemmo otto ore per arrivare ad Oslo, in Norvegia. Attraversammo l'oceano Atlantico durante la notte e dormii per buona parte del tempo, se non tutto. Atterrammo a Bergen alle prime luci dell'alba, sulla sponda sud-ovest della regione, per fare rifornimento e ripartimmo alla volta del Folgefonna, ad Odda. Era una località sperduta tra le montagne che si affacciava sul fiordo laterale dello Hardangerfjord.

Era quasi un villaggio che sorgeva a strati tra le conche delle valli, le case erano minuscole, con tetti spioventi e rossi. Vedere le immense distese verdi, la moltitudine di alberi e di animali selvatici, come caprioli, capre ed orsi, che si aggiravano liberi tra i boschi, mi affascinò. Fino a quel momento avevo visto quel genere di animali sono allo zoo. Era tutto nuovo, tutto diverso e bello.

L'aria era pulita, fresca. Se non ci fossero state le industrie metallurgiche e il peschereccio pieno di pesce puzzolente, era il posto più vicino al cielo che ebbi mai visto. Dall'alto vidi pochissime persone passeggiare per la cittadina, c'era una strada principale su cui si trovava di tutto, dal piccolo fast food al supermercato locale, e a parte alcune macchine Odda dormiva ancora.

Ero esausto e avevo fame. Appena l'aereo atterrò su una pista asfaltata fuori città, un'auto nera venne a prelevarci e un altro Demone si fece vivo. Portava dei comuni vestiti da lavoro su cui c'erano delle macchie d'olio e aveva una targhetta con scritto "Karl". Sarebbe passato senza problemi come un umano se non fossero stati per gli occhiali da sole neri che nascondevano bulbi oculari vuoti.

In macchina, Azrael mi spiegò alcune cose sui Demoni, su fatto che avrei dovuto fare dei test per capire quanto fossi umano, se necessitassi di cure particolari o avessi delle allergie. Sotto quel punto di vista, glielo dissi, ero sano come un pesce. Capii che si riferisse ad altro e che fosse preoccupato: avevo vissuto per sedici anni in una metropoli piena di persone, avevo hobby e pensieri troppo comuni. I Demoni bevevano sangue per cibarsi e io, per mia fortuna, potevo farne a meno.

Mi assicurò che l'iperattività fosse comune nella loro razza, che i miei riflessi erano adatti agli scontri e la mia indole fosse continuamente all'erta. Ebbe una spiegazione persino per la dislessia: il mio cervello era sintonizzato sul canale sbagliato. Scrisse dei caratteri su un fogliettino di carta, metà cirillici e al rovescio, e riuscii a decifrarli senza alcun problema.

«Dovrai imparare a scriverli» disse.

«Devo proprio? Mi sento uno stupido.»

«È una scrittura un po' complicata. Tua madre si rifiuta di impararla, ecco perché non capisce niente quando le parlano nell'antica lingua.»

Mugugnai. «Capisco i test, ma ho lasciato la scuola per non dover imparare cose stupide e poi so già scrivere. Perché lei può farlo e io no?»

«Perché lei è una testarda. Tu, al contrario, sei anche figlio mio e non lascerò che i principi pensino di essere migliori di te. E poi mi piace dare ordini. Lo farai.» Accartocciò il foglio. Fu la sua miglior risposta secca sul fatto che dovessi stare zitto. «È una lingua molto tonale, si parla più di scriverla. Se la comprendi significa che sei portato a tramandarla. Quella angelica è impossibile da comporre, sono tutti ghirigori e puntini.»

«In letteratura avevo una media sufficiente» dissi e guardai fuori dal finestrino.

Stavamo percorrendo una stretta strada di montagna. C'erano molte buche e sentieri poco battuti, segno che ci stavamo addentrando nella vera natura norvegese.

«Io non voglio una media sufficiente» replicò serio. «Per quanto mi secchi ammetterlo, e sono il primo che ti direbbe di fare quello che vuoi, finché le acque non saranno di nuovo calme è meglio che tu faccia come ti viene imposto, As.»

Mi trattenni dal chiedergli cosa intendesse con quell'affermazione e se, davvero, la mia presenza là fosse voluta o desiderata. Fino ad adesso Azrael era stato l'unico a parlarmi, persino i suoi Demoni servitori evitarono di guardarmi troppo, intimiditi o imbarazzati, e un senso di nausea mi salì in gola.

Salimmo fino a quando il fiordo scomparì dalla mia vista e a girammo intorno alla montagna, dove gli alberi erano più fitti e i sentieri ghiaiosi. L'abitacolo andava a destra e a sinistra, scosso dai sassi e temetti di dover vomitare per quanto la strada fosse discontinua.

Per mia fortuna il Demone alla guida si fermò prima e si girò. «Siamo al punto massimo, Lord Azrael.» Misi la testa fra le gambe, serrando le labbra. Azrael mi diede delle pacche sulla schiena. «Il principino ha la nausea?»

«Non è abituato ai sentieri. Viveva a Manhattan, Yass» lo rimbeccò.

«No, è perché guidi di merda» commentai e Yass strinse i denti astioso.

Ci fece scendere – per non dire che mi scaraventò fuori dall'auto e ci abbandonò in mezzo al nulla – e tornò indietro in città. Ignoravo quanti Demoni abitassero nel mondo umano, Odda era ammantata da una strana foschia scura che si estendeva persino sui boschi più remoti. L'odore era buono, deciso.

Azrael annusò l'aria, imitandomi.

«C'è un odore strano» mormorai.

«È il tuo odore, quello della tua gente» rispose, dandomi una leggera gomitata.

Presi lo zainetto e la custodia del violino, mentre Azrael si occupò della valigia. Mi offrii io stesso di portarla e per dei minuti me lo lasciò fare: scalammo la montagna tra la vegetazione e l'erba che mi arrivava al ginocchio, faticavo a camminare e la terra molle rallentava i miei passi. Gliela diedi due minuti dopo e, la mezz'ora successiva, la passai a trascinarmi dietro Azrael, piagnucolando.

Ero troppo stanco per implorarlo di rallentare o insultarlo, zampettava davanti a me e si fermava ogni tanto ad aspettarmi – o assicurarsi che non schiattassi da un momento all'altro in mezzo alle montagne. L'aria era diversa, pura e rarefatta. Ero abituato allo smog di New York, al traffico e ai continui rumori, quel simile spazio aperto, verde e silenzioso, mi rimbombò nelle orecchie in un fischio continuo.

«Ti abituerai, qualche giorno e i tuoi polmoni saranno come nuovi» mi consolò con un sorrisetto crudele. «L'aria qui è pura. I cuccioli giocano spesso nelle valli, sei messo peggio di loro.»

«Allora che vadano loro ad abitare a New York» borbottai tra me e me.

Mi sentì bene e sogghignò. Azrael non era cattivo ed ero certo che le sue battutine non fossero per farmi arrabbiare o sentire fuori posto; lo faceva per divertimento. Era quel genere di persona che si crogiolava nel vedere il fastidio sul volto di un altro ed era difficile ignorare le sue provocazioni.

Lo raggiunsi e lo superai. Piantavo i piedi a terra, salendo con enfasi, fino a quando sbattei la faccia contro un muro invisibile e piombai indietro, rotolando nell'erba. Sentii Azrael ridere fragorosamente e poi venne ad aiutarmi.

«La prima volta ci ho sbattuto la faccia anche io» mi prese in giro.

Mi tirò su in piedi e allungai il braccio, tastando la superficie del muro. Da lontano era impossibile notare la differenza, il muro che chiudeva a cupola la montagna era fine ed elaborato. Al tocco vibrava e risuonava un suono delicato.

«Sapevi che fosse qui» lo accusai. Si trattenne ancora dal ridere. «Sei uno stronzo.»

«Sì, me lo dicono in tanti. Andiamo, Indiana Jones, sarai stanco e affamato.»

Evitai di discutere data la fame e il dolore ad ogni articolazione mobile. Avevo delle fitte assurde alla schiena, ai polpacci e al collo, colpa della dormita in aereo e le ore passate seduto. Avrei pagato oro per dormire su un vero letto.

Azrael allungò la mano e infranse la magia in quel tratto di muro, giusto il tempo per lasciarmi passare senza battere il naso la seconda volta. Mi disse che mamma usasse la magia per tenere nascosti i rifugi agli estranei e solo chi sapesse dove cercare poteva accedervi. Lo ascoltai affascinato, domandandomi che tipo fosse e se un giorno avrei potuto utilizzare la magia come lei.

Dentro la cupola il tempo era più fresco. L'esterno era chiuso fuori e l'atmosfera veniva gestita in modo autonomo. Alcune lepri percorsero senza problemi i territori proibiti, ci osservarono impauriti e scapparono via.

Mi condusse ai piedi della montagna, dove gli alberi presero a farsi più radi e, anche loro, indirizzarci all'ingresso tramite una strada naturale. Toccò la parete di roccia e si aprì un anfratto umido. Era una caverna lunga e stretta, poco illuminata. Continuai a camminare benché ci vedessi pochissimo, mentre Azrael filava dritto senza indugio. Le sue pupille si allargarono e le controllò a suo piacimento, riuscendo a vederci perfino nella più tetra delle ombre.

Mi tirò per un braccio, conducendomi nel buio. Dovette avere una certa fretta di tornare a casa e di vedere mamma perché fremeva e vedevo le particelle nere che gli svolazzavano intorno più cariche.

Prendemmo un ascensore e salimmo di quota in fretta, arrivando ad un piano totalmente diverso dal precedente. Eravamo in un enorme antro chiaro, la vetrata si affacciava sullo splendido paesaggio nordico, tra le cime delle montagne e le nuvole, e la piccola Odda. Sembrava impossibile che nessuno riuscisse a vedere l'immensa struttura moderna che era aggrappata all'apice della montagna, costruita in più livelli.

Mi coprii gli occhi. Il sole stava appena sorgendo e la sua luce era forte, per nulla indebolita rispetto a quella di New York, la quale era ammantata da un velo perenne di inquinamento. Non si udiva alcun suono e i pochi erano distanti corridoi interi.

Azrael si guardò intorno diffidente e mi disse di seguirlo. Gli saltellavo intorno, riuscii a dimenticare perfino il dolore ai piedi e mi guardavo ogni cosa con aria eccitata, fremendo d'emozione.

Ci girammo verso il cuore del centro, dopodiché si fermò davanti ad un'imponente porta bianca. Lasciò le mie cose a terra e mi tirò le spalle.

«Tu aspetta qui, okay?» mi domandò. Non risposi. Mi diede uno scossone. «Okay?»

«Papà aveva ragione, non le hai detto di me» soffiai.

Faticò ad ammettere che avessi ragione. «È una sorpresa. Le farà piacere, solo che lei è... Non le piacciono le sorprese, ecco.»

Aprii la bocca. L'ultima cosa che volevo era far beccare un infarto a mia madre o rovinare tutto con la mia presenza. Ero stato uno sciocco a mollare la mia vita per venire in Norvegia, parlare di Demoni, mostri e del mio futuro. Io volevo solo incontrare mia mamma, ricordare il suo volto e sentire il suo profumo. Che senso aveva tutto ciò se lei non ne fosse stata felice? Mi aveva lasciato sedici anni fa e non era tornata.

Sperai di sbagliarmi e Azrael mi pettinò i capelli, provando a rendermi presentabile. Puzzavo un po', non mi facevo la doccia dal giorno prima e avevo gli occhi pesanti, nonostante l'adrenalina.

Si intrufolò nella stanza e io restai immobile sul posto. Tremai e aprii piano la porta, ignorando le sue raccomandazioni. L'ala era altissima con un soffitto che si chiudeva a volta, le colonne erano decorate con statue alate che indossavano abiti da battaglia e portavano con sé armi. Non c'era nulla a parte un lungo tavolo per le conferenze e c'erano alcune persone dentro.

Con il cuore in gola, mi resi conto che alcuni di loro avessero zampe di capra o code fatte di squame. Stavano fissando una mappa digitale sul tavolo e il discorso verteva su un battuta di caccia all'ultimo momento.

Azrael zampettò silenzioso alle spalle di una donna dai lunghi capelli biondi e le saltò accanto. Lei trasalì e gli diede un pugno sul petto, spingendolo via.

«Ti pare?» sbraitò senza rabbia. Azrael si avvicinò per darle un bacio e lei sfuggì via fulminea, sistemandosi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio. «Siamo in mezzo ad un'assemblea. Giocheremo dopo. Si sono imbattuti di nuovo in quella creatura.»

«Sì, sì, senti, tesoro, devo dirti una cosa» tagliò corto. Lei si insospettì, affilando lo sguardo. «So che avevamo detto di aspettare e che probabilmente sarai un pochino fuori di te...»

«Az, che hai combinato?» lo interrogò, staccando le mani dal tavolo.

«Niente, e che cazzo! Volevo solo dirtelo prima che tu...»

Uno dei presenti mi notò ed esalò un trillo, tra lo spavento e la meraviglia. Tra lo smarrimento generale la donna si voltò: era la ragazza più bella che avessi mai visto, così perfetta nella sua bellezza angelica. Aveva dei lunghi capelli biondi che le scendevano lisci sulla schiena, un viso asciutto con un mento tondo, naso aggraziato e gli occhi erano rossi, proprio come quelli di Azrael. Aveva un tatuaggio tra le clavicole che si intravedeva appena sotto il vestito corto e celeste.

Azrael si batté una mano sulla fronte. «Ti avevo detto di...»

Guardai la donna e lei, lentamente, aprì gli occhi in un bagliore umido. «As?» chiese piano, con voce incredula ed impastata.

Mi tornò a galla un ricordo, un calore dentro il petto e una sensazione calda e avvolgente. Avevo già sentito la sua voce, moltissimo tempo fa ed era stata nascosta negli anfratti della mia mente. La riconoscevo.

"Anche tu mi piaci", stava dicendo con affetto nella mia memoria e pronunciava il mio nome tante volte. La sua voce era alta, dolce come una caramella, ma ferma.

«Mamma?» feci eco e il suo petto si sollevò in uno spasmo.

«So che è improvviso. Ho solo pensato che...» iniziò Azrael e lei lo ignorò.

«Il mio As!» borbogliò e corse verso di me.

Si gettò sul mio collo e mi strinse forte. Era minuta e leggera, nonostante ciò aveva dei muscoli sottili che avvertivo sotto la veste. La sua pelle era calda e le guance rosse. Mi abbracciò e mi tenne stretto, iniziando a singhiozzare forte. Feci per parlare e lei mi esaminò il viso, i capelli e i vestiti con attenzione, piangendo. Lo notai solo da così vicino: io e lei eravamo davvero simili. Il pensiero lo ebbe anche lei e pianse più forte, abbracciandomi di nuovo.

Mi sotterrò tra le braccia e io la strinsi, immaginando di perderla come era già successo. Con tutte le mie forze scongiurai che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrei permesso a qualcuno di portarmela via, umano o calamità divina, ero pronto a subire qualsiasi allenamento o Patto per farlo.

«Lui è il figlio cresciuto tra gli umani?» borbottò uno tra la dozzina rimasti.

«È il principino!»

Mi tolse gli occhiali dal naso per studiarmi meglio. Battei gli occhi per metterla a fuoco, erano irritati per le lunghe ore senza un sonno adeguato e mi impettii. Mi accarezzò le guance. Era più alta di me di pochi centimetri e camminava con degli scarponi di pelle alti fino al ginocchio, pieni di stringhe e cinturini.

Mi diede un bacio sulla fronte. «Buon compleanno, As. Bentornato a casa, ikki.»

Mamma mi chiamava "ikki", nella loro lingua significava "mio piccolo" in senso affettuoso. Si scusò e mandò via il resto dei presenti, per fortuna capirono al volo e non si mostrarono offesi o scontrosi. Alcuni di loro, specie due donne, si pulirono gli occhi e lasciarono l'ala in fretta.

Si diresse verso Azrael e lo spostò a parte, sussurrandogli qualcosa. Le sue labbra erano strette, tese. Feci finta di essere preso dai lacci delle scarpe e guardai altrove, restando concentrato sul loro discorso.

«Pensavamo fossimo d'accordo, Az. Dovevamo lasciarlo con Matt, me lo avevi promesso» lo accusò delusa. «Non siamo mai andati da lui di pari accordo e ora mi fai questo. Spero solo che tu non lo abbia minacciato!»

«Tu eri d'accordo con te stessa, Kiral» la rimbeccò. «Urlavi il suo nome ogni notte da un paio di mesi, pensi mi facesse piacere vederti così?»

«Dimmi che lo hai detto a Thor o Joe, per favore.»

«Pensavo lo facessi tu per me...»

Deglutii e mi misi in mezzo timido. «Mi dispiace se vi ho messi a disagio. Non volevo dare alcun fastidio» dissi, masticandomi la lingua. «Se volete posso tornare indietro...»

Kiral saltò avanti e mi afferrò il braccio affinché non potessi sfuggirle un'altra volta dalle mani. Il suo volto si dipinse di disperazione per alcuni attimi, dopodiché scosse furiosa la testa e si pulì le ciglia.

«No, ti prego!» strillò agitata. «Resta.» Annuii e lei sganciò la presa, rendendosi conto della sua forza. «Era solo una cosa inaspettata, ma sono felicissima di vederti. Ti ho visto solo in una foto molti anni fa, ti giuro che sei stato nei miei pensieri ogni giorno. Sei davvero bellissimo.»

Mi grattai il braccio, trattenendo un sorrisetto. «Quindi posso restare?»

«Ti farò preparare una stanza. Se sei venuto fino a qui da New York devi essere molto stanco, hai fame?» mi domandò apprensiva. Annuii. «Dirò a qualcuno di portarti del cibo. Voglio sapere ogni cosa.»

Ci trasferimmo al piano di sopra e mi portarono nelle loro stanze private. La camera era grande quanto il soggiorno e la cucina da mio papà, composto come uno spazioso rettangolo. Dal lato sinistro c'era un letto matrimoniale con delle lenzuola scure e una moltitudine di cuscini, degli armadi scorrevoli coprivano tutta la parete ad ovest, con alti specchi e uno sfarzoso lampadario dorato. L'area centrale era composta da dei divani bianchi ad L, chiusi attorno ad un tavolinetto da caffè sotterrato da cartelle varie. All'angolo opposto c'era una cucina nuova di zecca, vuota.

Mi sedetti sul divano e mamma notò il violino accanto a me. «Matthew ti ha fatto imparare a suonare il violino? Che cosa da ricconi.»

«È stata un'idea dello psicologo. Avevo un brutto carattere da piccolo» le confessai.

Sollevò le spalle. «Lo hai preso da tuo padre» puntellò ed Azrael si voltò attento.

Benché fosse ancora l'alba, o almeno mattina presto, nella camera si presentarono due Demoni con un carrello metallico pieno di cibo, tra cui un tacchino, verdure al vapore, una pizza con formaggio e prosciutto e dei waffle con cioccolata. Era davvero un'esagerazione, ma mi abbuffai contento e Kiral e Azrael rimasero seduti vicino a me, fissandomi come se stessero contemplando un animaletto muovere i suoi primi passi.

Tirai fuori il telefono e provai a chiamare papà. Non c'era campo a quell'altezza e dubitavo che il mio gestore telefonico potesse gestire una chiamata Norvegia-America senza persino batteria. Facendo i calcoli, era ancora notte fonda a New York ed eravamo a metà settimana.

«Che fai?» mi domandò Azrael, inclinando il capo con fare curioso.

«Registro un video a papà e glielo mando, così non gli prenderà un attacco di panico» dissi convinto.

Kiral prese per mano il Demone e mi sembrò un gesto di consolazione a giudicare dall'espressione che gli dipinse la faccia. Sapevo che Azrael fosse mio padre, eppure era impossibile pensare a lui in modo diverso: Matthew mi aveva cresciuto, avevo convissuto con quella realtà per sedici anni. Azrael a conti fatti era un estraneo, sapeva poco di me. Mi dispiaceva vederlo turbato per il fatto che continuassi a chiamare Matthew "papà".

«Mi dispiace...» mormorai e lui si tolse dalle spalle la sensazione sgradevole, facendomi un sorriso smagliante.

«Va tutto bene. È un grosso cambiamento.»

«Devo solo abituarmi» commentai di nuovo, stringendo il cellulare.

Feci un piccolo video per mio padre, registrandolo offline. Gli feci vedere la camera, il panorama e poi inquadrai me, con tutte le braccia e le gambe al loro legittimo posto. Gli dissi che stessi bene, che fosse fantastico e che mi mancasse, poi lo inviai.

Mamma volle sapere della mia vita e di Matthew. Le raccontai che vivevamo a Manhattan a pochi isolati dal Central Park, che lavorava per uno studio di architetti e che non fosse sposato. Per quel che ne sapevo, papà aveva amato la mamma e le era stato sempre fedele.

Lo dissi troppo facilmente e le guance di Kiral diventarono porpora, sotto gli occhi gelosi di Azrael. Per quel che ne sapevo, Kiral e Azrael erano una coppia da tanto e non si aspettavano un simile pettegolezzo.

«Avevo ragione ad odiarlo» ringhiò Azrael.

«Non essere scemo» borbottò lei. «Non vedo Matt da anni, da molto prima della guerra.»

«Dovresti chiamarlo» la pregai. «Ci terrebbe molto a sentirti. Non mi ha mai detto tanto di te, però se tu avessi potuto vedere il suo sguardo avresti capito quando fosse triste. Ho evitato di parlare dell'argomento per questo. Sono felice di poter parlare con te ora.»

Lei mi accarezzò le mani. «Anche io.»

Volle sapere anche della scuola, cosa facessi e che gusti avessi, e io le dissi che ero uno studente mediocre con problemi di attenzione e iperattività. A lei non importò più di tanto – o forse non mi ascoltò davvero – era solo felice di avermi davanti e restò ad ascoltarmi senza mai interrompermi. Le raccontai delle lezioni di violino, della mia passione per la musica, e di Emma.

«È la tua ragazza?» domandò con aria furba.

«Be', no. Non ancora, ma...» Mi girai i pollici. «Lei mi piace.» Mamma emise un suono dolcissimo. «Potrò tornare da mio... da Matthew, vero?»

Guardò Azrael affinché rispondesse lui. «Sì, certo, ma quando avrai finito il tuo addestramento qui. Voglio che tu sappia usare qualche arma e che padroneggi i tuoi doni. Devi saperti difendere da solo, mi hai capito?»

Mi sforzai di farlo. Il pensiero di immaginare il mondo pieno di mostri feroci mi fece bollire lo stomaco, ancor peggio sapere che molti di quelli volessero ammazzarmi. Mi avrebbe fatto bene staccare da New York, dedicarmi ad altro e fare ciò per cui ero nato. Finalmente mi sentivo al posto giusto.

«Matthew mi ha detto che sei un Ibrido, significa che prima eri umana?» le domandai e lei si tolse le scarpe, mettendo i piedi sul divanetto bianco.

«Vivevo a Seattle con la mia famiglia, mamma e papà. Mio padre era un architetto anche lui. Andavo a scuola con Matthew, era al quarto anno e io al secondo quando io e Azrael ci siamo incontrati. Lui...» Per un momento il suo sguardo si fece diffidente, rivolgendo al Demone un'occhiata criptica. «Mi ha trasformata per aiutarmi. A quell'epoca però le cose erano diverse, i regni lo erano. L'Inferno non aveva mai avuto un Ibrido dal sangue misto tra Demone e umano, erano tutti spaventati da me e da ciò che potevo rappresentare. Il cielo mandò degli assassini alati per uccidermi e ho dovuto imparare a combattere. È un mondo duro, non te lo negherò, dove devi sempre scegliere da che parte stare.»

«Scegliere il male minore, intendi?»

Mi riferivo alla famosa guerra che ci divise.

«Precisamente.»

«Il male è sempre il male a mio parere» sussurrai. Sulla punta della lingua avevo la frase "e di certo non avrei mai abbandonato mio figlio", ma lo tenni per me. «Avevi la mia età quando è successo?»

Si grattò il mento. «Ne avevo quindici. Mi si rovesciò il mondo addosso a quell'epoca e ho avuto dei problemi ad adattarmi, non sottostavo alle regole di nessun regno e ho fatto come mi pareva per molto tempo. Mi sono attirata dei guai, però lo rifarei. E tu mi seguiresti, amore mio?»

Azrael si afflosciò sul divano. «Fino alla morte e ritorno. Di nuovo.»

«Sei una creatura unica, As» iniziò ancora Kiral. «E sei più potente di quanto immagini. Il tuo sangue è raro, sei un Ibrido e la tua discendenza ha radici demoniache e umane. Molte persone ti avrebbero giustiziato subito per il pericolo che potresti causare, ora per fortuna le cose sono diverse. Dopo la guerra le fazioni sono state costrette a parlarsi e ad aiutarsi a vicenda. Una volta c'era solo un rifugio in cui esseri come noi, battuti o cacciati, potevano rifugiarsi: il Quartiere. È andato distrutto durante la guerra e ne sono sorti molti altri.»

«Lei li gestisce» si vantò Azrael, indicandola con il mento.

«Alcuni, e solo perché tu preferisci andartene in giro a bighellonare. L'unica cosa buona è che hai maledetto Loki» sospirò. «Finché Thor è lontano mi occupo io della gestione della rete orientale, per il resto ci pensano sua moglie o le figlie. Oh, cavolo! Devo dirlo a Zoe!»

Riprese a raccontarmi la sua storia, la storia di Sasha Bryce, la ragazza umana di quindici anni che era prima di scoprire la verità. Incontrò gli Angeloid, dei robot creati da Dio per eseguire brutali omicidi, e organizzazioni segrete come l'OverTwo, umani che l'avevano aiutata a sparire dalla circolazione e prendersi cura di me. C'erano anche i cattivi: l'Esercito dell'ordine demoniaco, una stirpe sanguinaria di dominatori che segregava Demoni e li torturava. Mi parlò persino di Nathan Walden, della Reliquia della Chiave di All e di come mi avesse salvato da morte certa, celando la mia anima e aura all'interno del gioiello.

Il suo racconto era straordinario, era come sentire le gesta di un eroe greco. Una leggenda.

«Quel giorno io e tuo padre morimmo in battaglia. L'Inferno chiama a sé tutte le sue creature e i Demoni reali ritornano sempre dalle proprie ceneri. Azrael riuscì a rinascere molto prima di me» si punì.

L'uomo aprì gli occhi e la tirò più vicino con fare protettivo. «Dodici anni, Kiral. Sei rimasta morta per dodici anni, non è stata colpa tua. Se devo trovare un colpevole è quel Caduto che...» Gli tirò una gomitata per zittirlo. «Io sono venuto a trovarti da piccolo, questo lo sai, As, e l'ho fatto fino ai tre anni. Volevo che non avessi ricordi con me. Tua madre voleva riprenderti, ma io e Matthew l'abbiamo persuasa. L'accordo era quello di tornare ai diciotto anni quando fossi stato abbastanza grande»

C'era qualcosa che non mi faceva digerire l'intera faccenda. Mi sentii un comune oggetto in comodato. Sarebbero tornati quando a loro avrebbe fatto comodo, non mi interessavano altre visioni su questo. Ero felice di essere insieme a loro, questo non mascherava la delusione.

«Cosa è cambiato?» chiesi deciso. «La vera motivazione.»

Non l'aveva fatto per lei o per me, riconoscevo un bugiardo.

Alzò il mento con aria di sfida. «Sta succedendo qualcosa all'Inferno. I principi mi hanno riferito che i Demoni sono... agitati. Mio padre lo è» soffiò stanco. «Io non mi fido di nessuno, ecco perché ho preferito portarti qui, anziché aspettare. In pochi sapevano la tua posizione. Prevenire è meglio che curare.»

Kiral si agitò. «È stato attaccato? A New York? Le città grandi dovevano essere le più sicure.» Ci fu un attimo di silenzio e ci fu un sibilo nell'aria, simile a quello che avevo avvertito a casa tra il Demone e Matthew. Si stavano parlando nel pensiero. «Hai omesso di dirmelo.»

«Te lo avrei detto... quando saresti stata più calma» si difese.

«Di questo ne riparleremo.» Sospirò e lasciò indietro il fastidio per il gesto di Azrael che, per lui, era stato a fin di bene. «Per oggi usa pure questa stanza, ti farò preparare la tua. Immagino sarai stanco.»

Digerire mi stava facendo venire sonno e avevo bisogno di stendermi e chiudere gli occhi. Annuii sfinito e mi infilai nell'immenso letto, il materasso era rigido, caldo e mi immersi tra i cuscini. Trovai perfino un orsetto di peluche con un fiocchetto rosa e verde sul comò e rivolsi uno sguardo a mia madre, la quale saltò sopra le lenzuola e gattonò verso di me.

Si accoccolò su di me e mi strinse fra le sue braccia.

«Da cosa ti ha protetto?» le domandai. «Hai detto che Azrael ti ha aiutata. Da cosa?»

Mi diede un bacio sulla fronte e scorsi Azrael appoggiarsi allo stipite del muro che creava un arco verso la stanza da letto. Era inquieto, meditabondo e la domanda mise a disagio entrambi. I mostri che vivevano nella sua testa erano diversi da quelli che passeggiavano per i vicoli delle città. Papà l'aveva protetta con tanto ardore perché sapeva qualcosa sul suo conto.

«Te lo dirò più avanti. Ora dormi un po', ikki» sussurrò dolce al mio orecchio e, come una magia, sentii gli occhi diventarmi pesanti e venni attratto dal dolce e terribile dio dei sogni.

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