III
(Azrael)
La musica era il mio punto debole, sarei stato capace di stare con le cuffie per il resto della mia vita e ignorare il mondo, se solo questo me lo avrebbe permesso. Fin da piccolo era stato così, la musica era la sola cosa a calmarmi in qualsiasi occasione. I brani classici, con i loro pianoforti, violoncelli ed ottoni, mi facevano dimenticare la tristezza e quel peso nel petto che ogni giorno aumentava a dismisura.
Papà mi aveva iscritto ad un corso di musica a quattro anni, dopo che lo psicologo che mi seguiva a quel tempo gli consigliò di trovarmi un hobby che non comprendesse l'uso della forza bruta. Avere il mio violino era stata la mia ancora di salvezza, insieme a Wagner, Bach e Verdi, i miei compositori preferiti.
Il mio insegnante di musica si chiamava Reginald Reibley e suonava come violinista alla Philharmonic e nei più famosi teatri dello stato. Era stato il più giovane artista ad entrare in orchestra e accettò di insegnarmi per alcune ore a settimana. Poi le ore erano diventati giorni e infine anni. Entrò nella mia vita tanto in fretta quanto stabile.
Abitava a Roosvelt Island in un complesso di condomini sotto un bar Starbucks, il che era una cosa molto positiva dato che ad ogni ora del giorno si sentisse un buon odore di caffè, latte caldo e cioccolata.
Il mio violino era uno Stentor fatto con l'abete rosso. L'anima era incastrata fra la tavola e il fondo vicino al piede destro del ponticello. La resa sonora era fantastica. Le corde dure erano fissate ai piroli nella cassetta superiore. La tastiera era in ebano.
Tenere uno strumento musicale era difficile, specie se delicato come un violino. Per esempio bisogna prestare molta attenzione ad accordare le corde perché se si mette troppa pressione si spezzano, oppure non lasciare l'archetto teso dopo averlo suonato se non volevi trovarlo a pezzi e parlo per esperienza.
Suonavo Il trillo del diavolo in Sol Minore. Il brano era davvero difficile e richiedeva una tecnica strabiliante dato che alternava tre movimenti diversi. Persi la concentrazione due volte e mi incastrai, fissandomi i piedi.
«È la seconda volta che ti blocchi al larghetto affettuoso, non dovrebbe essere difficile per te. Ti ho visto fare movimenti più complessi» disse il signor Reibley, seduto sulla sua poltrona di pelle con la sua tazza di té verde in mano, come di consueto alle quattro del pomeriggio.
Era un uomo alto come un giunco, con capelli corti e castani, occhi azzurri e un'espressione perennemente pacifica. Indossava un anello di metallo al dito medio, benché sapessi che fosse divorziato da molto tempo ormai. Aveva una figlia di sette anni di nome Tea.
Il suo appartamento era spazioso, lo studio era compresso in quella che sarebbe dovuta essere la sala da pranzo, lunga e stretta. C'era un pianoforte all'angolo, alcune chitarre appese ai muri, un contrabbasso e alcuni clarinetti in delle custodie di stoffa sul tavolino basso. Era una stanza stracolma di roba interessante, gli scaffali erano adorni di premi e meriti.
Mi pulii la faccia. «Sono solo un po' distratto» mormorai e seppi che non fosse una buona scusa. Lui aveva fatto la migliore scuola privata di musica a Chicago, si era aggiudicato la borsa di studio e si era fatto strada da solo, con le proprie forze. «Io mi sono esercitato, ma...»
«Non arrabbiarti» sibilò subito. Odiava quando alzassi la voce. Mi sistemò la postura, cosicché avessi il polso e la spalla sullo stesso punto piano. «Ci vogliono anni per suonare questa melodia per bene, è difficile. Sei portato per la musica, devi solo avere dedizione.»
«E quanto ci vorrebbe, per l'esattezza?»
«Dieci o...»
Alzai le braccia scoraggiato e passai il resto del tempo a ripetere gli esercizi e i passi che il signor Reibley mi dava. La parte più difficile era stata imparare a suonare la corda senza toccare le altre. C'erano giorni in cui avrei potuto suonare per ore, lasciare che le note si portassero via ogni pensiero; e c'erano giorni in cui le melodie mi facevano nauseare per ore.
Quando Tea tornò da scuola mi aiutò a passare la colófonia scura sull'archetto. Erano le cinque di pomeriggio passate e il sole stava iniziando a calare oltre lo skyline di Manhattan. Ricevetti due chiamate da mio padre a cui non avevo risposto. Sapeva che fossi a lezione e con la musica accanto all'orecchio non sarei riuscito a sentire nulla. Mi voleva a casa prima che facesse buio, come sempre, e d'inverno era stressante non poter fare nulla da solo la sera. New York viveva di notte.
«Mi ha chiamato tuo padre. Penso sia urgente.» Il signor Reibley tornò da noi dalla camera, mostrandomi il suo cellulare.
«Sei nei guai» cantilenò Tea.
Misi a posto il violino nella sua custodia con l'archetto e la colófonia, dopodiché lo pagai e mi avviai. Cento dollari a lezione erano davvero un'esagerazione per conto mio e a lui i soldi non mancavano di certo dato che viaggiava per tutto il paese per i concerti e avesse una seconda casa a Chicago. Ero un caso difficile e in base a ciò che avevo intuito a lui piacevano i casi difficili.
Aprii la porta e mi trovai davanti ad un uomo in giacca e cravatta. Era il signor Steel. Ne sapevo poco di lui, a parte che fosse un buon avvocato e che i suoi genitori gestissero un'azienda di sicurezza digitale. Cenava a casa loro ogni martedì sera dopo l'ufficio ed era palese che tra i due ci fosse qualcosa.
«Buonasera, signor Steel!» esclamai sogghignando e lui mi sventolò una mano in faccia per mandarmi via. Alzai i pollici al signor Reibley per mostrargli il mio incoraggiamento. «Vai!» gli sillabai con le labbra e lui si mise a ridere.
Il mio insegnante di musica aveva una vita sentimentale migliore della mia su tutti i fronti.
Prima di prendere l'autobus andai da Starbucks a prendermi un croissant al cioccolato, come di routine ogni martedì e giovedì dopo lezione. Roosvelt Island era una zona tranquilla, per lo più di transito tra Manhattan e Brooklyn grazie al Ponte Queensboro e c'erano moltissime aree verdi e pedonali.
Mi indirizzai alla stazione degli autobus e pensai ad Emma, a quanto mi sarebbe piaciuto passare il mio compleanno con lei, portarla al cinema o da qualche altra parte. In tasca avevo solo quindici dollari, ergo il miglior gesto romantico che avrei potuto farle sarebbe stato offrirle un menu al McDonalds. Sognavo che mi desse almeno un'opportunità.
La vita era ben diversa dalla mia immaginazione, dove prendevo a pugni Jackson Groove e lo stracciavo a pallacanestro davanti a tutta la scuola. Ero un ragazzino pieno di problemi e a nessuno piacevano i problemi, specie se li portava una persona.
Tagliai per una viuzza laterale con alcuni bidoni dell'immondizia strapieni di roba. Quella era la vera faccia di New York ed ogni altra grande città, dove i ratti uscivano da ogni tombino e quando pioveva tanto la fogna tornava a galla sulla strada.
Stavo camminando assorto, con le cuffie alle orecchie e l'ultimo pezzo di brioche in mano quando vidi una specie di bancarella tra due cassonetti di metallo. Era pieno di oggetti strani, collanine di vetro e ornamenti di perle ed ossa inquietanti. Davanti ad essa c'era una vecchietta decrepita, con la pelle asciutta e macchiata.
«Vuoi una collana di mirto, ragazzino?» mi offrì la vecchia.
Aprii la bocca, notando che in mano avesse delle bacche. «No, grazie» risposi. «Non voglio che la gente mi avveleni per strada.»
Continuò a tenere la mano aperta davanti a me, poi all'improvviso prese un grosso respiro e aprì entrambi gli occhi a scatto, iniziando ad urlare. Il suo grido era così acuto che mi fece tremolare le gambe. Me la svignai in fretta con la faccia blu di paura, prima che qualcuno potesse pensare che avessi aggredito una vecchia per una collana fasulla.
Svoltai l'angolo e me la ritrovai davanti. Era più grassa di quanto me la ricordassi. E alta. Era decisamente alta per essere un'anziana signora con uno scialle attorno alla gola persino in estate. I suoi piedi erano nudi, pieni di peli.
Un orrido fetore si propagò nell'aria, simile al fango mescolato all'urina. La puzza proveniva dalla sua direzione e mi fece girare la testa. Dovetti trattenere il respiro per non vomitare.
«Non le voglio le sue bacche!» replicai, pronto a scappare di nuovo.
Il suo scialle si mosse e vibrò, rilasciando delle minuscole palline nere che svolazzavano in aria accanto alla sua figura. Era impossibile che fosse del polline in quella stagione e quelle particelle emettevano degli strilli acuti quando si scontravano tra di loro.
«Tu mi vedi! Mi puoi vedere!» si agitò lei. Ero impegnato a togliermi di dosso quella disgustosa polvere nera per stare a sentire le sue lamentele. «Sei un cucciolo dei mostri! Solo i mostri possono vedere i loro danni, la profezia si sta avverando!»
La sua schiena si spaccò e si acquattò a terra, mentre delle lunghe zanne le crebbero dalle gengive e le unghie si fecero più affilate come rasoi. Il suo corpo si allungò e una gobba le arcuò la schiena come un animale feroce, la veste si strappò, rivelando un busto pieno di peli lucidi.
«Io ti ho visto, mostriciattolo! Ti ho visto» mi accusò con voce rauca la bestia.
Non ebbi il coraggio di muovermi. Ero fermo, con le gambe tremanti e una smorfia in faccia. La bocca era aperta in una O perfetta di stupore, notando come si stesse strappando di dosso gli ultimi brandelli di carne umana. Ero troppo scioccato per rispondere alle sue accuse, al fatto che mi accusò di voler rubare qualcosa e di puzzare come un vero diavolo.
«Io non...» biascicai con il cuore a mille. «Cosa...»
«Riconosco l'odore, so da dove vieni! Non saranno felici!»
Le narici della bestia si allargarono ed espirò, caricandomi. Ululò un verso grottesco e la polvere nera si alzò dal suo corpo, diventando una nube. Mi corse addosso ed ebbi appena i riflessi di spingermi a lato, rotolando a terra.
Il mostro inchiodò e mi fissò storto.
«Ti stanno aspettando.»
Gli sarebbe bastato partire in carica un'altra volta per uccidermi, al contrario mi stava parlando. Mi conosceva e anche io, in un certo senso, l'avevo già vista. Ci misi un poco a ricollegare le enormi zanne e la coda spelacchiata ad uno dei mostri che infestavano i miei incubi.
Strinsi le dita e rabbrividii. «Stai lontano da me!» urlai e la bestia ebbe uno spasmo, scuotendo il capo.
La polvere si alzò più in alto e gridò. Mi tappai le orecchie e strisciai contro il muro, mentre cercò di graffiarsi le orecchie cave per togliersi qualcosa di opprimente dalla testa. La mia voce l'aveva disturbata.
Avevo la schiena premuta contro il muro lercio del condominio e avevo un attacco di panico. L'aria si era fermata in gola in una bolla e il mio corpo non mi rispondeva affatto, tremavo e sudavo.
«Ucciderò io la maledizione!» ruggì.
Non può farlo, pensai con stupidità, siamo in mezzo alla strada!
L'unica cosa che mi venne in mente era che fossi nel mezzo di una maledizione e che avessi giocato troppo a The Witcher la prima sera. Ero senz'altro stato drogato. In quella brioche di Starbucks dovevano averci messo degli allucinogeni, o magari ero impazzito del tutto.
Il mostro corse verso di me e allungò gli artigli per squarciarmi la gola. Rimasi fermo per vari motivi: a) non riuscii a fare altro, avevo gli arti gelidi e, b), ero certo fosse tutto un'immaginazione.
Avvertii un soffio di vento e, poco prima che quegli uncini mi strappassero la testa dal collo, venni tirato indietro da una forza bruta. La bestia si sbilanciò e sbatté il muso tozzo e rosato contro la parete del palazzo, producendo un solco ovale.
L'uomo che avevo visto a casa di mio padre mi teneva per un braccio e in mano aveva una spada. Una spada vera. Fissò il mostro senza battere ciglio e, appena mi agitai per scappare via, mi diede uno scossone.
«Non ti muovere» sibilò serio.
«È saltato fuori dal nulla! Voleva ammazzarmi!» urlai.
«È così? Volevi fargli del male?» lo interrogò, quasi fosse un vero essere senziente capace di capirlo. Il mostro schiuse le labbra e mostrò i canini gialli, infine fece un passo indietro. «Oh, sai bene che non posso accettarlo. Non questa volta, dolcezza.»
Arrivò mio padre correndo dalla parte opposta e io agitai le braccia per farmi notare, con ancora le dita dell'uomo serrate attorno al polso. Si gettò ai miei piedi e mi strappò dal suo agguanto, abbracciandomi forte.
L'uomo balzo in avanti con una velocità spettacolare, alzando la sua arma per fendere un colpo alla bestia. Ebbe percorso solo un metro che il mostro si scansò e si arrampicò sul muro come un ragno nero, appesa senza gravità. Il pelo ispido si gonfiò e spiccò un balzo per scappare.
«Klee, dannazione, dammi una mano!» urlò. «Non farla scappare!»
Mio padre alzò la mano e ci fu un movimento nell'aria, le particelle scure si raggrupparono e sfrecciarono all'unisono contro la bestia. La colpirono alla schiena, una, due volte, fino a quando perse la presa e crollò di nuovo nel vicolo stretto e umido.
Si alzò a scatto, guardandosi intorno con aria smarrita e i suoi occhi si fecero enormi, neri. Mi parve di vedervi addirittura qualcosa, un barlume dorato o simile, prima che l'uomo balzasse in avanti in una piroetta e gli tagliasse la testa. La lama gli attraversò la carne, i legamenti e le ossa come burro, senza trovare alcuna resistenza.
L'ultimo verso che emise fu un debole rantolio, di paura ed odio, molto simile al fischio del vento, e il corpo fu scosso da un tremito involontario. L'enorme testa rotolò a terra insieme al busto, bagnandosi di un sangue verde scuro, simile alla clorofilla. Fu un'esecuzione.
La pelle del mostro si compattò e si trasformò in polvere scura sotto i nostri occhi, mentre l'uomo fece scomparire la spada nel nulla. Mio padre mi accarezzava la testa, mi ripeteva che andasse tutto bene e che fosse colpa sua: non riuscivo a smettere di tremare e fissare il vuoto, chiedendomi cosa fosse successo.
Mio padre aveva appena sparato qualcosa ad un mostro mentre un altro l'aveva trapassato con una micidiale spada medievale. E c'era un vero mostro!
«C'era quel coso davanti a me...» iniziai a parlare con il cuore in gola. «E quella vecchia mi ha chiesto se volessi una delle sue collane... ed erano mirtilli e...»
Mi accarezzò i capelli con foga. «Lo so, è tutto a posto. Ci siamo noi.»
«C'era un mostro, papà!»
«Lo so.»
«Un mostro vero! E tu hai... lui ha...»
L'uomo in mezzo al vicolo emise un verso annoiato e accorciò le distanze. Mi alzò per il bavero della maglietta e mi esaminò il collo da ogni angolazione, cercando dei segni che non trovò.
«Sta bene» tagliò corto, pulendomi della polvere dai capelli. «Quella bestia era un Hinichilus, faceva parte del vecchio mondo. Si parla di millenni fa. Erano i guardiani delle terre, spiriti della natura, finché non sono stati contaminati dai cataclisimi e dalle azioni umane. Ora vagano per il mondo cercando qualcuno che possa vederli per ucciderli. Staccano la testa e bevono il midollo osseo. Lui è okay» mormorò assorto, rivolgendomi un'occhiata. «Ti abbiamo trovato vivo, ragazzino. Ben fatto. Sei più portato di quanto immaginassi.»
Deglutii. «Era ovvio che la vedessi, ho gli occhiali ma non sono cieco!» replicai furioso.
Mio padre scosse la testa. «No, non è così. Per gli umani le creature magiche sono per lo più invisibili. Che ci faceva un Hinichilus qui, Azrael? Pensavo che Manhattan fosse un luogo pacifico.»
«Faceva quello che fai tu, Klee: ci vive. Anzi, ci viveva. Attaccano solo quando le persone le considerano. Le hai parlato, As?»
Sentirgli pronunciare il mio nome con quell'accento duro fu strano. «Mi ha offerto delle bacche» risposi con aria colpevole. «Pensavo fosse una venditrice ambulante.»
Azrael inchiodò con uno sguardo assassino mio padre. «Te l'avevo detto che fosse una pessima idea! Sei un imbecille!» lo insultò. «Dobbiamo andarcene prima che qualcuno avverta l'odore. Gli Hinichilus hanno il sangue profumato, ha lo stesso odore del mondo antico e alcuni ne sono ossessionati.»
Papà mi aiutò ad alzarmi, prese la custodia del violino e le cuffiette che nel frattempo erano cadute a terra, attaccate al cellulare tramite un cavetto bianco. Avevo gli occhi lucidi e per interi minuti rimasi a fissare il nulla, in panico. Salii sulla macchina di mio padre e i due litigarono più forte. Le parole smisero di avere senso.
Tornammo a casa al tramonto e, per mia fortuna, il traffico pomeridiano di New York sciolse i nervi ad entrambi. Le macchine erano intasate intorno a tutta Central Park e Times Square, negli isolati principali c'erano ingorghi lunghissimi e gli autobus faticavano ad immettersi nelle corsie. I taxi suonavano i clacson senza speranze e i rider erano gli unici a fronteggiare il caos sfrecciando tra le automobili senza difficoltà.
Muovevo le gambe in un tic compulsivo e guardavo fuori dal finestrino, squadravo ogni angolo e grattacielo per vedere se qualcos'altro ci avrebbe attaccati. Papà guidava e stringeva il volante, bisbigliando qualcosa, Azrael mi guardava dallo specchietto retrovisore senza perdermi un attimo di vista, quasi pensasse me la sarei data a gambe.
A casa parcheggiò davanti la porta e corremmo dentro senza perdere un secondo di troppo.
Chiuse a chiave tre volte. «Ci hanno seguiti? Avverti qualcosa?»
«No» rispose l'uomo. Annusò l'aria diffidente. «New York è troppo grande, le auree sono confusionarie. Come è adesso, nessuno saprebbe identificarlo. Se avesse sanguinato, sì, sarebbe stato un problema.»
Buttai la custodia del violino sul divano. «Ehi! Voi due! Che diamine era quella roba?» sputai fuori di me, con le guance in fiamme.
«Hai la faccia rossa» sogghignò Azrael, indicandomi. Fumai ancora di più. «Hai visto un Hinichilus, una creatura molto antica e molto rara. Sei stato fortunato ad uscirne vivo, incontrarne uno è un pessimo presagio.»
«Un pessimo presagio? Presagio di cosa?»
«Di morte» commentò aspro. «Agli albori portavano fortune, oro e salute. Il virus ha infettato la loro magia e disprezzano chiunque ne porti l'odore.»
I suoi occhi luccicarono. Mi annusai senza darlo a vedere, chiedendomi se puzzassi. Aprì la bocca per dire qualcosa e mio padre lo scavalcò, dandogli una gomitata.
«So che è difficile da credere, As, lo so, ma quello che hai visto era un mostro reale. Il mondo ne è pieno. Tu hai la capacità di vedere oltre il velo che divide i mondi, lo hai sempre fatto» sussurrò e usò quel tono che adoperava quando cercava di avvicinare dei gatti randagi, deboli e impauriti.
Fin da piccolo avevo visto cose strane, esseri che si muovevano come umani, agivano come tali, ma non lo erano. A volte erano uomini comuni, nascondevano squame, denti o arti deformi, altre erano animali al guinzaglio o nell'oscurità.
«Quelle cose che vedo...» Ansimai. Era troppo assurdo. «Insomma era reale. E io posso vederli. Giusto.»
«Non ci crede» giudicò Azrael, incrociando le braccia.
Mio padre si mise le mani sul volto con fare esasperato. «As, stammi bene a sentire! È vero, è tutto vero! Il mio compito era quello di tenerti al sicuro, di proteggerti fino a quando...» Si umettò le labbra in difficoltà. «Fino a quando non saresti stato in grado di proteggerti e affrontare quei mostri da solo.»
Era una cosa ridicola e mio padre aveva troppa fantasia. Lui era il tipo che non mi faceva prendere la metro perché aveva paura che l'asfalto potesse crollare sul treno e che non dovessi dare confidenza a nessuno dato che avrebbero potuto essere criminali. Lui, il tipo che viveva tra l'ufficio e il lavoro a tempo pieno di padre single.
«Da cosa mi stai proteggendo?» chiesi.
«Dai mostri» mormorò serio. Inclinai il capo e risi. «Mi hai raccontato tante volte di ciò che credevi di vedere, dei tuoi incubi e sugli aloni che circondavano alcune persone. Era tutto reale. Tu sei davvero speciale.» Mi venne più vicino e io mi scostai. «Non sai quanto è stato difficile vederti crescere e vedere la paura nei tuoi occhi, era insopportabile. Non potevo dirtelo prima del tempo.»
«E tu cosa sei?»
«Non un mostro.»
«Questo lo so da me, o lo avrei visto!» mugugnai indispettito. «Ma ti ho visto fare qualcosa. Era tipo una magia?»
«Un tipo» fece eco.
«E il signor Grinch, lì?» Indicai l'uomo e lui non si mosse, gonfiando il petto con superbia. Evitò di dirmi che avesse avuto il buon cuore di salvarmi, nonostante sapessi lo avesse sulla punta della lingua. «Lui è un Demone?»
Azrael si mosse in avanti, colpito dal nome che adoperai. «Non dire cose del genere, attireresti guai seri. I nomi sono potenti.» Mi vide spaventato o la mia espressione dovette intenerirlo perché si calmò e alzò le mani. «Puoi chiamarmi Azrael e sì, sono un Demone. Il Principe degli Inferi.»
Stetti per fare una pessima battuta sul suo nome, infine mi ricordai il mio e di non avere alcun diritto a dire alcunché. Entrambi mi guardarono, aspettandosi una reazione, buona o cattiva; io rimasi con un'espressione corrucciata in faccia. Una parte del mio cervello, quella che aveva visto il mostro e un uomo farlo a fette, sperava che quella fosse la verità e avessi le mie risposte. Sapere che non fossi un pazzo psicopatico mi rincuorò molto, eppure mi sentivo inquieto. Colpa dell'iperattività.
L'altra parte, quella rimanente, era scettica. Vivevo nel mondo reale, a Manhattan, e sapevo bene che quelle cose fossero finte. Ero un ragazzino che andava al liceo e non ero nessuno.
«Un Dem...» Azrael mi lanciò uno sguardo fulminante e mi mangiai le parole. «Bene, certo. E io sono Gatsu! Molto lieto, signor Principe!» lo presi in giro.
Mio padre non ci trovò nulla da ridere e un gelo calò nella stanza. Husk entrò miagolando in soggiorno. Grattò con la zampetta sulla scarpa di mio padre e lui lo calciò via.
«Avresti dovuto essere di aiuto e invece te ne sei stato a trastullarti!» lo accusò severo.
Mio padre stava del tutto impazzendo e glielo stetti quasi per dire in faccia quando Husk si trasformò davanti a me: il suo corpo esplose e mutò in un umanoide, aveva le braccia lunghe, le gambe pelose e la coda. Il viso era minuto, ricoperto di macchie, il naso simile a quello felino.
«L'ho fatto e ho avvertito Lord Azrael in tempo. Ho fatto il mio lavoro, umano» cinguettò fiero, crogiolandosi nella ragione quando l'altro annuì. «Ti ho tenuto d'occhio, padroncino, e mi sono assicurato che non perdessi mai la via.»
Rimasi ad osservarlo confuso mentre, con dolcezza, si trasformò in gatto e saltò sul divano, acciambellandosi nel cuscino. Non trovai nulla di decente da dire se non: «Dormiva sul mio letto.»
«Ti avevo detto di non farlo salire» mi rimbeccò mio padre e io alzai le spalle per dire "mi dispiace proprio, ma non avevo idea che il mio gatto fosse un Demone mutaforma". «La tua esistenza è complicata, As. Ciò che dice è vero. Lui è un Demone, Lord Azrael, il Principe dell'Inferno.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top