I

(As)

Mi svegliai a terra, stordito.

Avevo un gran mal di testa, come al solito la mattina, e sbattei un paio di volte gli occhi per svegliarmi. Ero sudato, il collo della maglietta si era appiccicato addosso e respiravo in modo affannato. Avevo avuto un incubo. Nulla di nuovo.

Le lenzuola del letto erano del tutto stropicciate, avvolte tra le gambe e io ero sul pavimento con la faccia a terra. Mi pulii il viso e notai del sangue dal naso.

Cavolo, pensai, un'altra volta.

Andai in bagno e mi feci una doccia veloce, giusto per togliermi il sudore dal petto e fingere che fosse tutto normale. Nell'ultimo anno i miei incubi erano peggiorati e quasi ogni mattina mi svegliavo con i brividi e un pessimo presentimento. Non ricordavo spesso cosa sognassi, eppure avevo le dita delle mani che tremavano e uno strano senso d'ansia nel petto.

Scesi di sotto e trovai mio padre ai fornelli. Nell'aria c'era un delizioso aroma di bacon e la tavola era già agghindata con delle frittelle e uova strapazzate.

«Ehi» dissi e lui si voltò, trasalendo.

«Dio!» esclamò. «As! Non farlo!» Ero troppo silenzioso. Ridacchiai. Lasciò il bacon bruciare nella pentola e mi abbracciò forte. «Tanti auguri!»

Mi ero dimenticato che fosse il mio compleanno. Non avevo mai dato peso a quelle cose e odiavo le feste e quant'altro; mio padre al contrario le adorava e non mancavano i giorni in cui inventasse strane ricorrenze per tirarmi su il morale o passare per il "papà figo".

Mio padre era Matthew Klee ed era la persona più fantastica del mondo, anche se era un vero giaguaro per gli affari. Aveva trentaquattro anni e si era accollato le responsabilità di un figlio da adolescente, aveva lasciato la scuola e poi era andato al college senza mai lasciarmi in affido, si era laureato alla Coloumbia University a pieni voti e aveva un master in architettura urbanistica. Ora lavorava per uno degli studi più famosi della città, la ARCH TEC, e aveva partecipato ai progetti delle ristrutturazioni più moderne da Hoboken allo stadio Yankee.

Non parlava spesso di mia madre, era il suo unico tallone d'Achille. Sapevo che fosse morta tempo fa e lui, e la nonna, erano gli unici parenti che mi rimanessero. Aveva persino perso la sorella minore da ragazzo, poco prima che arrivassi io e mi diceva che fossi stato un unguento per il suo cuore a pezzi.

Mi passò gli occhiali e me li schiaffò sul naso. «Mettiteli» mi disse senza mezzi termini. «O ti verrà di nuovo mal di testa.»

Odiavo gli occhiali. Le lenti erano troppo spesse e mi sentivo un topo. Senza di quelli però ci vedevo malissimo e mi veniva un gran mal di testa tra gli occhi, come se qualcuno mi stesse infilando un ago nel cervello. Era terribile avere l'ipermetropia.

«Il bacon» gli ricordai, sentendo la puzza e lui corse ai fornelli, spegnendo il fuoco.

Mi sedetti al tavolo della cucina e mi spazzolai i capelli con le dita, vispi e scuri. Mi servì sul piatto due strisce di bacon annerite e io abbassai sconfitto le spalle. Apprezzai lo sforzo. Presi un po' di latte e di uova.

Masticai piano e fissai mio padre, il quale aveva un iPad in mano e stava pigiando il dito con foga sullo schermo. «Ehi, mamma!» esclamò, più forte del dovuto.

«Perché questo bacon sa di carta?» chiesi disgustato.

«È bacon vegetale» mi informò lui contento. «È più salutare.»

Senza farmi notare, vomitai i pezzetti di finta-carne nella mano e li gettai nella ciotola azzurra di Husk, il nostro gatto metà nero e metà bianco. Papà lo aveva trovato qualche anno prima all'Astoria park e lo aveva portato a casa. Era pieno di pulci, zecche e pidocchi e zoppicava parecchio. Era un gatto utile dato che si mangiava i topi e si procurava il cibo da solo.

Husk sgattaiolò sotto il tavolo e trangugiò tutto. Lo fece per disperazione, di sicuro.

Papà continuò a parlare con la nonna e, in base a quanto capii, si trovava in una crociera sul mediterraneo. Si parlavano più o meno ogni giorno e sapevo quanto per mio padre fosse stato importante avere il suo sostegno quando ebbe me, da giovane. Io la vedevo ad ogni festività, Natale, Ringraziamento e Indipendenza.

Mi passò il tablet e io lo posai sul tavolo, proprio accanto a me.

«Ti vuole salutare» disse lui e nonna mi mandò un bacio al volo.

«Tanti auguri, piccolo mio! Compi quindici anni, ora sei un ometto!» gioì emozionata.

Nonna era una donna di mezz'età, forse ne suonava di più, però non moriva dalla voglia di far sapere quanti anni avesse e così, ad ogni suo compleanno, fingevamo avesse cinquant'anni per farle piacere. Aveva ancora un bel viso ed era una donna elegante, con i capelli bigi sulle spalle e la pelle abbronzata. Portava un orribile cappello di paglia sulla testa.

«Ne ho sedici» la corressi.

«Ancora meglio! Tanti auguri! Ti ho spedito un bel regalo, vedrai, spero non si perda!»

La ringraziai e papà ridacchiò, bevendo una tazza di caffè e studiando le ultime mail che gli erano arrivate sul telefonino. Mi raccontò che fosse in vacanza sull'isola d'Elba, in Italia, e che fosse già pomeriggio inoltrato, mi mandò persino qualche foto del mare e del posto. Pensai che fosse molto più fortunata di me, dopodiché le raccontai come stessero andando le cose alla scuola estiva.

Non ero mai stato bravo a scuola. Nessuna materia mi piaceva e le sopportavo tutte. Per i professori galleggiavo nella maggior parte e non eccellevo in niente. Diedero la colpa al mio atteggiamento passivo, ma era difficile essere positivi con la dislessia e l'iperattività; la matematica era difficile, la letteratura noiosa, storia inutile. L'unica cosa buona del liceo era Emma.

«Vedrai, andrà bene» mi consolò lei, provando a tirarmi su il morale.

Lei e mio padre erano decisamente ottimisti. Io ero il realista della famiglia, quello che sapeva di andare male in tutte le materie. Molti pensavano che volessi seguire le orme di mio padre, diventare una specie di ingegnere o di artista, ma era dura quando non sapevi costruire neppure una casa di LEGO e avevi la pazienza di uno strozzino senza soldi.

La scuola estiva era stata la mia ancora di salvezza ed ero finito con altri quindici casi disperati del liceo West.

Mi stavano ancora parlando della scuola quando, con la coda dell'occhio, vidi una chiazza nera dal riflesso della lavastoviglie in metallo. L'ombra si gettò dietro un angolo, strisciando via. Mi massaggiai le tempie, sospirando.

«Ti senti bene?» mi domandò lei e mio padre alzò il naso dal cellulare.

Dissi di sì, salutai la nonna e mi rannicchiai sulla sedia. «Penso stia peggiorando» dissi mogio.

«Non sei schizofrenico, As» mi tranquillizzò papà, sedendosi accanto a me e spingendomi il resto del piatto sotto il naso. «Sei solo dislessico.»

«E iperattivo» gli ricordai. «Tante parole per dire che sono stupido.»

«Non sei stupido» berciò, questa volta arrabbiato. «Confondere delle lettere o non avere buona memoria non significa niente. Sei il ragazzo più altruista che io abbia mai conosciuto, sei buono e volenteroso. Tu sei destinato ad essere molto più di quello che credi.»

«Uno stupido fortunato?» domandai ironico e lui non apprezzò il tentativo. «Non voglio essere speciale.» Solo speciale per qualcuno, mi dissi a mente. «E poi la signora Groove mi odia, lo sai. Hai finito di nuovo l'acqua calda.»

Mi mise a posto i capelli e notò il naso arrossato. «Allora la mattina dovresti proprio alzarti prima ed essere il primo che si fa la doccia» propose. Dormire mi piaceva. «E dovresti smetterla anche di passare i pomeriggi sul computer, la vita è fuori!»

Mangiai le ultime uova sul piatto, aspirandole del tutto. «È una palla» mugugnai. «E poi è il mio compleanno, oggi non puoi rompermi.»

Scosse la testa. I videogiochi piacevano anche a lui. «Sarò in ufficio fino al pomeriggio, ti ho lasciato la pizza nel microonde, devi solo scaldarla. Fai il bravo a scuola, sai che ti serve.» Intendeva dire che per gli insegnanti fossi un caso perso. «Questa sera andiamo a cena fuori.»

«Oh, è il martedì cinese!»

Il martedì a casa Klee si mangiava sempre cinese. Era tradizione.

Tornai di sopra, mi vestii alla bell'e meglio con i jeans della settimana passata e una maglietta a maniche corte. L'unica pecca della scuola estiva era il caldo e il caldo a New York, in pieno agosto, era terribile: l'asfalto sembrava sciogliersi e il metallo delle macchine e dei grattacieli diventava bollente. Pareva di vivere sopra una pentola su cui avevano deciso di grigliare.

Quando scesi di nuovo di sotto, mio padre mi bloccò, gettandomi il pranzo al sacco tra le mani. Il liceo ha una mensa tutta sua, ma il cibo fa schifo. Lo ficcai nello zaino.

«Prendi l'autobus? Lo hai il biglietto?» mi domandò retorico, già vestito per andare in ufficio, con giacca e cravatta blu.

Finsi di pensarci. Nessuno comprava il biglietto sui mezzi pubblici a New York, era una regola. Come lo era scappare dai finestrini se qualcuno entrava per controllare.

«Prendo la metro. È più comoda.» Mio padre mi fissò storto. A lui la metropolitana non piaceva. «Abitiamo a Manhattan, mi spieghi che ci facciamo qui se non posso prendere la metro ogni tanto?»

Adoravo mio padre, a volte però diceva delle sciocchezze e credeva a troppe cose. Era un patito del sovrannaturale, in salotto avevamo gran parte della libreria infestata da libri come "Ecoplasma e anime del passato" o "Guida spirituale per connettersi al mondo dei morti" ed era ridicolo. Ero cresciuto con i film di Ghostbuster e Ritorno al futuro e riconoscevo quanto quelle cose fossero fantascienza navigata.

Ad ogni modo, non mi permetteva di prendere taxi o metropolitane da quando un tizio, quando ero ancora piccolo, aveva cercato di rapirmi a Saratoga e, ancora prima, una donna provò a rifilarmi delle caramelle avvelenate.

«Prendi l'autobus» ripeté, allungandomi un biglietto extra. «E tieniti fuori dai guai.»

Era un bel pensiero, ma erano i guai che cercavano me. L'anno scorso, durante la gita di classe al Museo di storia naturale, Emily Houdston giurò di aver visto un leone imbalsamato muoversi e puntarla, dopo che aveva sparato palline di gomma contro Louis Hoffman, il disabile della classe. Prima ancora, durante una verifica di geometria per cui non avevo studiato per nulla, l'allarme anticendio era partito misteriosamente e la scuola fu chiusa per dieci giorni. I problemi c'erano stati fin dall'asilo.

Annuii, non volendo discutere e, di nuovo, notai qualcosa di strano avvolgergli la gamba e svanire un attimo dopo. «Senti, so che non ti piace parlare di mamma, ma anche lei... insomma...» Mi indicai.

Non capì al volo e mi risparmiai il termine "pazza", ma non mi uscii di meglio. I suoi occhi si fecero meditabondi e pensai che non mi avrebbe risposto.

«Tua madre era molto speciale ed era una bellissima persona, questo lo sai» disse piano. «E ti amava, dovrebbe bastarti. Non era ciò che pensi.»

Non aveva nessuna foto di lei e per quanto ne sapeva la nonna, e anche lei ne sapeva pochissimo, erano andati allo stesso liceo; l'Alington, Seattle. Un giorno si era ritrovata a casa suo figlio con un bambino appena nato tra le braccia, senza sapere cosa fare. Forse lo aveva rimproverato (e a volte lo riprendeva ancora per il modo con cui mi cresceva, molto più amichevole che da vero genitore, perché non era nello stile di Matthew Klee essere il genitore cattivo) e lui difendeva mia mamma. Sempre.

Talvolta pensavo che neppure lui l'avesse conosciuta davvero.

«Mh. Okay» sussurrai per nulla convinto, mi infilai lo zaino sulle spalle e uscii di casa.

Abitavamo nell'Upper West Side a Manhattan, in un bel quartiere accanto alla Valley. Le case erano tutte uguali, a mattoni rossi o bianchi, suddivise in più piani, alte e strette come spaghetti. Le auto erano parcheggiate lungo il viale alberato e, già nelle prime ore del mattino, c'erano molti che facevano jogging o andavano al lavoro. Se andava bene l'aria puzzava di gas di scarico e cacca di cane.

Il liceo West si trovava vicino a Murray Hill, era un edificio anonimo e storico, con mattoni rossi e un cancello di ferro. L'autobus ci impiegava poco meno di quindici minuti ad arrivare, in metro era la prima fermata. Non era un liceo granché frequentato, ma d'estate era praticamente deserto. Avevamo un buon programma di recupero crediti estivo e i pochi che ne facevano parte avrebbero preferito ammazzarsi al contrario di frequentarlo, me compreso.

Intravidi i fratelli Scott, Travis e Beck, giocherellare con i loro cellulari fuori dal cancello e Jay Smith dipingere con un pennarello indelebile alcune scritte poco piacevoli sul professor Sanchez, l'insegnante di spagnolo, su un cartellone pubblicitario alla fermata dell'autobus. Nancy Clark, la cleptomane e Jennifer Phillips, una delle cheerleader della West, arrivarono fumando una sigaretta a testa, con pantaloncini corti e calzette a strisce arcobaleno.

Al suono della campanella entrammo in una delle pochissime classi ancora aperte, sistemandoci sui banchi di chimica a due posti. Il professore che ci seguiva era il signor Bruce, un uomo sui quarant'anni che ancora gioiva nel raccontare le bellezze della letteratura latina e la storiografia dei filosofi morti duemila anni prima. Era un ometto tozzo con una barba scura sul mento, per il resto era abbastanza okay perché ti permetteva di ascoltare musica in classe purché tu non facessi casino.

«Riprenderemo da dove siamo rimasti l'ultima volta, ragazzi» iniziò lui e mi appoggiai al banco, socchiudendo gli occhi. «Parleremo dei testi di Dante, Mann, Wolfgang...»

Travis Scott soffocò una risatina. Il nome "Wolfgang" a New York era associato ad una gang di teppisti. Lo trovò molto divertente.

«E Aubert» terminò, scoccandogli un'occhiataccia di rimprovero. «Qualcuno sa perché i suoi testi siano così importanti ai giorni nostri?» Nessuno alzò la mano. «Nancy?»

Alzò le spalle. «Perché ha scritto dei libri maledetti.»

«Maledetti?» ripeté il professore, incuriosito dal termine.

«Non erano maledetti, scema!» si intromise Bob Calfy. Era di gran lunga il più intelligente del corso e non avevo ben chiaro perché si trovasse là. «Scrisse l'Indice dei libri proibiti, così chiamati dal Vaticano, perché secondo la Chiesa minacciavano l'integrità del culto. Alcuni dicono che svelò i segreti del Paradiso e dell'Inferno.»

Nancy Clark lo mandò a quel paese e il professore mise tutti all'ordine. «Giusta affermazione, Calfy. Se avessi alzato una mano ti avrei dato un punto. Allora, partiamo con il dire che Guillaume Aubert era un vero e proprio scrittore. Scrisse tantissime opere, articoli e studi a riguardo di vari argomenti, era un vero conoscitore dei campi di scienza e attualità dell'epoca. È ricordato per l'Indice proibito, i cui testi sono conservati al Vaticano, a Roma. La Chiesa lo giustiziò per eresia nel XIX secolo, a Parigi.»

Jennifer Phillips alzò la mano. «Questo sarà nel programma d'esame?»

«No, questo...» La classe espirò sollevata. «Anzi, sì. Studiatelo! La scuola conserva una copia originale di uno dei suoi più vecchi testi!» Scrisse alla lavagna qualcosa con il gesso e si pulì le mani. «Klee. Sai dirmi il titolo di una delle sue opere?»

Misi a fuoco la lavagna. C'era scritto "gufi sulla peschiera" e ci misi poco a capire che non fosse affatto così e che la mia dislessia mi stesse giocando un brutto scherzo. Per quanto ci provassi, le lettere roteavano e mutavano.

«È dislessico» disse Bob Calfy e io strinsi le dita in imbarazzo. «C'è scritto "Gli elfi della brughiera".»

Afferrai dal mio zaino il groviglio azzurro, il mio giocattolo antistress, e cominciai ad arrotolarlo forte. Non lo disse con cattiveria, non era il tipo, ma gli altri risero un po' per la pessima scena e il professore continuò a spiegare. Alla fine della lezione, con i fratelli Scott che tiravano palline di carta e saliva addosso a chiunque davanti a loro (in pratica a tutti dato che fossero in ultimo banco), ruppi il groviglio e dovetti prendere quello di scorta. Il liceo era uno schifo e chi diceva il contrario erano i Senior o i gruppi più popolari.

All'ora di pranzo andai all'aria aperta, nel minuscolo giardino interno del liceo. Era uno spazio ghiaioso con delle panchine di legno ed un albero morto accanto alla porta. Mi sedetti su una delle panche e mi misi le cuffie alle orecchie, mangiando il mio pranzo: un toast con prosciutto e formaggio.

Emma Turner era seduta accanto alla porta della biblioteca. Era decisamente l'unica cosa che non mi facesse detestare questo posto, almeno non del tutto. Faceva parte del gruppo delle cheerleader, era la rappresentante degli studenti del nostro anno ed era la prima della classe. Faceva servizio al bancone della biblioteca per crediti extra ed era davvero splendida, la classica ragazza di cui tutti si sarebbero innamorati: era molto più bassa di me, i suoi capelli erano biondo fragola e gli occhi verdi.

Saltai in piedi e senza perdere tempo andai da lei.

«Ehi, Emma» la salutai e, immediatamente dopo, mi resi conto che non avessi alcun valido motivo per rivolgerle la parola. «Ehi, Emma!»

Infine mi guardò un po' scocciata. «Ehi, As. Ti serve qualcosa?»

«Io...» Le sue amiche la chiamarono e Nancy le disse di darsi una spicciata perché voleva fumare una sigaretta. Si alzò. «Senti, ehm, tu lavori nella biblioteca scolastica, vero? Mi chiedevo se potessi aiutarmi con una cosa.»

Si bloccò sospettosa. «Ti conosco da tempo e non hai mai preso un libro in mano» mi accusò.

«Be', questa è la volta buona.»

«Che libro?»

Conoscevo solo giornalisti che trattavano di architettura e arte, i preferiti di mio padre, o quelli di fantascienza. «Umberto» feci. No, mi maledissi. Non era un cognome italiano. I cognomi italiani finivano tutti con una vocale. «Aubert.» La mia attenzione in classe si era fermata a quel punto.

«Non hai la tessera» sottolineò nervosa. Annuii deluso e lei abbassò le spalle. «Okay, senti, ti faccio fare la tessera e basta. È una prima edizione, non te la faranno mai portare a casa. Per il resto chiedi alla signora Hanne. Io sono... un po' occupata.»

Annuii come un ebete. Conoscevo Emma fin dall'infanzia, tuttavia non avevamo mai passato del tempo insieme. Sapeva che avessi una cotta per lei fin dalla quarta elementare, da quando facemmo la recita scolastica insieme e lei interpretò la principessa Aurora. Tenevo ancora la nostra foto sul comodino.

Prese il suo zaino e mi disse di seguirla dentro la biblioteca.

«Oggi è il mio compleanno» esclamai. «Ti va se dopo la scuola...»

Lei strinse le labbra e Nancy saltellò verso di noi, prendendomi in giro. «Glielo avrai chiesto cinque volte e ti è sempre andata male, vedi di mettertelo in testa. Ti arrenderai una buona volta, spero.»

«È solo per un gelato» mi scusai.

«Certo. Un gelato» continuò Nancy. «Come se non lo avessimo capito. Da quando ti piace leggere? Anzi, sai leggere?»

Un brivido mi scosse le spalle. Non mi piaceva la violenza, tuttavia Nancy mi faceva desiderare di romperle il naso alcune volte. Era una cosa orribile, non ero così tanto psicopatico da non ammetterlo.

«Sto con Jackson, ricordi? E tra voi due... be'...» borbottò Emma.

Jackson era un nostro compagno di classe e giocava a basket nella squadra locale. All'asilo era successo qualcosa tra noi e lui si era fatto molto male, era arrivata persino l'ambulanza e io ero stato espulso. Sua madre, la signora Groove, disse che io gli avessi rotto un braccio di proposito mentre io giurai di non averlo nemmeno toccato. Era stato Jackson a spingermi. Me lo ricordo bene, ma quando una persona finisce con il braccio ingessato è sempre la vittima e persino Emma voleva stare alla larga da me.

Era un'ingiustizia bella e buona, specie se sapevo di essere migliore di Jackson.

«Jackson è solo un idiota» dissi e Nancy rise forte.

«Io cosa sarei?»

Jackson era dietro di me, a qualche passo di distanza, e le sue narici erano aperte come quelle di un toro. Aveva una luce di trionfo negli occhi, dato che per tanto tempo avesse desiderato una scusa decente per mandarmi al tappeto. Indossava la maglia della sua squadra di basket con il numero 14 e delle Nike bianche da ginnastica.

Ammutolii e Jackson, con alle spalle Jay Smith, venne più vicino. Emma si mise in mezzo, allungando le mani. «Lascia perdere, vuole solo un libro.»

«E l'ha invitata ad uscire!» sibilò Nancy.

«Era per il mio compleanno» mi difesi. «E mi ha detto di no, tranquillo.»

«Figurati se uscirebbe con te» mi accusò, premendomi gli occhiali sul naso.

«Lo accompagno in biblioteca e torno» sospirò Emma, prendendomi per un braccio. Mi spinse. «Jackson, ti ho detto di lasciare perdere.»

Il primo anno del liceo mio padre mi aveva iscritto a basket e il problema era che fossi molto meglio di Jackson, il quale giocava da anni. Facevo pena in ogni materia esistente e la mia mira era più che eccellente. Non avevo mai mancato il canestro oltre la linea dei tre punti, il coach rimase stupito ma non volli tornarci. A Jackson non andò giù il fatto che fossi meglio di lui nel basket o forse perché ero proprio io. Con l'adrenalina alle stelle ci vedevo benissimo, persino alcune volte di notte era tutto più chiaro. Sensato. La foschia che annebbiava New York saliva ed era calmo.

Jackson ci voltò le spalle e continuò a dire cose come "è solo un ragazzino con qualche rotella fuori posto" e "persino mia madre dice che ha problemi". Feci del mio meglio per trattenermi, stringevo ancora il mio gioco antistress e contai fino a dieci. Anzi, fino a trenta, per rilassarmi.

Un attimo dopo vidi l'ombra della mattina, il mio zaino mi volò giù dalla spalla e si schiantò sulla testa di Jackson.

«As! Ma sei pazzo?» tuonò Emma fuori di sé, mentre il ragazzo si voltò molto piano verso di me. «È stato un incidente.»

«Incidente un corno, me lo ha lanciato. Il mio pugno lo sarà!»

Jackson balzò verso di me, mi afferrò la maglia e mi gettò a terra per immobilizzarmi. Alzò il pugno sopra la testa e me lo sferrò contro. Sollevai le braccia e gli agguantai il polso per fermarlo. Credette di avere la meglio dato che fossi a terra e fossi la metà di lui, senza muscoli o alcuna lezione di autodifesa, perciò quando lo bloccai ansimò spaventato. Sentii un fischio acuto nel cervello, qualcosa che mi impedii di allargare le dita e lasciarlo andare.

Avvertii i tendini tirarsi sotto la pressione dei polpastrelli e Jackson si liberò con spavento.

Si massaggiò la pelle e gli altri lo fissarono con confusione.

«Sei proprio un mostro» mi giudicò freddo e mi diede un calcio negli stinchi.

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