AU: mondo greco
Anno 477 a.C
Antica Grecia, città di Atene
Le Panatenee era senz'altro il periodo che Lyv preferiva dell'anno. Si trattava di una festa dedicata alla dea da cui la sua città d'origine, la maestosa e ricca Atene, prendeva il nome: la dea Atena, dea della saggezza e della strategia militare. La statua che aveva appena superato, mentre passeggiava per le strade e piazze accompagnata dalla sua fedele Einslyn, rappresentava proprio i lineamenti ed il corpo sinuoso della divinità che ammirava con tutta se stessa.
Forse perché la immaginava come una donna senza timori, in grado di vincere anche la battaglia più dura ed all'apparenza impossibile, ma magnanima e dolce. L'avevano sempre descritta come un essere dalla bellezza sconvolgente, ma che, al contrario della sorella Afrodite, non amava sentirsi al centro dell'attenzione per il suo aspetto fisico, e trovare una persona del genere tra gli umani era praticamente un'impresa ardua. Molti di loro erano narcisisti, dediti solo ai propri piaceri, e per quel motivo lei cercava sempre di distaccarsi dall'opinione generale che si era creata dei suoi concittadini. Seguiva gli insegnamenti che erano stati tramandati dai loro antenati riguardanti la dottrina ateniese, fedele ad ogni parola delle pergamene.
Lyv era nata proprio in quei giorni. La sua venuta al mondo era stata predetta come difficoltosa, un percorso pieno di rovi dai quali tenersi alla larga, ma che sicuramente avrebbe riservato gioia e prosperità per la sua famiglia. E così avvenne: sua madre, Ariadne, patì molto durante il travaglio, ma udire il suo primo vagito fu per lei segno di fortuna, perché aveva coinciso con la prima notte di quelle festività.
La bambina era nata sotto la costellazione della dea Atena.
Si diceva che chi abbandonasse le carni materne e vedesse il mondo esterno avrebbe ricevuto in dono -o motivo di disapprovazione, se si pensa agli sguardi di una società patriarcale molto rigida- di un carattere fiero ed indomito, ribelle ed orgoglioso. Era stato così per la giovane dai capelli del color del cioccolato più pregiato, come quello che vendevano al mercato della capitale greca: al contrario di Gareth, suo fratello più giovane di appena diciotto anni e sempre ligio al dovere, Elyve non sottostava mai alle regole del padre, e se lo faceva, il suo bel volto si raggrinziva in una smorfia di noia e patimento.
Jeremy, uno dei generali più ammirati dall'intera popolazione greca, non era quasi mai a casa, poiché, a causa del suo ruolo senza dubbio importante, doveva viaggiare e combattere per la conquista di altri territori d annettere al grande regno ellenico, ma, quando tornava, era sempre una festa per la loro famiglia. La giovane amava suo padre, e quel bene immenso era ricambiato, nonostante i tremendi dissapori e divergenze di opinioni.
Gli attriti purtroppo formavano sempre un muro che li divideva: al contrario di Gareth, il quale si stava preparando a seguirne le orme -e per quel motivo erano sempre in sintonia-, lei spesso ci litigava, perché non voleva sposarsi con qualche sconosciuto pretendente per mettere su famiglia oppure partecipare alle grandi feste dei suoi compagni. l'unica cosa su cui si trovavano d'accordo era l'allenamento: Jeremy ci teneva che i suoi figli sapessero difendersi, quindi la giovane donna era cresciuta tra le mura dell'armeria, ferro e spade.
Ma lei non desiderava limitarsi a scagliarsi contro un manichino che a malapena si reggeva in piedi sotto i suoi fendenti spietati.
Lui voleva imparare a combattere. Voleva la libertà e l'avventura, due privilegi che venivano sempre riservati al genere maschile, a quel mondo che era lontano da lei per il suo aspetto fisico. Voleva vivere nell'ignoto e viaggiare senza preoccuparsi di cosa avrebbero pensato nel vederla salpare da sola.
Ma quel giorno non avrebbe cercato di convincere il generale delle sue idee e dei suoi desideri, come stava cercando di fare da qualche settimana: quel giorno era il suo ventiquattresimo compleanno, e lei aveva ottenuto il permesso di andare ad assistere agli allenamenti dei Prescelti, un manipolo di uomini che Jeremy si era proposto di allenare per proteggere . Da quanto era riuscita a captare da dietro la porta del suo ufficio, il padre aveva spiegato al figlio più giovane della sua intenzione di sottoporre un gruppo di soldati scelti a degli esercizi speciali per poterli definire quasi invincibili e metterli a guardia del palazzo dei sovrani. Si era incuriosita, e, dopo tanto insistere, era riuscita a scucire dalle labbra dei suoi genitori il loro consenso.
E lei era felice, perché poteva uscire fuori di casa da sola, accompagnata dalla sua fedele Einslyn, la sua unica amica in quel mondo, e vedere come suo padre avrebbe impostato quell'allenamento di cui si era vantato.
Entrò in un'arena ampia, il cui spazio ovale al centro era molto ampio e circondato da alti gradoni di pietra grezza, rovinata sui lati ruvidi a causa del tempo. Vedere come il tempo fosse l'unico ad avere davvero potere nel loro mondo, Elyve ne era affascinata: pensando al futuro ed ai secoli che sarebbero venuti dopo, sicuramente il tempo avrebbe migliorato le cose. Al mondo esistevano due tipi di persone: quelle egoiste, che amavano pensare solo a sé stessi, e grandi altruisti che avrebbero portato il mondo in una nuova era. Lei ne era certa.
Dall'alto della sua posizione, nella calda di soldati addestrati che si stava dando da fare per allenarsi, Elyve vide suo padre mentre correggeva con tono fermo i movimenti di un giovane dal volto coperto da una maschera.
«E quello cosa sarebbe? Stai pulendo casa? Fai vedere che sei un uomo e non una casalinga! Mettici più grinta!» l'urlo di Jeremy risuonò nell'arena, e sebbene il tono di voce era più che altro aggressivo, ebbe l'effetto sperato: il suo sottoposto si mosse così velocemente da non riuscire a vedere le movenze, e l'avversario che stava sfidando si ritrovò ben presto a fare i conti con la durezza del terreno sterrato sotto di lui, colpendolo con la schiena.
«Vostro padre mantiene sempre quel cipiglio severo anche con i suoi soldati.» notò la bionda con un sopracciglio inarcato ed un'espressione di compassione. «Ed io che pensavo che fosse così solo a casa.»
La sua padrona scosse la testa. «Mi dispiace per loro, ma non posso negare che, in quanto riguarda i combattimenti, papà è il migliore.» le sorrise. «E poi, quante volte ti ho detto che non c'è bisogno di essere così formale quando non ci sono i miei genitori? Sei la mia migliore amica!»
Einslyn le sorrise timida, con le gote rosse non solo per il calore del sole. «Scusa, è la forza dell'abitudine.» ridacchiò, e così facendo non si accorse di aver attirato su di sè lo sguardo incuriosito di un ragazzo nell'arena. Era molto alto, troppo smilzo per la sua statura, ed il viso smagrito era contornato da una matassa di capelli biondi che facevano risaltare gli occhi castani. A dispetto delle regole non scritte della società, secondo cui le guardie dovevano solo servire e non erano degni dell'attenzione dei nobili, Elyve chinò leggermente la testa in segno di saluto. Sorrise quando lo vide arrossire vistosamente e lo guardò correre verso il prossimo avversario.
Passarono dieci minuti, durante i quali lei aspettò che suo padre richiamasse a sé il gruppo colmo di testosterone prima di cominciare a scendere i gradoni in pietra. Era a metà strada, quando notò con la coda dell'occhio che il suo genitore la stava indicando, facendola diventare il centro dell'attenzione di almeno dodici paia di occhi. Elyve li avvertiva pressanti su di sé; seguita da un'arrancante Einslyn, si costrinse ad alzare il volto fiera e passare attraverso il corridoio umano che quei uomini avevano creato per permetterle di raggiungere Jeremy.
Nel momento in cui si mise al suo fianco, Elyve sorrise all'unico sguardo che le era amico: tra la calca, suo cugino Aidan le stava rivolgendo un'occhiata felice, anche se lei stessa sapeva che sarebbe stato ancora più entusiasta quando si sarebbe accorto che anche Einslyn era lì. Era a conoscenza della cotta reciproca che avevano l'uno per l'altra, come aveva il presentimento che otto anni di distanza non avevano in nessun modo influenzato negativamente quel sentimento.
«Questa, cari i miei sottoposti, è mia figlia Elyve.» Jeremy attirò la sua attenzione, presentandola a quel cumulo di testosterone. «È stata allenata sin dalla tenera età, e se è qui è perché anche lei ha bisogno di ampliare i suoi orizzonti.»
Con stizza e fastidio, i pugni di Elyve si strinsero in ferree prese quando udì delle risatine alzarsi, ed una voce deriderla con un: «È una donna! Pensa davvero che riuscirà a batterci?»
Guardando negli occhi tutti loro, estrasse la spada dalla fodera che portava appesa alla sua cintura e la puntò contro il gruppetto. «Non so da quale fogna voi veniate, o se siete nati in una torre d'avorio, ma una cosa di cui sono certa è che un errore che spesso i combattenti fanno è sottovalutare un avversario. Soprattutto se questo è una donna.» il suo sguardo smeraldo si fece tagliente, di sfida. «Vorrei tanto conoscere le abilità di colui che mi ha tanto sbeffeggiato senza conoscere le mie, e capire se queste si abbinano alla sua presunzione.»
Tra di loro, si fece avanti un uomo fin troppo corpulento. I genitali coperti a malapena da un drappo di stoffa rovinato, i suoi muscoli sembravano strapparsi sotto la pelle per quanto erano grossi e duri. Era pelato e gli occhi infossati, arrossati dalla cattiveria e messi in risalto dal sorrisetto sarcastico. «Bambina, la mia sicurezza viene proprio dal mio sapere maneggiare le mie armi.» da dietro la schiena sguainò due scimitarre affilate, lunghe un metro e mezzo, con un movimento fluido. «Se il Maestro me lo consente, vorrei potervi sfidare.»
Entrambi lanciarono uno sguardo a Jeremy, il quale annuì. Non appena la sua testa tornò in posizione diritta, attorno a loro si creò un'arena umana, composta da tutti gli allievi di suo padre. Sia Elyve che il suo rivale si misero in posizione di difesa, pronti ad iniziare lo scontro, e solo ad un cenno si scagliarono l'uno contro l'altro.
Lyv non riuscì a trattenere un sorrisetto. Sapeva di avere già la vittoria tra le mani: quell'uomo era grande e grosso, una lingua troppo lunga per quelle che erano le sue attuali capacità. I soldati troppo muscolosi avevano il difetto di non saper coordinare velocità e forza; o si era agili, o si era forzuti. Per questo, per lei, fu semplice sfuggire ai suoi fendenti ampi e pesanti: la sua figura femminile, sottile ma muscolosa, si faceva strada senza pietà, passandogli attorno fulminea. Con il suo occhio di falco, la lama della sua spada, impreziosita da un rubino, colpì sicura i punti che sapeva lo avrebbero danneggiato abbastanza senza imporgli danni permanenti.
Trovandosi alle sue spalle, si aspettò che l'uomo stendesse il braccio all'indietro e lo facesse ruotare nella sua direzione senza girarsi minimamente. Errore molto grave, perché Lyv si era abbassata e, caricando sui talloni, colpì il retro del ginocchio destro ferendolo. Lo superò, e solo quando udì il tonfo alle sua spalle si concesse di tirare un sospiro stanco.
Voltò solo il viso verso di lui: prostrato in un inchino forzato, il suo avversario si teneva la mano destra sul ginocchio adiacente, mentre quella sinistra il gomito sinistro; dal polso sinistro e il retro della caviglia destra scendeva copioso sangue da ulteriori tagli.
La guardava con furia negli occhi, e lei si sentì vittoriosa, superiore. «Ti starai domandando come sia possibile che una donna conosca i punti da colpire.» girandosi, si mise la lama della spada appoggiata alla spalla, una mano sul fianco. «Tendine rotuleo, il tendine del polso, tendine di Achille ed epicondilo mediale: in ordine, ho colpito le terminazioni fibrose del ginocchio, polso, caviglia e gomito in maniera tale da interrompere il legame tra ossa e muscolo. Lacerandoli in maniera forzata, non ti ho permesso di continuare lo scontro perché non puoi controllare i muscoli ed i movimenti ad essi collegati. Ti serviranno settimane di riposo prima di tornare ad allenarti.» infilò la spada nella sua fodera e lo osservò fredda. «Questa è la tua punizione per aver pensato che una donna come me sia inferiore ad esseri come te, capaci di vederci solo come un arredo della loro vita e non come persone forti e capaci. Non siamo state create solo per prenderci cura della casa, del marito e dei figli; anche noi possiamo mettere mani sulle spade, studiare, combattere. Che ti sia di lezione.»
Attorno a loro, il silenzio. Gli uomini che la circondavano la stavano guardando senza più ribrezzo o dubbio, tutti loro l'ammiravano in silenzio con gli occhi spalancati. Elyve alzò lo sguardo, e colui che vide davanti a sé lasciò lei senza fiato, e non per la fatica.
Era di una bellezza mascolina che pochi, in quella città possedevano. La mascella rigida ma definita, i lineamenti seri ed affilati che facevano risaltare gli occhi più blu che avesse mai visto; non era di quel blu delle onde del mare che si infrangevano sulla spiaggia, né il blu del cielo all'imbrunire. Era il blu delle notti più scure, il blu dell'oceano più profondo, un blu così vicino al nero dentro al quale lei si stava perdendo sotto quello sguardo più incuriosito che ammirato. I capelli neri erano smossi dalla leggera brezza che anche lei sentiva sulla sua stessa pelle; non sapeva però se i brividi che la sconquassavano fossero dovuti dall'incontro del venticello fresco contro la sua pelle imperlata di sudore o dal desiderio di sapere se quella matassa lucida fosse morbida come pensava.
Inutile commentare il suo fisico: era ben messo, lo vedeva anche da sotto la larga casacca ed i larghi pantaloni. Le spalle larghe, il petto ampio e muscoloso, i fianchi stretti messi in evidenza dalla cintura che portava in vita per reggere la spada probabilmente durante le pause. Guardando alla sua spada, decisamente più lunga e pesante della sua, poteva dedurre che fosse abbastanza forte per poterla reggere con una sola mano, compiendo però movimenti veloci e precisi. Con la sua postura perfetta e l'aspetto di un nobile, poteva benissimo passare per uno di loro; il bellissimo viso e corpo erano sicuramente oggetto di sogni ad occhi aperte delle sue coetanee.
Si accorse di aver trattenuto il respiro e di non aver distolto il suo sguardo da quello di lui quando la mano di suo padre si posò sulla sua spalla. «L'allenamento di oggi si è concluso. Potete tornare a casa.»
Quella sera, Elyve si sentiva soffocare. Si scusò con la sua famiglia e si allontanò verso la sua camera, ma all'ultimo virò verso l'esterno. Si affacciò sulla soglia dell'entrata, la sua figura coperta dall'ombra imponente delle colonne dal capitello corinzio che accoglievano per prime gli ospiti. Si coprì le spalle scoperte dal peplo con uno scialle, lasciandosi cullare dalla melodia segreta che la luna sembrava cantarle.
Fece qualche passo, scendendo leggiadra i pochi scalini che separavano i suoi piedi scalzi dalla nuda terra che costituiva le strade. Solo allora si accorse di un'ombra, la quale si nascondeva dietro alla colonna che aveva appena superato.
La schiena appoggiata al granito bianco, le caviglie incrociate e le braccia legate al petto, il ragazzo dai profondi occhi blu la stava fissando con la stessa intensità di quel pomeriggio. Portava una tunica pulita, bianca con inserzioni blu oltremare, con la cintura e la spada assicurata ad essa. Anche con quegli abiti semplici era da togliere il fiato, cosa che a quanto pare doveva capitarle spesso in sua presenza.
Cercò di recuperare il suo solito piglio sicuro e sfrontato. «Per tutti gli déi!» si portò una mano al cuore, lanciandogli un'occhiataccia. «Non credo che mio padre vi abbia insegnato a tendere un agguato davanti alle case.»
«Di solito non lo faccio, ma questa sera non ho resistito. Ero curioso di sapere se la ribelle figlia del comandante sarebbe uscita di casa.»
«Dovevi essere sicuro che io sarei uscita perché la tua curiosità fosse così forte.» Lyv intrecciò le braccia al petto, guardandolo di sbieco. «Dimmi la verità, uomo di cui non conosco il nome: mi spii?»
«Diciamo che da quando tuo padre ha iniziato a parlarci di quanto sua figlia fosse migliore con la spada di tutti noi messi assieme, ho trovato soddisfacente lanciarti qualche occhiata durante le festività.» il giovane uomo le si avvicinò, tanto che tra i loro visi c'erano pochissimi centimetri. «Sei bella ed intelligente, scaltra ed astuta: non dovresti essere sorpresa che gli uomini posino lo sguardo su di te.»
«Lo posano perché si limitano a guardare la grandezza del mio seno e si chiedono se la mia corporatura mi permetterà di avere una lunga stirpe di soli eredi maschi da addestrare.» la figlia del generale si sentì avvampare sotto il peso di quei complimenti. Nessuno dei pretendenti che suo padre le aveva imposto di frequentare l'aveva mai voluta vedere con la spada tra le mani, né avevano mai voluto udire la sua opinioni sulle strategie di guerra. Vedere che c'era qualcuno che riconosceva le sue conoscenze ed abilità la metteva a disagio ma la faceva anche camminare ad un metro da terra. «Comunque, sto ancora parlando con te senza sapere la tua identità.»
Lui le sorrise, prendendo una ciocca di capelli di lei che era scappata dalla folta capigliatura. Ne saggiò la morbidezza tra le dita, mentre rispondeva. «Speravo di raggirarti, ma ahimé, non ci sono riuscito.» assicurò la ciocca dietro ad un orecchio di Elyve, permettendosi di sfiorarle la gote. La scossa che provenne dal quel misero contatto li fulminò. «Sono Keydan.»
«Keydan? Quel Keydan?» Lyv aveva gli occhi che più sgranati non si poteva. «L'unico ed illegittimo figlio del re? Il principe ereditario?»
«Così dicono.» il non più sconosciuto uomo alzò le spalle, insofferente. «Non amo molto quel titolo, e gli allenamenti feroci che tuo padre ci sottopone mi da la possibilità di tornare a respirare.»
«E perché mai? Insomma, diventerai il prossimo re, hai tutta Atene hai tuoi piedi; sei ricco, bello, venerato dalle donne ed ascoltato da tutti. Quale sarebbe il problema?»
«Che tutto quello che voglio non è ricchezza e bellezza, anche se devo ammettere di essere lusingato che tu sia rimasta incantata dal mio fascino.» le sorrise brevemente, prima di rabbuiarsi. «Quello che desideravo era avere una famiglia che mi amasse. Invece mia madre è morta, mio padre si interessa a me solo per proiettarmi addosso le sue aspirazioni, mentre la mia matrigna mi odia perché rappresento l'infedeltà di suo marito. Vengo amato dal popolo, ma in realtà i nobili mi vedono come un essere indegno, un plebeo che non merita il loro rispetto. Mi sottostimano, pensano che mi stia approfittando del mio benessere per comprarmi le persone.» le sue mani corsero ai fianchi, sfiorando il calco della sua arma. «Penso che io te siamo simili: io rifiutato, tu disapprovata perché vuoi combattere.»
Elyve si sentì spezzata in due. Keydan aveva ragione: nonostante le diverse ragioni, entrambi erano reietti. Capiva quello che provava, per questo gli appoggiò una mano sull'avambraccio definito e gli parlò con il cuore in mano: «Conosco le tue emozioni. Le provo su di me ogni giorno, ogni volta che sento le signore dell'alta società giudicare i calli delle mie mani, i muscoli troppo definiti, le cicatrici delle ferite che mi provoco in allenamento. Ma penso che, se veniamo rifiutati, è perché non accettano che noi siamo probabilmente migliori di loro. Siamo abbastanza coraggiosi da andare contro le regole, da sfidare i molti della società rigida e senza vie di scampo. Possiamo solo andare avanti e dimostrare loro quanto si sbagliano su di noi.» gli sorrise, stavolta sincera. Con quelle parole, intendeva confortare lui e dare uno slancio a se stessa, per continuare ad essere Elyve e non solo "la figlia del generale".
Fece per staccare il palmo dalla pelle calda di lui, ma, prima di poterlo fare, Keydan le prese la mano e, con un inchino appena accennato, gliene baciò il palmo. Le nocche si infiammarono come le sue guance, e, quando i loro sguardi si legarono nuovamente, lo sentì dentro di sé: in ogni fibra, in ogni cellula, nella sua anima.
Si sorrisero complici. Il ragazzo la lasciò andare e si allontanò di un passo. «Che ne dici se ci incontrassimo di tanto in tanto, solo noi due? È davvero piacevole parlare con te e stare in tua compagnia.»
«Mi farebbe davvero piacere.» Lyv si strinse nel suo scialle. «Potremmo anche allenarci insieme, di tanto in tanto, quando non hai da fare con i tuoi doveri principeschi o con mio padre. Ho come la sensazione che potrei imparare qualcosa da te.»
«Ed io da te, piccola guerriera.»
Si salutarono, e, mentre lo guardava allontanarsi, si portò una mano al petto. Il suo cuore continuava a batterle furioso ma dolcemente, pompato dalla speranza che la possibilità di rivederlo fosse in un futuro prossimo.
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