CAPITOLO 1 - VICOLI DI OMBRA (Parte IV)
Engoras non riuscì a dire una parola; si limitava ad ansimare nervosamente. Era l'unica protesta che poteva concedersi. In cuor suo sapeva che non avrebbe potuto far niente per opporsi: sebbene portasse con sé un pugnale, il male alla spalla destra gliene impediva l'utilizzo. E d'altronde non aveva nessuna sicurezza di riuscire vincitore da un duello con il misterioso e cupo avversario.
Il cavaliere dal canto suo sembrò non gradire quell'attesa, e capì di dover essere più convincente.
Risollevò con calma il busto tetramente drappeggiato, e lasciò che il temuto guanto rosso si inabissasse nuovamente nel suo manto scuro per poi fuoriuscirne con una minaccia peggiore di quelle già esibite.
Nera al pari di quella notte maledetta, a pochi centimetri dal volto di Engoras egli sospese una grande, spessa e strana arma. Appariva come una spada, ma fatta di vetro, scolpita, appuntita, affilata senz'altro da una qualche sapienza demoniaca.
Estremamente vicino alla sua pupilla – tanto da permettergli di apprezzarne la micidiale bellezza – il lungo cristallo era simile ad un diamante nero, sfumato dai riflessi blu e grigi che si nutrivano della scarsa luce della stradetta. La sua lama aveva un profilo simmetrico, che si allargava e divergeva con spigoli ad angolo acuto poco prima della punta, la quale diveniva molto ampia assieme alle due sporgenze laterali formando una sorta di piatto martello acuminato. Un altro duplice angolo, più largo, era presente presso l'elsa, che traspariva dalle fini stringhe di cuoio utili ad una presa più sicura, e che era composta anch'essa dello stesso nerissimo cristallo. Lo spessore e la lunghezza di quella lama erano a dir poco sproporzionati, tanto da far pensare ad un peso indubbiamente eccessivo per la maggior parte dei normali guerrieri.
Ma al di là di questo, Engoras non poté evitare di notare poco dopo un ulteriore particolare che lo lasciò del tutto sconcertato.
Convinto che ciò che stava vedendo fosse frutto dell'incubo che ormai lo aveva completamente inghiottito, egli si accorse di alcuni filamenti rossi, violacei, grigiastri, che – ora fini ora più spessi – percorrevano la lama vitrea per quasi tutta la sua lunghezza, convergendo ed annodandosi in prossimità della punta.
La sua lucidità era senza dubbio instabile in quel frangente, e a ciò egli dovette dare la colpa per un'interpretazione che gli balenò nella mente e che avrebbe volentieri scacciato per non accrescere ulteriormente il suo orrore.
Ma gli occhi indagarono ancora: troppo vicini al pericolo, troppo dilatati dalla paura, essi non potevano mentire.
Ora ne era certo.
Quei sottili filamenti, quelle nervature color sangue non potevano essere altro: vene; vene che attraversavano completamente quell'arma, la quale pareva adesso pulsare, vivere, alimentata da esse.
Non era un oggetto, dunque, ma un essere ad ipnotizzare la pupilla vacillante dello sventurato.
E presto un sottofondo ancora più insolito, impensato e sinistro, giunse a completare quello scenario, facendolo piombare nell'atmosfera più angosciosamente surreale che Engoras potesse mai immaginare.
La fonte del lugubre suono pareva essere ancora una volta la spada nera.
Un lamento, dapprima smorzato e rotto, che salì rapidamente ad un lungo, intenso, insistente pianto assolutamente irreale; un gemito straziante, per metà di tristezza e per metà di protesta: il pianto afflitto e pietoso di un bambino.
Engoras iniziò a respirare con maggiore difficoltà.
"Questo... questo non può... non può essere, non può essere vero... non può accadere..."
Mentre farfugliava in silenzio, tutta la razionalità di cui un avido calcolatore come lui si era sempre vantato andava in frantumi, violentata da quell'incubo troppo dannatamente concreto.
Il pianto proseguiva, e sembrava aver stranamente paralizzato anche il cavaliere.
Ed in ultimo, un ennesimo dettaglio bizzarro fece la sua inimmaginabile comparsa, provvedendo a scuotere stavolta entrambi: sulla punta di quella infernale arma iniziò a raccogliersi lentamente un liquido che presto cominciò a spargersi sul viso di Engoras in piccole gocce terse, come quelle nate da una sottile pioggia estiva o dalla rugiada dell'alba.
Erano gocce leggere e tiepide.
" Non può essere... Queste... queste sono..." continuava a balbettare Engoras nella sua mente, mentre riconosceva la natura di quel liquido che gli era parso quasi estraneo, tanti erano gli anni trascorsi da quando esso era sceso spontaneamente sul suo volto.
"Lacrime...", sussurrò con le labbra tremanti e sbiancate.
Fu a quel punto che il cavaliere, vistosamente infastidito ed innervosito del tutto, spostò con uno scatto la punta dell'arma dalla maschera d'incredulità del mercante.
Con gesti svelti e incuranti avvolse la carcassa malconcia di Engoras utilizzando il mantello bruno che ancora lo ricopriva per buona parte.
E come un sacco di merce di poco conto lo scaraventò sui fianchi poderosi del cavallo che era stato diligentemente in attesa.
Il tenebroso fantasma rimontò in sella e si rimise in marcia con galoppo spedito.
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