CAPITOLO 1 - VICOLI DI OMBRA (Parte I)
Posso toccarlo, eppure non riesco a sentirlo...
È sempre accanto a me, ma al contempo ci divide una distanza incolmabile...
Dovrei proteggerlo ad ogni costo, ed invece non posso evitare che il sangue continuamente lo ricopra...
E sebbene sia il frutto più adorabile del mio amore, probabilmente non mi sarà più concesso di amarlo. . .
Quella notte era dipinta dal chiarore della luna e da nubi violacee striate su un cielo simile ad un lapislazzulo terso.
In quella notte, più di molte altre, i vicoli di Efreim, avvolti nell'umida, flebile calura di fine estate, brulicavano di vita nel cinquantenario della fondazione della città.
A molti era apparso quasi miracoloso un tale improvviso sviluppo: da cittadina portuale a grande e ricchissima capitale d'importazione ed esportazione; e il tutto in appena mezzo secolo. Un vero vanto per il Reame di Zonthar che – cosa più importante – ne riscuoteva tributi tra i più cospicui.
A buon diritto, dunque, era festa ad Efreim.
Mille erano gli odori che ne permeavano l'aria, rendendola invitante alla curiosità forestiera.
Mille e più i colori provenienti dal caleidoscopio delle merci esposte con opulenza dai fornitissimi empori, dai bagliori dei laboratori artigiani ancora attivi a tarda ora per soddisfare la costante domanda di beni d'ogni genere, e specialmente dalle numerose candele delle locande, messe ad illuminare sui davanzali delle finestre affacciate sulle viuzze, o apposte alle insegne in cui era grossolanamente intagliato il nome del locale, o ancora racchiuse nelle lanterne di bronzo appese agli stipiti delle porte grezze e saggiamente robuste.
Proprio quelle numerosissime candele caratterizzavano particolarmente l'aria e l'atmosfera notturne, che – sature del fumo e delle polveri derivate dal passaggio assiduo dei visitatori – assumevano un ipnotico e denso colorito dorato.
Era decisamente festa ad Efreim.
E risuonavano in quei vicoli gli schiamazzi, i saluti, le risate, le contrattazioni, le liti che sovente scoppiavano tra i mercanti ed i numerosi avventori provenienti dalle più disparate zone del Reame; ne derivava una chiassosa effervescenza, quella vivace baldoria che era il carattere inconfondibile di quel centro di vitalità certamente foriero di esperienze ed emozioni.
Era festa ad Efreim.
Ma in quella dimensione vistosamente caotica – e, di fatto, del tutto confacente ad una capitale mercantile – d'un tratto qualcosa, al contempo familiare ed insolito, irruppe in maniera inaspettata.
Si faceva largo tra i vicoli un rumore che, sebbene consueto, sembrava assumere toni sempre meno rassicuranti man mano che si avvicinava.
Caratteristico era, in quelle zone, udire la corsa selvaggiamente spronata di un cavallo; specie quando questo cercava di mettere al sicuro il ladro di turno che si fosse cimentato in uno dei frequentissimi tentativi di furti e rapine, perpetrati di solito ai danni di qualcuno dei mercanti cittadini.
Nulla di strano, anzi.
Fu ciò che pensò la gente – costantemente incuriosita – indirizzando il capo verso la fonte del rumore, pronta a vedere materializzarsi da un momento all'altro l'eccitante scena di fuga fantasticata.
Ma più l'eco della cavalcata diventava vicina e più tale aspettativa gradualmente mutava.
Erano zoccoli insolitamente forti e pesanti quelli che stavano scheggiando spietatamente le pietre di pavimentazione – già consunte dall'usura di migliaia di transiti – di Via Elantia, una delle arterie maggiori della città.
Assieme a quel martellamento cominciavano ad alzarsi poi urla e strepiti di gente che cercava di scansarsi, di trovare riparo o che, più sfortunatamente, era sbalzata per terra senza alcun riguardo.
Come il propagarsi di un'onda nata da un enorme masso gettato in acqua, il crescente spostamento della folla annunciava visivamente quel fragore apportatore di sventura.
La cavalcata sprezzante e impassibile sembrava essere l'annuncio della rettitudine, della severità, del giusto castigo che si facevano finalmente largo in quel luogo perlopiù dominato dallo spregiudicato profitto.
Sembrava voler punire col suo inesorabile passaggio l'avidità, l'ingordigia, la disonestà che reggevano le oscure fondamenta di quella città di mercanti arricchitisi in brevi anni, grazie alla furba attività che una società come quella rendeva possibile.
Quella violenta cavalcata che sconvolgeva la notte di Efreim era il messaggio di punizione per uno di quei mercanti, in particolare.
Engoras imboccò, scivolando e arrancando sulla strada lastricata, un angusto vicoletto di Via Elantia.
I suoi occhi azzurri avevano perso del tutto l'espressione spavalda esibita in anni ed anni di cinici affari; apparivano sconvolti sulla maschera biancastra del volto, al di sotto dei lunghi capelli castani che, sudati nell'impulso disperato della corsa, gli si attaccavano alla fronte ed al naso aquilino disegnando arabeschi irregolari.
Per sua fortuna, la giovane età e soprattutto la sua vanità gli avevano permesso di conservare un fisico piuttosto asciutto, a differenza della maggior parte dei commercianti del posto, comunemente grassocci al pari delle loro ricche borse. Engoras continuava quindi a correre, senza fermarsi nemmeno per riprendere fiato.
Imprecava ferocemente tra i denti allorché, dovendo sostenersi con le mani a causa delle frequenti cadute, spezzava le unghie curate, o graffiava le gemme dei suoi anelli d'oro, oppure spiegazzava la camicia ed il panciotto di seta ricamata, o ancora strappava i calzoni di delicato velluto bianco insudiciati dal fango che ormai gli aveva ricoperto completamente le ginocchia, nella fuga resa scomposta da stivali alti ed eleganti, ma poco adatti alle pietre grezze dei vicoletti meno frequentati.
Guardando all'indietro, e sentendo minacciosamente avvicinarsi l'eco di zoccoli scalpitanti, tuttavia, in luogo di tali vane frivolezze subentrò ben presto in lui un'angoscia di maggiore peso: la paura gradatamente cresceva nel suo petto, attanagliando inesorabilmente il respiro e le forze.
Si sorprese per il fatto che – in un frangente simile – tale sensazione stesse inizialmente riportando alla mente vicende legate alla sua attività passata, un'attività che, per sua natura, lo aveva visto di continuo impegnato a scappare proprio come stava facendo in quella notte.
Strizzò nervosamente gli occhi per distogliere l'attenzione da quei ricordi stranamente ed inutilmente nostalgici.
Eppure qualche istante dopo, per assurdo, quella stessa sensazione e quei ricordi del passato servirono a risvegliare in lui un senso di prontezza ed un istinto di sopravvivenza che da tempo si erano assopiti, nella sicurezza che la nuova ed agiata posizione sociale gli aveva procurato.
Senza rallentare minimamente l'andatura spasmodica, e senza distogliere lo sguardo per decifrare il dedalo di viuzze che gli si paravano velocemente davanti, afferrò la piccola bisaccia che teneva sul fianco sinistro, ben nascosta al di sotto del panciotto, ma sempre a portata di mano. Infilandovi la destra trovò un qualcosa che non si sarebbe mai immaginato di dover usare ancora.
Era stato l'istinto? Era stato il senso di prudenza riconducibile al suo vecchio "mestiere" che lo aveva spinto per tutti quegli anni a conservare quel manufatto e soprattutto ad assicurarne la presenza nella bisaccia in cui portava gli oggetti di uso più frequente?
Engoras abbozzò un sorriso di sfida alla sorte, come gli capitava di fare tutte le volte che si era imposto di cavarsela, assecondando l'atteggiamento volitivo che lo aveva portato fin dov'era arrivato; strinse tra le dita l'angolo di un sottile velo di stoffa che – sperava – gli avrebbe salvato la vita. Anche quella volta.
Ora il fiato stava definitivamente esaurendosi. Non avrebbe potuto proseguire oltre.
Con un caparbio sforzo, sveltendo ancor di più il passo, terminò l'ultimo tratto in cui si era immesso.
Quindi si bloccò di scatto, scivolando per l'ennesima volta sul viscido selciato.
E rialzatosi con un'ennesima imprecazione – ma prudentemente più soffocata stavolta – si pose per brevissimo tempo al di sotto di una lanterna che gli favorì un rapido orientamento, poi infilò alla destra dell'incrocio che aveva raggiunto.
L'eco dei suoi passi si perse in una strettissima svolta ancora più buia di quelle attraversate, perfetta per ciò che aveva in mente.
Trascorsero pochi istanti, e la stessa lanterna che aveva aiutato il mercante a decidere la via in cui cercare rifugio rischiarò con un cono di luce giallognola e tremante una enorme, possente figura che emergeva fieramente dall'oscurità.
Un alto cavallo dal brillante manto nero continuava ad incedere, ora con solenne lentezza, essendo fermamente trattenuto da redini rette con fare sicuro; avanzava lasciando fluttuare una folta e lunga criniera grigio-cenere nell'umidità della stretta stradina incastrata tra gli alti piani delle case.
Sfogando l'impeto che sino a poco prima lo aveva eccitato, il poderoso animale sbuffava dalle profonde narici alzando ed abbassando con energia il collo splendidamente massiccio e muscoloso, ed agitando nervosamente il capo quasi a voler sfidare la saldezza del morso e della piastra di lucido metallo inciso che gli ricopriva con eleganza gran parte della fronte, ma che non riusciva a celare né ad eguagliare il lampo di quegli occhi nerissimi e vitali, dilatati dallo sforzo del galoppo appena concluso.
Conscia della necessità di calmarlo, una mano coperta da un guanto di prezioso velluto scarlatto si posò con delicatezza sul morbido crine del destriero, che sembrò ubbidire ad un tacito comando.
Statico nella sua nobile postura, esso si limitava dunque ad emettere il suo cavernoso respiro, lasciandolo riecheggiare nel silenzio dell'attesa; un'attesa che durò tuttavia qualche attimo.
La decisione del suo cavaliere lo costrinse presto a muoversi di nuovo; questa volta al passo.
Le redini tiravano verso destra.
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