Epilogo
2 Marzo
L'altopiano del continente occidentale era coperto da una fitta vegetazione. Si erigeva ad oltre duemila metri sul livello del mare ed era costituito da una grande pianura, intervallata da valli e crepacci. In gran parte era inesplorato: quasi nessuna delle centinaia di spedizioni tentate nell'ultimo millennio era mai rientrata a casa dopo avervi messo piede.
Dalle estremità della grande pianura sgorgavano le sorgenti dei grandi fiumi sotto forma di immense cascate, vicino alle quali le tribù indigene montane avevano costruito i loro villaggi. Ogni umano ignorava quali generi di mostri potessero abitare quell'altopiano, e nessuno sarebbe mai stato così pazzo da avventurarvici da solo. Nessuno eccetto il giovane uomo basso e biondo che già da diverse ore stava venendo trascinato da alcuni indigeni, che lo avevano bendato con un sacco di foglie non appena lo avevano trovato.
-L'abbiamo beccato mentre si arrampicava sulla scarpata.- disse ad un certo punto uno degli indigeni spintonandolo per farlo cadere in ginocchio. Dovevano essere arrivati a destinazione.
-Non è del tutto vero!- protestò l'uomo, sorprendendo i suoi interlocutori: a quanto pare parlava la loro lingua. -Ero già in cima da un giorno, mi stavo calando per nascondermi qualora aveste avuto intenzioni ostili.-
Anche con gli occhi bendati, egli riusciva a fissare proprio nella direzione di chi aveva parlato: un indigeno in chiaro sovrappeso con due dita mancanti alla mano destra.
-Chi sei? E perché sei qui?- a domandarlo era una persona dalla voce femminile.
-Mi chiamo Oscar: sono un sacerdote del Viaggiatore.- disse l'uomo con orgoglio. -Non indosso il saio del mio ordine perché mi era scomodo nella scalata: son fuggito dal Castello dopo che dei banditi lo hanno preso.- rimase in silenzio per un momento.-
Levategli il cappuccio. Ma rendetelo inoffensivo!- disse ancora la donna.
Qualcuno iniziò a scioglierglielo ma, prima di levarlo del tutto, gli misero sotto il naso qualcosa che Oscar non poté fare a meno di annusare: era una sorta di polvere bluastra, con un forte odore floreale.
Appena tornò a vedere, capì che qualcosa non andava: davanti a sé vedeva un'indigena con la pelle più dorata di quella delle persone che aveva conosciuto sul lago: essa montava una specie di animale lanoso, alto almeno tre metri, con la pelliccia alternata a rami, edera, muschio ed erbe, ed un grosso corno sul muso, la cui punta gli sfiorava la gola.
Il monaco era in procinto di parlare, ma tutto si annebbiò: delle nubi scure iniziarono a diffondersi dalle bocche degli altri indigeni e dalle narici della bestia, che assumeva ora un'aspetto ancora più sinistro: attorno a sé l'uomo poteva sentire ogni rumore amplificato di dieci volte, ed ogni figura che vedeva pareva assumere connotati mostruosi.
L'oscurità si diffuse nelle sue orbite, mentre il suo udito diveniva ad ogni secondo più sensibile ai rumori, tanto che ogni respiro di indigeni ed animali gli arrivava con la potenza di un urlo. Oscar cacciò un grido di terrore e svenne.
*
L'alba stava per sorgere sulle due Ipatzie. Un'alba che, a giudicare dai numerosi banchi di pesce accorsi fra le due isole per banchettare coi cadaveri di qualche giorno prima, sarebbe stata particolarmente proficua per i pescatori Ipatziani, che già dal giorno seguente la battaglia navale avevano fatto un'ottima pesca ogni giorno.
Le barche dei più mattinieri erano già in acqua, intente a lanciare le lenze o a gettare le reti, mentre su alcune altre, in prossimità dei relitti, dei ragazzi più giovani si tuffavano, cercando di raggiungere le navi affondate per recuperare quanto più possibile prima che il legno iniziasse a marcire.
Sembrava insomma un giorno come tanti, così pensavano Marco e Piero, due amici di vecchia data, dediti entrambi alla pesca da oltre quarant'anni, mentre si recavano sulla spiaggia per mettere in mare la loro barca e procacciarsi il pane. I due quella mattina si erano alzati piuttosto tardi rispetto al loro solito, ma non sembravano particolarmente preoccupati di non poter fare una ricca pesca: i giorni precedenti avevano preso tanto di quel pesce, che anche con un paio di giorni di magra, le loro famiglie non avrebbero certo patito la fame.
Soffocando uno sbadiglio, Marco arrivò per primo alla barca: una piccola imbarcazione blu scura lunga non più di sei metri, adagiata sul bagnasciuga e coperta da una tela cerata, per prevenire imbarchi di acqua causati dalla pioggia. Egli fece per levare il telo, ma un urlo di spavento lo paralizzò per alcuni secondi. Piero, stupito dall'urlo dell'amico, corse verso di lui per chiedergli spiegazioni e, raggiunta la barca, rimase a sua volta stupito e spaventato.
Accanto allo scafo, sul lato opposto rispetto al loro, una donna era accasciata sulla spiaggia. O almeno, quello che restava di una donna. Il suo corpo era in gran parte carbonizzato: addosso aveva quella che poteva essere una divisa della marina Esfala, ma non si riusciva a distinguerne il grado: era completamente bruciata in molti punti, e in certi altri sembrava essersi fusa con la pelle della donna.
La gamba desta aveva il piede a vista, avendo perso lo stivale, e tre delle dita si erano praticamente fuse assieme a causa del calore a cui era stato sottoposto il corpo. Il lato sinistro della faccia era devastato: l'occhio si era fuso, l'orecchio praticamente non esisteva più, così come quasi tutta la guancia, che era totalmente aperta, tanto da mettere in mostra i denti, anch'essi anneriti per il fuoco. Su quel lato della testa i capelli erano scomparsi, rendendo la cute uno spettacolo raccapricciante, coperto di ustioni e ferite, tanto che in un paio di punti si riuscivano a intravedere le ossa del cranio. Anche gran parte del naso era andato perso. Il corpo era sdraiato con la schiena all'aria, quindi i due pescatori, fattisi coraggio, lo voltarono con delicatezza. Fatto ciò, si accorsero che, incredibilmente, quella donna respirava ancora.
La parte frontale del corpo era messa meglio: il lato destro della faccia aveva comunque subito danni, ma erano di intensità minore, quasi non ci si sarebbe fatto caso, considerando lo stato del resto. Doveva essere stata una bella donna un tempo, seppur non fosse più giovane. I capelli scuri erano rimasti su quasi metà della testa, anche se ora erano coperti di sabbia e alghe, mentre il petto sembrava rimasto intatto. Esso si muoveva, tanto che Piero ci appoggiò un orecchio sopra, per essere sicuro che la donna non fosse morta. C'era battito. Il pescatore allora si mise a frugare in quel poco che restava dei vestiti della naufraga: non trovò nulla. Probabilmente il fuoco aveva distrutto qualunque cosa.
-Come sarà successo?- si chiese Marco inginocchiandosi davanti al corpo.
-Forse la nave che è bruciata l'altro giorno.- ipotizzò Piero. -Credo che lei fosse uno degli ufficiali a bordo.-
-Questa qua?- domandò Marco con un tono scettico. I due si stavano guardando negli occhi; questo non fece notare loro che il corpo aveva iniziato a muoversi.
-Non fare il maschilista, anche la rossa alcolizzata che comandava il forte era una donna.- lo rimproverò Piero portandosi una mano alla cintura. -Un momento...dov'è il mio coltell...-
La risposta alla domanda venne da sola, senza dare al pescatore nemmeno il tempo di formularla: la donna carbonizzata aveva infatti estratto il coltello dalla cinta dell'uomo e, facendo appello a tutte le sue energie residue, lo aveva conficcato nel suo inguine.
Subito dopo, essa ruotò dolorosamente su sé stessa, conficcando la stessa arma nella gamba di Marco, che cacciando un urlo di dolore, si trascinò alcuni metri indietro, facendo perdere la presa della mano della donna dall'elsa del coltello. Piero, col sangue che fuoriusciva copiosamente dalla ferita, si accasciò sulla sabbia rantolando per il dolore. In pochi istanti perse i sensi e, poco dopo, anche la vita. Nel frattempo, sia Marco che la donna si rialzarono a fatica: la prima aveva un'aria a dir poco spaventosa, e ciò si notava anche dal volto del pescatore.
Marco aveva le lacrime che gli rigavano le guance, non solo per il dolore fisico, ma anche per la consapevolezza che il suo amico sarebbe morto. Questo lo spinse ad estrarre il proprio coltello da pesca, preparandosi a fronteggiare la sua raccapricciante avversaria. Non si tolse il coltello di Piero dalla gamba: sapeva che qualora esso avesse reciso l'arteria femorale, tirarlo fuori avrebbe reso le sue possibilità di sopravvivere molto più scarse di quanto non lo fossero al momento.
Nell'alzarsi, i dolori della donna divennero molto più acuti: essa respirava a fatica, digrignando i denti per la sofferenza che ogni movimento le stava provocando. I muscoli della sua mano sinistra erano stati totalmente fusi dalle fiamme, infatti non riusciva a muoverne le dita. La destra però era quasi illesa: tanto che, seppur continuando a provare forti dolori, riuscì ad usarla per indicare il pescatore, facendogli cenno di farsi sotto.
Marco non se lo fece ripetere: zoppicando dolorosamente si avvicinò alla donna, menando fendenti col suo coltello. Non erano mosse particolarmente efficaci: del resto l'anziano pescatore non aveva mai combattuto in vita sua, ma trovarsi sulla loro traiettoria avrebbe comunque reso difficile per la donna sopravvivere, specie considerando il suo grave stato fisico.
Il vecchio era ormai ad un passo dalla sua rivale, quando si fermò digrignando i denti, trafitto alle spalle da una vecchia daga coperta di ruggine. Non riuscì ad emettere alcun suono: si accasciò a terra e spirò in un lago di sangue che inzozzò la sabbia, trasformandola in una fanghiglia rossastra e puzzolente.
Dietro il cadavere, erano apparsi due uomini, a loro volta coperti da ustioni fresche, seppur molto meno gravi di quelle della donna. Il più basso dei due, colui che aveva vibrato l'affondo che aveva ucciso il pescatore, aveva bruciature piuttosto gravi sulla faccia e sulla spalla destra, completamente a vista a causa della distruzione dell'uniforme da Tenente della marina Esfala. L'altro aveva una semplice blusa da marinaio, per la maggior parte intonsa, ma il braccio sinistro era ridotto ad un moncherino, con ulna e radio sporgenti dalla carne bruciata.
-Capitano Martini: è lei?- chiese il Tenente con un filo di voce. Appariva decisamente stanco.
-In...- la donna aveva provato a parlare, ma si era dovuta interrompere per il dolore: anche proferire parola le costava fatica. -...in persona!- rimase in silenzio per qualche secondo. -Sei tu, Mattia?-
Il Tenente fece cenno di sì con la testa. -Io e Giovanni siamo arrivati a terra cinque miglia più a est.- spiegò. -Abbiam cercato di arrivare al Porto, ma quando i Rialtini son sbarcati, abbiam preferito restare nascosti. E lei?-
Stefania Martini non ebbe la forza di spiegare nulla: si limitò ad inginocchiarsi per recuperare le borse dei pescatori, in modo da appropriarsi del loro pranzo e, malgrado anche il masticare le causasse molto dolore, placare la propria sete e la propria fame. Era finita a terra solo quella notte: nei giorni precedenti era rimasta su un relitto e, forse credendola morta, nessuno l'aveva toccata. Dopo giorni di digiuno, aveva temuto di essere sul punto di morire disidratata, quindi non aveva alcunché da spiegare. Aveva perso la sua nave, la Bellabarba; aveva perso quasi tutto il suo equipaggio, ed aveva anche perso la sua bellezza, portata per sempre via dalla fiamme. Aveva insomma perso ogni cosa, tranne la sua vita e quella dei due uomini rimasti davanti a lei. Si sarebbe dovuta accontentare. Indicò la barca dei due pescatori morti.
-Aiutate...- un'altra fitta di dolore la costrinse all'ennesima pausa. -Aiutatemi a metterla in mare: andiamo a casa!-
Seppur stanchi, i due uomini obbedirono: recuperarono il pranzo dell'altro pescatore, lo gettarono a bordo e, spinto il piccolo scafo in mare, Mattia infilò il basso albero nella sua scassa ed issò faticosamente la vela latina mentre, non senza sforzo, Giovanni aiutò la sua superiore a sdraiarsi sul copertino e si mise al timone con l'unico braccio ancora utilizzabile.
La Mietitrice era salpata il giorno prima, ma forse, con un vento debole come quello che c'era stato nell'ultimo giorno e mezzo, avrebbero potuto raggiungerla e farsi issare a bordo: tutti e tre avevano urgente bisogno di cure. Non erano però morti. E questo al robusto marinaio seduto al timone bastava, almeno per il momento. Prima o poi sarebbero tornati in Esfalia, ed una volta rinfrancati sarebbero stati pronti a tornare in mare. Forse la guerra era stata persa, ma coloro che li avevano ridotti in quello stato l'avrebbero comunque pagata. E molto, molto cara!
*
12 Marzo
Il vento era sostenuto: lo stretto che divideva l'Esfalia dal continente era ormai stato superato. Giuseppe Siniscalchi era fermo sul castello di prua: non si stava godendo il viaggio; cercava solo di non pensare ai morti che si era lasciato alle spalle nella guerra appena passata. Il rientro in patria della Caradonna non era stato certo trionfante: quando erano arrivati all'Arsenale delle foci, avevano trovato solo sguardi tristi e desolati tra gli abitanti, ancora provati per l'uragano.
Esso in passato si era abbattuto proprio vicino alla città, dove il grosso della flotta era all'ancora. Ora, passare di lì, era come muoversi su un cimitero: le acque cristalline del mare lasciavano intravedere i relitti di quasi quaranta navi, che mezze sfasciate giacevano sul fondale, coi pesci che nuotavano tra i ponti e gli alberi abbattuti dalla foga del vento e delle onde.
La Caradonna era stata tra le poche sopravvissute alla furia degli elementi, e ora tornava come unica sopravvissuta a quella del nemico, tanto che Tancredi aveva rivelato in confidenza al Maggiore di non sapere se la sua nave fosse fortunata per il fatto che se la cavasse sempre o se fosse una iettatrice nei confronti delle altre imbarcazioni che la seguivano sul mare.
Siniscalchi non era stato in grado di sorridere alla battuta; non era stato in grado di sorridere quasi a nulla prima di raggiungere la propria famiglia in realtà. Ora si trovava nuovamente in mare, pronto a tornarsene sul continente in via, si sperava, definitiva. Alle sue spalle, sul ponte del grosso mercantile su cui era imbarcato, viaggiavano duecento civili, pronti ad essere inviati a popolare la colonia. Colle dell'aquila era ormai ritenuto un posto sicuro, perciò si era fatta leva su molte famiglie perché si trasferissero lì, in modo da incrementarne popolazione ed economia. Al Maggiore era stato offerto il comando della guarnigione cittadina; lui ne aveva parlato con la moglie ed entrambi avevano accettato.
Si sarebbero stabiliti coi figli in una nuova casa che era già in costruzione e forse avrebbero potuto ricominciare una nuova vita. Del resto non si erano mai trovati molto bene a Roccadifalco, ed ora che Siniscalchi sarebbe tornato sul continente, non poteva sopportare l'idea di restare senza più la sua famiglia vicina.
-Pensi che ce la caveremo?- Sofia era arrivata alle spalle del marito e gli aveva messo una mano sulla spalla. Accanto a lei c'era Martina, la loro figlia più piccola, che teneva la madre per mano mentre osservava il padre negli occhi: aveva solo quattro anni, forse ancora non aveva capito bene la situazione.
-Credo di sì.- la rassicurò il marito dandole un leggero bacio sulla bocca. -E non temere, non ci metteremo a fare i minatori, te lo prometto.
-Sofia sorrise, poi appoggiò la testa sulla spalla di Giuseppe. -Andrea si divertirà nella colonia: ho visto che almeno una ventina di ragazzi più o meno della sua età sono sulla nave.
Erano quasi tutti figli di altri soldati o dei minatori che erano in viaggio per la nuova città. Definirla città era un po' pretenzioso, quello di sicuro, ma era solo questione di tempo prima che ne ottenesse il pieno status. Colle dell'aquila sorgeva vicino alla grande miniera di luminite: era nato come colonia mineraria, ma il fatto che il terreno vicino al giacimento fosse incredibilmente fertile, unito alla perdita delle Ipatzie, aveva spinto le autorità Esfali ad insistere per una nuova campagna di popolamento della colonia, allo scopo di renderla abbastanza affollata da poter divenire il dodicesimo feudo, cosa che un tempo le Ipatzie erano state vicine all'essere.
-I ragazzi si troveranno bene...- disse a media voce il Maggiore, ricambiando l'abbraccio della moglie. -Ed anche noi, ne sono sicuro.- le fece un leggero sorriso, dando poi un buffetto alla guancia della figlia. -Saremo lontani dalla zona calda, e protetti dalle mura del forte. Non ci sarà posto più sicuro su tutto il continente!-
-Lo spero bene...- gli disse Sofia carezzandogli al guancia. -Perché non avrei mai accettato di far crescere il nostro prossimo figlio su un territorio ostile.-
Siniscalchi rimase impalato per alcuni secondi. Nel notare il sorriso della moglie crescere di secondo in secondo, non poté trattenersi dall'abbracciarla forte: dopo tutta quella morte che si era lasciato alle spalle, una nuova vita stava arrivando in famiglia. Forse questo sarebbe davvero stato un nuovo inizio.
*
La nave su cui erano imbarcati, un massiccio mercantile chiamato Orca, era in testa ad una squadra di tre legni che compivano ormai da alcuni mesi la stessa rotta: nella colonia risalivano il fiume che aveva le sue sorgenti vicino al colle su cui avevano edificato il forte. A circa due miglia dalla foce c'era una piccola insenatura, dove ormeggiavano e caricavano la luminite estratta dalla miniera. Dopo aver caricato la merce, la portavano in Esfalia dove veniva smistata per essere venduta o lavorata. Fatto questo, le navi imbarcavano eventuali coloni intenzionati a trasferirsi sul continente e ce li portavano nel viaggio successivo.
Un tragitto generalmente abbastanza breve da ridurre il rischio di attacchi da nemici, corsari o pirati al minimo. Salendo a bordo, la mattina precedente, Giuseppe aveva visto il genere di persone che stavano salendo a bordo: contadini, minatori, altri poveracci che andavano in cerca di fortuna. Nella ventina di soldati che si erano imbarcati con le proprie famiglie, il Maggiore non aveva scorto visi noti: alcuni erano poco più che ragazzi, altri dei soldati ormai piuttosto anziani, un po' come lui del resto, che avevano accettato un incarico di gendarmeria presso una città in costruzione piuttosto che essere inviati lungo la linea di forti che delimitava il territorio occupato dagli Esfali, in cui erano ammassate il grosso delle truppe. Insomma, non certo il meglio che il paese potesse offrire, ma in fondo era sempre così: nelle missioni atte al popolamento di una colonia, era quasi impossibile che fossero mandate le persone adatte. Da che mondo e mondo era sempre stato un compito destinato agli ultimi.
Come se avesse letto nella sua mente, Sofia carezzò la guancia del marito: -Saremo felici, vedrai.- gli disse serena. Il vento aumentò leggermente: nulla di preoccupante, bastò serrare i velacci perché la nave non corresse alcun rischio nella navigazione. Tuttavia il rollio ed il beccheggio iniziarono a crescere, causando non pochi casi di rigetto tra i passeggeri meno avvezzi alla navigazione.
Anche la piccola Martina mostrò di soffrire un po' il mare, iniziando ad impallidire appena la prua si alzò di almeno un metro, per poi riabbassarsi di colpo dopo aver investito un'onda. Giuseppe, staccatosi dall'abbraccio della moglie, la prese in braccio: le sembrava così leggera. Per quanto credesse che la bambina crescesse troppo in fretta, alcune volte la vedeva ancora talmente piccola che si chiedeva se potesse sopportare un simile viaggio alla sua età.
-Stai tranquilla, tesoro.- le disse mettendosela in spalle. In quei momenti era felice di essere diventato pelato: almeno Martina non le avrebbe strappato i capelli come aveva fatto suo fratello alcuni anni prima.
-Presto vedremo la foce del fiume.- proseguì il Maggiore sorridendo mestamente. -Quando la raggiungeremo, saremo vicini alla nostra nuova casa!-
-Cosa è foce?- chiese Martina picchiettando con una mano sulla testa del padre.
-La foce è quando il fiume entra nel mare.- spiegò Sofia carezzando una gamba della piccola.
-Come quella?-Davanti a loro, a circa tre o quattro miglia oltre la prua, la penisola formava una pianura larga ed ampia, quasi rasente il pelo dell'acqua. Questo spiegava il motivo per cui i pescatori la definivano una zona ottima per procacciarsi del cibo: con l'alta marea il mare probabilmente inondava quel tratto di terreno e, col ritirarsi delle acque, molto pesce restava isolato dentro una serie di piccoli laghi che si formavano nelle doline; rimanendovi intrappolato.
Nel mezzo di questa pianura, stretto e profondo, sfociava il fiume. Un fiume non molto grande, ma col fondale ricco di luminite, tanto da essersi meritato l'epiteto di Fiume Lucente. Da quasi un secolo esso veniva infatti chiamato in questo modo dai marinai che vi passavano. Il fiume non era largo più di un centinaio di metri per gran parte del suo corso, ma in media era molto profondo, soprattutto nella zona centrale e, non essendo affatto impetuoso, poteva essere risalito anche a vela, se il vento fosse stato favorevole.
Per loro fortuna, quel giorno fu così: le navi dovettero spiegare nuovamente i velacci, oltre a scopamare e coltellacci, pur di riuscire a prendere al meglio il vento che, se da un lato soffiava piuttosto forte, dall'altro veniva contrastato dalla lenta corrente del corso d'acqua, rendendo i tre velieri piuttosto lenti nella risalita. Il tragitto dalla foce verso l'ansa durò quasi due ore: due ore in cui vennero percorse solo un paio di miglia, che furono sufficienti a cambiare completamente la geografia del territorio.
La pianura ricca di doline scomparve, lasciando il posto ad una collina abbastanza alta, coperta da fitte foreste pluviali, tra le quali si riuscivano però ad intravedere le aree disboscate dai coloni per la costruzione della strada e delle miniere. L'ansa del fiume rivelò un paesaggio molto suggestivo: l'acqua si allargava, formando un piccolo lago in cui era stato costruito un lungo molo in legno, munito di grossi argani a cui erano agganciati dei buoi, probabilmente per permettere alle navi di invertire la propria rotta, visto che lo spazio di manovra era limitato.
Sulla terraferma, vicino al molo, erano stati costruiti due grandi magazzini, fatti coi tronchi degli alberi che crescevano attorno al piccolo insediamento, che era composto anche da una decina di case, una locanda e da alcuni campi coltivati ad orzo. Oltre gli edifici, una strada in terra battuta si addentrava nel bosco, risalendo la collina fino al forte di Colle dell'Aquila, visibile anche dal lago. Il forte al momento era solo una grande palizzata circondata da un terrapieno scavato nella roccia, ma si diceva che fosse in rapida crescita, tanto che ormai persino il fratello del gran- duca risiedeva in loco.
Diversi uccelli dal piumaggio all'apparenza verdeggiante sorvolavano il centro abitato, con la probabile intenzione di cibarsi degli avanzi alimentari della gente, quando non si lanciavano sui pollai per far razzia dei pulcini. Fattosi prestare un cannocchiale per far osservare gli strani volatili ai figli, Giuseppe scoprì che questi animali non avevano affatto le penne verdi: esse erano brunite, ma coperte da una sorta di muschio, che li rendeva di un colore praticamente identico a quello del fogliame degli alberi. Forse era dovuto a delle ragioni di mimetismo, chissà.
*
Serrati i trevi, i coltellacci ed i velacci, l'Orca arrivò con le sole gabbie abbastanza vicina al molo per passare a terra le gomene d'ormeggio. La manovra era stata a dir poco magistrale: l'abbrivio dato dalla velocità acquisita dalla nave con la piena velatura spiegata, era scemato via via che le vele venivano ridotte, tanto che subito dopo aver lanciato le grosse funi al molo, il moto dello scafo aveva iniziato ad invertirsi a causa della debole corrente. Completata la procedura di ammaino delle vele, la nave venne ruotata tramite le gomene che, come Siniscalchi aveva previsto, vennero passate ai grandi argani, che vennero azionati dai buoi sotto le spinte dei loro conducenti. Gli animali da fatica trascinarono lo scafo, facendogli compiere una rotazione di quasi mezzo giro, in modo da poter assicurare il fianco di sinistra al molo.
Le altre due navi, nell'ora e mezza successiva, subirono il medesimo trattamento, venendo assicurate al molo, lungo il quale si eran già radunati numerosi carri vuoti, pronti ad essere riempiti con le masserizie dei coloni.
Ormai era pomeriggio inoltrato: la sera sarebbe calata entro un paio d'ore, quindi i passeggeri delle navi diedero per scontato il pernottamento a bordo ancora per quella notte, ma si accorsero presto che non sarebbe stato così. I marinai li incitarono ad aiutarli nel trasbordo dei bagagli, che vennero stipati con calma nei carri aperti, riempiendoli per la maggior parte dello spazio. Nel poco rimanente, vennero fatti sedere i bambini, i vecchi e le poche donne incinte, tra cui Sofia, che si accomodò accanto ai figli, mentre il marito rimase appiedato, come la maggior parte dei rimanenti. Giuseppe non stette a chiedere un cavallo: la strada che avrebbero dovuto percorrere non era particolarmente lunga; fare qualche passo non gli avrebbe certo fatto male.
Quando la colonna, comprendente quasi seicento persone, di cui cinquantaquattro soldati, si mise in moto dopo il tramonto. Con la discesa della luce, i coloni si erano accorti, con loro grande stupore, che lungo il sentiero, a distanze regolari, erano stati posti dei veri e propri mattoni di luminite, in modo da tenere illuminata la strada a sufficienza per poterla percorrere nottetempo. Il tragitto, nonostante la salita, non fu molto faticoso. Il terreno era stato spianato abbastanza bene, nessuno dei carri infatti perse un'asse durante il viaggio, anche se un paio di volte alcuni ci andarono molto vicino. Lungo la strada, Giuseppe rimase quasi stupito nell'incrociare alcuni carri, molto più piccoli dei loro, ma carichi del minerale luminescente, intenti a discendere il sentiero. La cosa assurda era soprattutto l'espressione serena dei loro conducenti: sembravano troppo allegri per delle persone che lavoravano di notte. Possibile che la paga fosse così buona? Di sicuro le estrazioni procedevano bene, ed ora con l'apertura del commercio della luminite all'Alleanza Mercantile, era sicuro che il giro di soldi sarebbe stato ancor più alto, ma arrivare ad avere lavoranti entusiasti di operare al buio pareva quasi incredibile.
Il Maggiore decise che, appena la sua famiglia si fosse stabilita nella loro nuova casa, lui avrebbe chiesto udienza al governatore; voleva vederci chiaro a riguardo. Di natura lui non era un uomo sospettoso, ma stavolta la curiosità stava decisamente avendo la meglio su di lui.
La sommità della collina era ormai molto vicina: dietro di essa qualcosa emanava una luce intensissima, che illuminava il paesaggio quasi a giorno. Giuseppe affrettò il passo, superando i carri, da uno dei quali suo figlio saltò giù al volo per seguire il padre. Raggiunta la cresta, entrambi rimasero a bocca aperta: davanti a loro vi era la più grande cava che avessero mai visto. Era lunga almeno un paio di miglia e lungo di essa si intravedevano immense vene di luminite, che la facevano risplendere nella notte, tanto che il Maggiore dovette coprirsi gli occhi, quasi infastiditi dall'intensità luminosa.
-Papà...- disse il ragazzo rompendo il silenzio. -...quando hai detto che qui avremmo avuto un futuro luminoso, non stavi scherzando, vero?-Giuseppe, seppure fosse ancora sconvolto per le morti a cui aveva assistito, guardò negli occhi il figlio e, tornando a fissare la cava, scoppiò in una fragorosa risata.
Forse, dopotutto, avrebbero davvero avuto un futuro luminoso.
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