Capitolo 8


28 Febbraio

La pace venne firmata. Un giorno di trattative era stato più che sufficiente perché le due parti trovassero un accordo.

I soldati Esfali rimasti nel forte, già provati a causa della piccola sollevazione popolare di Porto Ipatzia, erano stati imbarcati in parte sul brigantino rimasto, che ora faceva vela verso sud, ed in massima parte sulla Mietitrice, arrivata nello stretto il tardo pomeriggio del ventisei, ora intenta ad imbarcare i sopravvissuti.

Nella cabina grande della nave Esfala, fin troppo grande a dirla tutta, Barbaglio aveva firmato l'accordo di pace, che era stato controfirmato dal Cancelliere Mantegna e dal Generale Crocero. Il Maggiore Rigamonti, in quanto unico emissario dell'Alleanza Mercantile presente, aveva a sua volta firmato il documento per conto dei suoi superiori, finanziatori della campagna militare, ed ora stava godendosi la vittoria.

Il Principe di Rialto, nonostante fosse costretto a letto, aveva inviato una serie di messaggi al suo Capitano Generale, autorizzandolo a fare le sue veci negli accordi di pace, così ora Barbaglio stava eseguendo l'ordine che aveva ricevuto, promuovendo Mondini al ruolo di Provveditore delle due Ipatzie. Ora infatti, con il rientro delle isole nella Repubblica, il numero dei Provveditori, cioè i governatori civili e militari delle regioni saliva nuovamente a cinque.

L'Esfalia si impegnava a non tentare di riconquistare le isole, a non disturbare più le spedizioni dell'Alleanza Mercantile o dei mercanti Rialtini, a non attaccare più le loro navi di passaggio vicino alle sue coste, e inoltre autorizzava che due delle banche di Rialto potessero aprire una propria filiale sul suolo Esfalo.

Di contro, la Repubblica di Rialto si sarebbe impegnata a non tentare ulteriori espansioni territoriali ai danni dell'Esfalia e ad aprire con essa delle nuove rotte che permettessero dei profiqui rapporti commerciali. Inoltre aveva accettato di non chiedere agli sconfitti alcun danno per la guerra precedente, limitandosi a rientrare in possesso delle terre perdute. L'Alleanza Mercantile aveva dovuto accettare di non aumentare le imposte per i prodotti di importazione Esfali, a patto che l'Esfalia le permettesse di commerciare con la luminite che stavano estraendo sul continente.

Questo avrebbe permesso anche ai mercanti Esfali di fare buoni affari, ed era perciò un pretesto sufficiente per giustificare il ritiro delle truppe da quella colonia. Insomma era stato un accordo dal quale tutti potevano potenzialmente guadagnarci, perciò era stato redatto e firmato in relativamente poco tempo.

Mondini si sarebbe insediato nel forte di Porto Ipatzia: sulla torre avevano già riordinato il suo nuovo ufficio, mentre la maggior parte delle truppe che erano state impegnate nella campagna sarebbe rientrata a casa.

Il reggimento costituito dai volontari che avevano scelto di diventare la nuova guarnigione delle isole, ricostituito dopo quasi cinque anni dal suo scioglimento e riconoscibile per la sua divisa coi risvolti rossi, avrebbe presto ultimato il suo insediamento nelle piazzeforti.

Le sei compagnie dell'unico battaglione che componeva quel reggimento, vennero perciò divise: due avrebbero costituito la guarnigione di Castel di Baia, anche se da essa si sarebbe staccato stabilmente un piccolo contingente di venti soldati, che avrebbero costituito la guarnigione di Faro Minore.

La compagnia già posta di guardia a Faro Maggiore sarebbe rimasta dov'era. La caserma locale era stata notevolmente espansa sotto il controllo Esfalo, ma nessuno pensò che fosse necessario aumentarne il numero degli occupanti. La popolazione era in maggioranza favorevole al controllo Rialtino, quindi non sarebbero servite molte truppe per garantire l'ordine pubblico ma, in caso di necessità, il nuovo Provveditore avrebbe personalmente provveduto ad arruolarne altre.

Le tre compagnie rimanenti, avrebbero occupato Porto Ipatzia, dislocandosi in vari punti della città, ma almeno per i primi giorni, i soldati sarebbero rimasti nel forte. Nello stesso forte in cui Giulio stava sistemando la sua branda. Non sapeva se la vecchia casa della sua famiglia fosse stata occupata da qualcuno, ma alla prima occasione possibile si sarebbe informato. Con l'intercessione della Provveditoria, probabilmente avrebbe potuto riprenderne possesso.

Ricordava bene quella casa: non era altro che un piccolo appartamento di un paio di stanze posto al pianterreno di uno degli edifici, ma in quelle due stanze era nato e ci era cresciuto. Era in quelle stanze quando aveva saputo dell'invasione e aveva preso la decisione di arruolarsi, quindi per lui significavano molto.

Rimuginando nei suoi pensieri, il soldato osservò fuori dalla piccola finestra che si trovava nella camerata. Oltre il muro, spesso quasi sette metri per poter sopportare la potenza delle cannonate, si intravedeva l'arsenale cittadino, dove stava venendo trainata in secca Libeccio, che sarebbe stata rimessa in sesto e poi assegnata come ammiraglia di una piccola flotta di difesa delle due isole. Alcune navi minori sarebbero arrivate entro un paio di settimane per costituirla.

Il nuovo Provveditore infatti, aveva grandi piani per il suo nuovo dominio. Salendo per la stretta scala a chiocciola che conduceva al suo nuovo ufficio, stava già pensando al suo primo atto, quando, varcato l'accesso, fu sorpreso nel non trovare l'ufficio vuoto.

Il Maggiore Rigamonti era seduta davanti alla scrivania, con la giubba blu sbottonata, e stava fissando il suo interlocutore con aria maliziosa.

-Eccoti finalmente!- disse la donna con tono leggero, ignorando il fatto che il suo interlocutore le fosse nettamente superiore in grado. -Devo dire che le foglie di quercia sulle maniche ti stanno molto meglio delle sole stelle, sai!-

Sui polsini della giubba dell'ex Comandante infatti, ora spiccavano i gradi da Provveditore: non vi erano più le quattro stelle in campo rosso poste sotto al leone alato, che indicavano il grado di Comandante del reggimento delle Ipatzie. Ora, attorno al leone, vi erano otto foglie di quercia, dorate in campo blu, tra le quali erano ricamate due piccole stelle e altrettante ancore.

Questo simbolo, rappresentava il dominio su quelle terre, oltre che il comando in capo di tutte le forze terrestri e navali che si fossero trovate nelle Ipatzie. Le foglie di quercia, essendo quell'albero uno dei più resistenti e dei più usati nella costruzione, rappresentavano la forza con la quale il Provveditore doveva essersi distinto tra gli altri, meritandosi così questa carica.

-Ti ringrazio Chiara.- rispose Mondini levandosi la benda che gli copriva l'occhio mancante e posandola sul tavolo, dietro il quale si sedette. -Cosa posso fare per te?-

-Ah lo sai bene, mio caro.- esclamò la donna sporgendosi sulla scrivania. -I miei superiori hanno finanziato la tua campagna. Ora ovviamente vorranno che tu mantenga la tua parte di accordo, visto che hai ottenuto il governo delle isole, come ti era stato promesso.-

Fabrizio le concesse un sorriso: -Naturalmente: non sia mai che io non mantenga i miei impegni.- si sistemò sulla poltrona e srotolò una cartina delle isole sul tavolo. -Il molo che è stato costruito tempo fa sulla costa sud è perfetto per iniziare a fondarci una nuova base. Nei prossimi mesi lo faremo espandere con dei terrapieni. Intendo usare i fondi che ci sono stati assegnati per costruire un nuovo avamposto sulla costa meridionale. Potremo stanziarci nuovi mercati e renderlo un ulteriore snodo commerciale. In questo modo le navi provenienti da sud potranno ormeggiare molto più facilmente. Con la costruzione di una bella strada potremo anche...-

-Certamente: ma sai quanto me che ci vorranno anni prima che questa opera sia completa.- gli fece notare il Maggiore interrompendolo severamente. -Nel breve termine invece, come agirai?-

-Nel breve termine Porto Ipatzia è a completa disposizione dell'Alleanza Mercantile.- promise Mondini indicando la finestra con un mesto sorriso. -Appena avremo finito con la Libeccio, le vostre navi potranno effettuare le proprie riparazioni pagando solo le maestranze ed i materiali: non vi imporrò alcuna gabella. Nel frattempo userò una parte dei fondi per far scavare un nuovo bacino di carenaggio: poter lavorare su due navi contemporaneamente renderà molto più efficiente il nostro piccolo arsenale.-

-Stupendo, bravo!- si congratulò Chiara. -Ed ora veniamo a noi: io tra qualche anno probabilmente tornerò a pieno titolo nell'Alleanza Mercantile, ma fino ad allora sono la loro inviata nel vostro esercito.- spiegò indicandosi la divisa. -Voglio quindi che mi metti in una posizione di rilievo in queste isole come garanzia che gli interessi dell'Alleanza siano rispettati nei prossimi anni. Sei disposto a farlo?-

Mondini sospirò: si era aspettato che una richiesta simile gli venisse posta prima o poi.

-Credo di sì: il Maggiore Ventura ha preso il comando di Castel di baia, dove intendo far costruire una piccola accademia per formare nuove reclute.- disse grattandosi il capo. -Il posto del mio Comandante subordinato al comando delle truppe al momento è libero. Ti metterò al comando delle truppe stanziate nel forte e nella città, conferendoti la promozione a Tenente-Colonnello. A parte me non avrai superiori dell'esercito sulle isole. Per quanto riguarda la Marina sarà diverso, ma non devi preoccupartene. Appena avremo stabilito bene la nostra organizzazione militare, tempo sei mesi al massimo, ti nominerò Comandante. Avrai quindi piena autorità, seconda solo alla mia. Ti basta, per il momento?-

-Direi proprio di sì!- concesse la donna con un sorriso malizioso. -Ma ora basta parlare di affari: non credo che nessuno ti verrà a disturbare qui.- si levò la giubba e la gettò sul divano. -Vediamo di metterci al lavoro su qualcosa di meno noioso.-

Alcuni minuti dopo, il sindaco di Porto Ipatzia, lieto dell'andamento della giornata, salì la scala a chiocciola che conduceva all'ufficio del suo nuovo Provveditore. Era pronto a congratularsi con Mondini, del quale tra l'altro era un lontano parente, ma poco prima di bussare, sentì un più che familiare suono proveniente dall'interno dell'ufficio e, con un sorriso malizioso, fece dietrofront e scese verso la piazza del forte. Qualsiasi cosa avesse da dirgli, poteva tranquillamente aspettare qualche ora.


*


-Quanti sono?-

Sulla cima della torre più alta del Castello Abbandonato, il leader dei suoi nuovi occupanti stava fissando la costa nord del lago, dove si erano accampati numerosissimi indigeni: le tende coprivano quasi tutta la spiaggia.

-Almeno dodicimila.- a rispondere fu proprio un indigeno. Un giovane ragazzo chiamato Te-rak, con la pelle del tipico color bronzeo-dorato, gli occhi violacei e le mani dalle lunghe dita tipiche dei nativi del continente. Lo avevano trovato alcuni anni prima, quando era stato bandito dalla sua tribù per cause che lui non aveva mai voluto raccontare. Da allora si era guadagnato la fiducia del suo nuovo capo, e negli ultimi giorni era stato in una missione di spionaggio presso l'accampamento dei selvaggi. Ora, rivestito come uno dei "civilizzati", con una semplice camicia bianca portata nei pantaloni scarlatti, stava facendo rapporto.

-Ma alcuni altri potrebbero arrivare nei prossimi giorni. Non potranno restare molto a lungo però: i villaggi costruiti sulle colline saranno anche al sicuro, ma quelli sull'altopiano non possono restare per molto tempo senza i loro guerrieri. I mostri li attaccherebbero. Per non parlare dei clan del mare interno.-

-Cosa? Mare interno?- domandò con tono sorpreso l'uomo più anziano.

-Certo: c'è un vero e proprio mare sull'altopiano.- spiegò Te-rak indicando le vette inesplorate che si stagliavano diverse miglia dinnanzi a loro. -A circa venti miglia dallo strapiombo. Ed è anche grande. Talmente grande che certi giorni non si riesce a vederne l'altra sponda dalla riva.- si interruppe, come per accertarsi che non ci fosse nessuno ad origliare. -La gente che popola la sua isola è completamente pazza. Fanno sacrifici umani e gettano i cadaveri in acqua, per placare le bestie che la abitano...non ci tornerei mai lassù.-

-Pensi quindi che potrebbero attaccarci anche oggi?- chiese sospettoso l'uomo canuto, cambiando bruscamente argomento. Era molto interessato a questi dettagli, ma al momento le urgenze erano ben altre.

-Difficile a dirsi.- replicò Te-rak con una scrollata di spalle. -Ma non potranno trattenersi per più di altri tre o quattro giorni: quindi dobbiamo aspettarci un possibile assalto anche oggi stesso, sì.-

-Metti in massima allerta tutti allora: che si concentrino sui muri a nord, ma teniamo metà degli armati solo nelle ultime due cerchie delle mura. Così potremmo resistere più seriamente almeno.- ordinò iniziando a discendere le scale della torre. Voleva tornare subito nella sala del trono per vedere di sfondare quel maledetto muro. Quei bastardi potevano assalirli da un momento all'altro e per quanto fosse fiducioso dell'abilità nel combattimento dei suoi alleati, dubitava che in un rapporto di sei o sette a uno potessero avere molte chance di vincere.

Ci mise un buon quarto d'ora per raggiungere il grande salone: quella fortezza era davvero troppo grossa. Arrivato nel luogo desiderato, scese la scala che conduceva allo scavo. I cinque uomini che erano addetti allo scavo erano in pausa: solo uno era intento a picchiettare con un cucchiaio sulla pietra scavata. Il suono dava a vuoto.

-Ci siamo quasi!- disse con entusiasmo. Negli ultimi tre giorni avevano scavato quasi due metri e mezzo di parete, dovendo cambiare sette picconi a causa della durezza della pietra. Ma forse ora la meta era raggiungibile.

-Ottimo, allora levatevi di mezzo!- i cinque si erano accorti che il loro capo stava scendendo le scale che conducevano lì, ma non avevano fatto subito caso al barilotto di polvere da sparo che si stava portando in spalla.

Un minuto dopo una violenta esplosione riecheggiò per le stanze del mastio. Un fitto pulviscolo luminescente si era diffuso nella sala del trono, ma il leader di quell'accozzaglia criminale se ne fregò altamente e scese nella cripta, trattenendo il respiro per non rischiare di intossicarsi.

La luminite, presente in grandi vene anche in quei locali, gli rivelò uno spettacolo affascinante: vi era una grande sala esagonale, con ogni lato lungo quasi cento metri, con decine e decine di colonne che sorreggevano le stanze superiori. La sala era relativamente bassa: non più di tre metri di altezza nei punti più alti, ma la sua immensa estensione la rendeva davvero suggestiva.

Al centro della stanza, circondato da quattro colonne interamente luminescenti, c'era una specie di piccolo altare coperto di polvere, con una scatoletta di pura luminite poggiata sopra.

Rompere la serratura non fu complicato: un colpo di pistola bastò a far saltare il lucchetto arrugginito che la teneva chiusa. Quando il piccolo contenitore venne aperto, l'oggetto che conteneva venne finalmente svelato. Era una specie di corno da caccia in avorio. Sul suo dorso però, una scheggia di luminite molto strana: anziché bianca si presentava azzurrognola, e aveva diffuso una sorta di reticolo di sottili vene del minerale luminescente per tutta la struttura dello strumento. Esso era costituito da lunga canna bianca con tre beccucci in cui poter soffiare. Sul primo a sinistra vi era incisa una specie di freccia rivolta verso colui che avrebbe impugnato il corno. Su quello nel mezzo ve ne era una diretta in senso opposto. Sul terzo beccuccio spiccava invece una specie di piccolo teschio.

-Dite che è questo?- domandò uno degli scavatori vedendo lo strano oggetto.

-Di sicuro, ma chissà a cosa serve?- intervenne un altro dei presenti.

-Potrebbe forse essere una sorta di richiamo.- ipotizzò il vecchio leader. -Cercate per la stanza se per caso ci fosse qualche indizio su come usare questo oggetto, presto!-

Il parlare ad alta voce aveva creato una sorta di eco, tanto che le sue parole rimbombarono per il locale diverse volte prima di dissolversi.

Per alcuni minuti l'uomo restò a fissare lo strano artefatto ed il suo contenitore: fu proprio allora che, stringendo gli occhi per non restare accecato dal bagliore della scatola, notò che la sua superficie non era liscia, ma presentava delle piccole linee scavante su di essa.

Senza pensarci due volte, estrasse un coltello e si fece un leggero taglio su un dito, dal quale sgorgarono alcune gocce di sangue che lui spalmò sul coperchio della scatola. Si delinearono così una serie di immagini: raffiguravano un uomo che impugnava una sorta di lungo bastone, con davanti a sé un secondo uomo, che stringeva tra le mani il corno.

Il primo graffito da sinistra rappresentava l'uomo col corno che soffiava nella bocca di sinistra con davanti a sé degli strani animali simili a pipistrelli che venivano nella sua direzione.

Nel secondo graffito l'uomo soffiava nella bocca centrale e le bestie parevano allontanarsi.

La terza immagine mostrava che soffiando nella bocca di destra, i medesimi animali sembravano attaccare delle persone: dietro al suonatore del corno si poteva notare l'uomo col bastone che sembrava inveirgli contro. Come se fosse in qualche modo arrabbiato con lui.

-Lasciate perdere. Andiamo su.- disse appena credette di aver compreso il significato dei segni. Non rimase ad aspettare che gli rispondessero: si fece largo ad ampie falcate fino a raggiungere nuovamente la torre più alta del castello, sulla quale iniziò a salire. Quella parte gli fu assai più complicata: tutti quegli scalini gli fecero rimpiangere di aver trascurato l'esercizio fisico nelle ultime settimane, tanto che i suoi cinquantotto anni si facevano sentire ad ogni gradino che percorreva.

-Eccoti arrivato finalmente.- esordì un preoccupatissimo Te-rak, tornato a sua volta in cima alla torre alcuni minuti prima. -A terra c'è del movimento.-

In effetti il giovane aveva ragione: anche se distavano più di tre miglia dalla sponda settentrionale, si riuscivano a vedere chiaramente almeno un migliaio di canoe in acqua vicino alla spiaggia. Su di esse si stavano stipando i guerrieri, c'era da scommetterlo.

-Sono già partiti?- domandò l'uomo più anziano ansimando per la fatica.

-Non sembra, ma lo faranno a minuti temo...- il ragazzo si interruppe assumendo un'espressione di stupore. -Quello è...-

-Sì, lo è!- confermò l'altro sorridendo. Non parlò per un paio di minuti: doveva recuperare il fiato. -Ora vedremo se funziona...e se ho capito davvero come usarlo.- detto questo prese fiato e soffiò a tutta forza nel beccuccio di sinistra del corno.

Ne uscì un suono straordinariamente melodico: simile al canto delle balene rosse del mare meridionale. Questo suono non sembrava molto forte, ma incredibilmente si diffondeva anche a lunga distanza senza perdere in alcun modo la propria forza.

Appena il suono fu cessato, il silenzio cadde sul castello. Tutti gli uomini e le donne radunati sulle mura puntarono gli occhi sulla torre più alta, dove il loro leader aveva appena suonato il corno: nessuno parlava. Nessuno forse aveva compreso lo scopo dell'atto.

In qualche maniera, per assurdo che potesse sembrare, anche sulla terraferma l'orda degli indigeni aveva udito il suono. Tra di loro però l'effetto ottenuto fu ben altro: essi si ringalluzzirono e corsero in massa sulle canoe, iniziando a pagaiare verso l'isola su cui sorgeva il castello.

Erano una flotta numerosissima: gli equipaggi delle navi sarebbero stati i primi a subire il loro assalto. A colpi di cannone avrebbero potuto distruggere alcune canoe, ma la maggior parte di esse sarebbe comunque riuscita a passare; gli equipaggi sarebbero stati massacrati, le navi prese ed il castello, alla fine, sarebbe stato invaso.

Le canoe avevano già percorso quasi la metà del lago quando una serie di versi gutturali e striduli riecheggiarono sul lago. Dalla cima dell'altopiano questo coro selvaggio riecheggiò sulle acque, giungendo fino alle orecchie degli assediati. Sia essi che gli indigeni, con gli sguardi impietriti dallo spavento, si immobilizzarono guardando verso la vetta dell'altopiano, da dove proveniva uno stormo. Ma non di uccelli: uno stormo di centinaia di mostruose bestie alate, che iniziarono a planare verso la valle, coprendo in pochissimi minuti le oltre cinque miglia che li separavano dal lago.

Avevano l'aspetto di dei pipistrelli, ma ognuno di essi era alto tra i due ed i quattro metri e sulle loro pellicce brune sembrava crescere del muschio, che li faceva apparire come una specie di ibrido animale-vegetale.

-Sono loro i mostri di cui parli sempre?- chiese l'uomo al giovane indigeno, che appariva terrorizzato nel vedere quei demoni volare nella loro direzione.

-Sì...- disse il ragazzo con un filo di voce. -Ma non ne ho mai visti così tanti!-

Quegli esseri, con una velocità sorprendente, giunsero a sorvolare il lago, iniziando a passare sopra alla flotta di canoe, che nel frattempo aveva frenato la sua avanzata: a quanto pare i loro nemici temevano quelle bestie, tanto che alcune delle piccole imbarcazioni già iniziavano a tentare la fuga sparpagliandosi.

Era il momento di provare il terzo beccuccio del corno.

Soffiando dentro di esso, ne uscì un suono più stridulo del precedente: quasi minaccioso. Ed a ragion veduta!

I pipistrelli per un istante sembrarono contorcersi su loro stessi, come se il suono provocasse loro un forte dolore, tanto che un paio di essi, probabilmente i più giovani ed inesperti, smisero di battere le ali e precipitarono in acqua. Subito dopo, appena il suono fu cessato, le bestie si lanciarono in picchiata sulla flotta di canoe.

Iniziò così il massacro.

Perché di un massacro si trattò: i mostri si fiondarono sulle barche, iniziando a falciare con i loro artigli chiunque si trovasse sotto di loro. Quelli più piccoli atterravano proprio sulle canoe, iniziando a mordere le persone che gli capitavano a tiro. I più grossi si gettavano proprio in picchiata, sfasciando i fragili scafi gettandovici sopra, per poi rialzarsi in volo con il pezzo di una preda in bocca.

Fu una carneficina: alcuni indigeni, muniti di armi da fuoco comprate dai mercanti, tentarono di reagire, sparando addosso alle bestie che gli si avvicinavano, ma esse erano troppe e troppo veloci: furono pochi i colpi che andarono a segno. Per quasi un'ora i pipistrelli continuarono a perpetrare il loro massacro: planavano, azzannavano, affondavano, si rialzavano faticosamente in volo e poi, appena avevano ripreso sufficiente quota, si rigettavano nella mischia.

Il vento, soffiando nella direzione del castello, lo stava inondando del tipico lezzo di morte, mentre l'acqua del lago stava diventando rossa per il sangue. Il numero dei mostri abbattuti non era certo basso: dopo la sorpresa iniziale alcune decine di canoe avevano provato a zatterarsi, legandosi assieme, in modo da fornire una base più stabile ai tiratori che, non solo con i moschetti, ma anche con giavellotti e frecce, erano riusciti a mietere alcune vittime tra i loro assalitori, ma alla lunga i proiettili finivano, molto prima che tutti i demoni fossero dipartiti.

Una di queste zattere improvvisate, formata da sei canoe legatesi assieme, fu travolta dalla picchiata di almeno una ventina di pipistrelli, che la appesantirono a tal punto da mandarla a fondo, divorandosi poi gli sciagurati selvaggi che annaspavano per rimanere a galla. Un'altra affondò a causa del fatto che troppi indigeni si erano ammassati su un lato per aprire il fuoco verso le bestie: l'eccessivo peso causò la rottura di alcune delle cime, facendo ribaltare due delle canoe, che poco dopo trascinarono a fondo anche le altre.

Lo stesso leader dell'armata dei fuorilegge, dopo aver osservato il massacro così a lungo, ne ebbe abbastanza e soffiò nel beccuccio centrale del corno. Il suono stavolta fu più intenso, quasi armonioso a modo suo, ma ebbe un effetto strano sui pipistrelli rimasti in vita: essi infatti si librarono in volo alzandosi sempre più in alto, ed iniziarono ad allontanarsi, dirigendosi nuovamente verso l'altopiano, ma più verso nord stavolta.

Ad occhio almeno un centinaio di canoe erano sopravvissute all'assalto. Nessuno era riuscito a stimare quanti potessero essere stati i pipistrelli che erano planati sul lago, ma quelli i cui corpi galleggiavano in acqua privi di vita erano almeno sessanta o settanta.

-Segnalate alla flotta di attaccare i superstiti.- ordinò il nuovo possessore dell'artefatto. -Appena avranno finito con loro, domani tutti i comandanti sono attesi nella sala del trono. Segnalategli anche questo. Abbiamo una decisione importante da prendere!- non sembrava esserci entusiasmo per la vittoria appena riportata nella sua voce: solo una cupa soddisfazione.

Iniziò a ridiscendere le scale. Pochi minuti dopo, le navi ancorate attorno all'isola mollarono gli ormeggi e si misero in movimento, cannoneggiando le imbarcazioni indigene sopravvissute all'attacco dei pipistrelli. Se poco più di un'ora prima gli equipaggi si vedevano già morti sotto i colpi dell'orda selvaggia, ora la situazione si era ribaltata.

Anche le canoe rimaste a galla avevano perso non pochi guerrieri, col risultato che dei circa dodicimila che avevano tentato l'assalto, ne rimanevano forse tremila, rimasti vivi dopo le picchiate dei mostri. Pirati, mercenari e contrabbandieri si diedero alla pazza gioia facendo il tiro al bersaglio sui corpi terrorizzati, che spesso eran troppo stanchi per cercare di reagire e si limitavano a cercare di pagaiare verso terra.

Quasi nessuno riuscì però ad arrivarci. Le due galee sfruttarono la propria propulsione ibrida per risalire il vento e tagliar loro la strada. Sotto i colpi di moschetto, delle colubrine e di cannoni e carronate, i guerrieri selvaggi continuarono a tingere di rosso le acque del lago.

Il lezzo del sangue ormai aveva reso l'aria irrespirabile: c'era da augurarsi che la corrente facesse presto scorrere via i cadaveri verso il fiume, e da lì al mare. La battaglia ormai era conclusa: non era stata però simile a come ci si sarebbe potuto immaginare.

La nuova alleanza dei criminali aveva sancito la sua nascita con una grande vittoria: ora per molti degli equipaggi era giunto il momento di infierire sugli sconfitti.

Quella sera, i villaggi vicini al lago vennero saccheggiati. Pochi dei guerrieri erano scampati allo scontro, quindi le donne, i vecchi ed i bambini si trovarono indifesi dall'assalto dei loro nemici.

Fu una sera di stupri, di razzie e di uccisioni. Quella mattina c'erano sei villaggi sulla costa occidentale del lago, da dove era partito l'attacco. La sera dello stesso giorno non ne era rimasto nemmeno uno. Non ci fu pirata che non si portò a bordo una ragazza indigena in lacrime o un ragazzino spaventato, pronto ad essere sfruttato a dovere contro la sua volontà. Gli equipaggi di schiavisti, tre in tutto, si diedero alla pazza gioia: avrebbero chiuso ottimi affari in quei giorni.

Colonne di fumo si alzarono attorno allo specchio d'acqua mentre il sole calava: tanto sangue era appena stato versato.

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