Capitolo 3 (Parte 2)
A poca distanza dalle scialuppe in fuga, anche la Scirocco era entrata nel vivo dello scontro. Passando a poppa della Pantera, si era unita ad essa nell'affrontare la Bellabarba, che ormai accusava sempre più pesantemente i colpi delle tre navi che si accanivano sul suo scafo martoriato. Tuttavia, per ferita che fosse, la belva era sempre pericolosa: una sua bordata infatti aveva causato danni molto seri alla Pantera. Tre cannonate le erano arrivate sotto la linea di galleggiamento e avevano devastato l'infermeria, già affollata da una decina di feriti, uccidendo quattro di loro, oltre al dottore e al suo aiutante, morti a causa delle schegge che si erano conficcate nei loro corpi. La nave ora, si trovava quindi senza nessuno che potesse occuparsi dei feriti.
Un'altra bordata del vascello Esfalo abbatté l'albero di gabbia della Scirocco, mancandone la coffa solo di mezzo metro. I frammenti di legno e metallo colpirono ugualmente l'ampia piattaforma, ferendo cinque tiratori e accoppandone un sesto, che precipitò di sotto, spappolandosi sul ponte.
Nel frattempo, le due navi più grosse: Leonessa e Caradonna, erano ormai bordo a bordo, con il vento in poppa e dirette verso sud-sud-ovest, mentre la terraferma era sempre più vicina alle loro prue. Entrambe avevano ridotto la velatura, avanzando con solo gabbie e velacci al vento mentre si scambiavano bordate su bordate. La fiancata sinistra della Leonessa ruggiva metallo addosso a quella di dritta della Caradonna, che ricambiava il favore il più in fretta possibile. La terraferma, sempre più vicina, ormai era a poco più di un miglio.
Le cannonate erano dirette quasi esclusivamente agli scafi o alle troniere: fare a pezzi i cannoni e uccidere gli equipaggi era la priorità; rallentare la nave nemica era altresì importante, ma al momento poteva aspettare.
Barbaglio, muovendosi lentamente sul cassero, parlava poco, a meno che uno dei suoi marinai non rimanesse ferito davanti ai suoi occhi; in quel caso si inginocchiava faticosamente sulla vittima e cercava di fargli forza, in attesa che qualcuno lo portasse al sicuro. Gli artiglieri della Leonessa erano ben addestrati: riuscivano a completare la ricarica dei loro pezzi in almeno dieci secondi in meno dei loro "colleghi" Esfali, per quanto Barbaglio riuscisse a cronometrare mentalmente basandosi su ciò che vedeva e sentiva. Questo era il più grande vantaggio della sua nave: una ciurma ben addestrata. Al punto che l'anziano Generale non aveva quasi più bisogno di impartire ordini: i suoi artiglieri ricaricavano e sparavano appena pronti, poi ricominciavano, mentre i gabbieri mantenevano le vele nella posizione più adatta allo scontro.
Lo scambio proseguì finché la terraferma non distò circa ottocento metri dalle navi: a quel punto fu evidente a entrambi i comandanti che era necessario cambiare direzione. Quasi all'unisono i timonieri delle due navi virarono in senso opposto: la Leonessa andò tutto a dritta, fino a riprendere il vento al traverso, poi raddrizzò la rotta per poter andare verso acque più aperte, in modo da riuscire a manovrare meglio per tentare una virata di prua. Inoltre, navigando in quella direzione, le scialuppe cariche di soldati nemici si sarebbero trovate proprio lungo la sua rotta: quale occasione migliore per i Rialtini di potersi dedicare ad un po' di tiro al bersaglio mentre ci si preparava a ributtarsi nella mischia.
La Caradonna invece, virò a sinistra, prendendo a sua volta il vento al traverso, seppur con mure diverse, e proseguì seguendo la costa, in modo da potersi avvicinare alla Bellabarba, che era in evidente difficoltà. Lasciare le scialuppe al loro fato era una decisione difficile, ma virare a dritta sarebbe stato rischioso, poiché la nave si sarebbe potuta andare a trovare tra la Leonessa e la terraferma, con la costa sottovento per giunta. Non era certo un'opzione praticabile, se non per tentare un suicidio.
Più a nord invece, era la Principessa ad essere in difficoltà: le sue tozze carronate avevano danneggiato piuttosto gravemente i due brigantini che l'avevano circondata, ma ora essi avevano compreso che gli sarebbe bastato tenersi a debita distanza per colpirla senza correre troppi rischi. Le cannonate delle due piccole navi stavano facendo scempio della corvetta, le cui falle nello scafo aumentavano bordata dopo bordata, a differenza del suo equipaggio, che era sempre più esiguo.
Le pompe erano in funzione a pieno regime, inoltre almeno trenta marinai facevano la spola dalla sentina alla coperta, sgottando l'acqua con dei secchi per aiutarle a tenere la nave a galla. Il fuoco subito però era costante, e il fatto che quasi non fosse possibile rispondere efficacemente ad esso, non aiutava di certo il morale della ciurma. I serventi delle carronate dovevano mirare molto in alto per cercare di mandare a segno qualche colpo, e la cosa rendeva molto complicato prendere la mira prima di accendere la miccia.
Il comandante era morto sotto il fuoco nemico, così come il primo e il secondo ufficiale. Ora la nave era agli ordini di un Guardiamarina diciassettenne che, con le lacrime agli occhi, cercava di non cadere in preda al panico.
-Ammainate la bandiera, presto!- ordinò il ragazzo ad uno dei marinai che gli erano vicini.
-Ne è sicuro signore?- domandò l'interpellato stupefatto.
-Fatelo subito!- urlò allora il giovanissimo ufficiale, le cui lacrime ormai gocciolavano oltre il mento. Il marinaio, a sua volta in preda all'angoscia, scattò ad eseguire l'ordine.
-Poi ammainate le vele e preparatevi ad essere abbordati.- aggiunse il ragazzo asciugandosi il volto con una manica. -Appena saranno a bordo per catturarci, li assaliremo e salteremo sulla loro nave!-
I marinai, addestrati a rispettare gli ordini dei superiori, si prepararono ad eseguire il compito, mentre uno dei brigantini Esfali, dopo aver visto che la loro avversaria si stava arrendendo, aveva deviato la sua rotta per raggiungerla e prenderne possesso. L'altra imbarcazione invece si stava allontando.
Il Nostromo della Principessa, un uomo di cinquantatré anni alto e snello, osservò le azioni dell'equipaggio con aria contrariata e, avvicinatosi al Guardiamarina, bisbigliò un avvertimento all'orecchio del suo superiore: -Lo sa che la falsa resa è un crimine, vero? Potrebbero devolverla a corte marziale per questo, signore.-
Il ragazzo sospirò, mentre la nave nemica si affiancava al loro scafo, lanciando i rampini d'abbordaggio. -Lo so, ma correrò il rischio.- disse tirando su con il naso. -Del resto un brutto processo...-
-Senz'altro è meglio di un bel funerale.- concluse il nostromo portando una mano sulla spalla del Guardiamarina, come a volergli dire: non sarai solo.
Il brigantino che si stava avvicinando loro era un dodici cannoni piuttosto tozzo e basso sull'acqua: i suoi due alberi erano di poco più bassi di quelli della Principessa e stranamente, le coffe non erano affollate di tiratori. La sua poppa, dello stesso colore roseo di quella della corvetta Rialtina, era decorata da due sculture floreali in legno poste ai lati dello specchio, i cui petali incorniciavano la targa su cui era scritto il nome: Giacinto.
Tre minuti dopo, salirono a bordo quattro uomini: uno di loro indossava la giubba verde con una sola spallina: un Tenente quindi. Non sembravano esserci altri ufficiali con lui.
-Assumo il comando di questa nave a seguito della vostra resa.- esclamò il Tenente senza nemmeno presentarsi. -Le vostre armi, prego.- aggiunse tendendo la mano destra in avanti.
Il Guardiamarina sospirò, poi sfilò la sua sottile spada dal fodero e la posò in mano al suo nemico. Fatto questo, impugnò la pistola ma, anziché consegnargliela, la puntò in tutta fretta in mezzo agli occhi del Tenente e, senza pensarci due volte, premette il grilletto, spargendo la sua materia cerebrale addosso ai marinai che avevano seguito l'ufficiale.
-Su la bandiera! All'arrembaggio!- urlò come in preda ad un raptus recuperando in tutta fretta la sua spada per poi conficcandola nell'inguine di uno degli stupefatti Esfali sopraggiunti a bordo, troppo sorpreso per reagire.
La Principessa si rianimò all'improvviso: a bordo della corvetta rimanevano solo quarantuno marinai in grado di combattere, mentre la Giacinto, che aveva iniziato la giornata con cinquantasette persone a bordo, ora ne aveva solo trentanove. La sorpresa per questi però, fu tale che si ridussero a trentuno prima di poter reagire. Gli uomini e le donne della corvetta Rialtina abbandonarono secchi e pompe e saltarono sul legno nemico rendendolo un campo di battaglia, mentre il loro, senza più nessuno a contrastare l'avanzare dell'acqua, iniziava ad imbarcarne sempre di più, abbassando la propria linea di galleggiamento.
*
La Libeccio sarebbe andata persa. Ormai Caminetti ne era quasi sicuro: l'equipaggio aveva subito una carneficina, l'albero di mezzana era andato perso, così come le ancore e buona parte dei cannoni. Ora la fregata che lui aveva comandato per un decennio, rischiava di colare a picco. Inspirando profondamente, il Capitano si accigliò: in una frazione di secondo gli ritornarono alla mente tutti i momenti che aveva passato su di essa: alla cattura della sua prima preda, a quei due anni passati a fare da scorta ai convogli, fino a quella volta in cui, durante la scorsa guerra, aveva guidato l'azione di forzatura del blocco navale a cui era stata sottoposta la città di Rialto, affondando un vascello del Malice e guadagnandosi il leone d'oro che portava sul petto della giubba.
Tutte quelle avventure le aveva vissute sulla Libeccio: essa era come una seconda casa per lui, e ora c'era il rischio che affondasse. No, non poteva permetterlo. Nessuno avrebbe affondato quella nave, non finché lui ne fosse stato al comando.
Facendo appello a tutto il suo autocontrollo, Caminetti corse verso il castello di prua; una volta giunto a destinazione, col cannocchiale alla mano scrutò l'orizzonte. La Leonessa stava cannoneggiando il brigantino impegnato contro la Ladra di anime, mentre poco alla poppa dell'ammiraglia, intenta anche a cercare di virare di prua per ributtarsi nel vivo della battaglia, le scialuppe rimaste erano prossime a conquistare la terraferma. Poco più ad est del probabile punto d'attracco però, c'era una grande spiaggia sabbiosa. Una spiaggia protetta e dal fondale basso: non avrebbe potuto chiedere di meglio.
-Spiegate tutte le vele che ci rimangono, poi assicurate ogni cosa di valore presente a bordo, andiamo a insabbiarci!- urlò precipitandosi al timone. -Chiunque sia in grado di combattere si armi con pistola, spada, ascia o quello che preferisce, salveremo la nave mandandola in secca su quella spiaggia, poi attaccheremo i soldati che sbarcano.-
Sulla sabbia, lo scafo non avrebbe subito molti danni, e in questo modo, considerando che la marea stava calando, avrebbero potuto tappare le falle ed aspettare la prossima alta marea per tornare in mare. Nel frattempo, però, lui non se ne sarebbe stato con le mani in mano: centinaia di soldati, probabilmente stanchi e disarmati stavano scendendo a terra. Avrebbe fatto sì che ci rimanessero per sempre.
*
La prima scialuppa, a colpi di pagaia, si arenò sulla spiaggia. Il Colonnello Biscardi sbarcò, barcollando a causa delle ultime giornate passate in mare. Attorno a lui, gli uomini e le donne che lo avevano accompagnato si accasciarono sulla sabbia esausti per la vogata.
Appena ebbe messo i piedi a terra, si sentì pervadere da una sensazione di profondo sollievo. Ce l'avevano fatta: erano arrivati a terra, ed erano ancora vivi. Le altre cinque scialuppe rimaste attraccarono una dopo l'altra: i soldati su di esse però, non sembravano quasi più tali. Molti, rimasti in maniche di camicia, si sdraiarono sull'erba umida per recuperare le forze. Nessuno si preoccupò di assicurare le barche a qualcosa, tanto che un paio, sospinte dalle onde, si staccarono dalla sabbia e tornarono a galleggiare subito dopo.
Il Colonnello avrebbe voluto ordinare subito di mettersi in marcia, ma comprese che chiedere ai soldati anche questo sforzo sarebbe stato impossibile: erano troppo stanchi ed erano scampati alla morte quasi per miracolo, tanto che molti di loro, soprattutto tra i più giovani, stavano piangendo come delle fontanelle, tremando per la paura e per il freddo che provavano essendosi fermati. Inoltre, alcuni dei militari rimasti in mare ancora nuotavano appesi ai relitti per guadagnare la terraferma, quindi era meglio cercare di salvare anche loro. Biscardi decise perciò che avrebbe aspettato un po': abbastanza affinché la truppa recuperasse le forze, poi avrebbe guidato i sopravvissuti fino a Porto Ipatzia. Erano arrivati a circa quattro miglia dalla città: in poche ore avrebbero potuto raggiungerla.
Con la testa che iniziava a pulsare, il Colonnello si sedette sulla sabbia e osservò tristemente la Falce Lunare soccombere sotto i colpi della Leonessa e della Ladra di anime. Se contro il solo brigantino-goletta le probabilità di vittoria arridevano al legno Esfalo, erano però nulle contro una nave di linea. Infatti ora entrambi gli alberi della Falce erano caduti, e il suo ponte stava venendo invaso dalle fiamme. Probabilmente i superstiti si sarebbero tuffati a loro volta, per cercare la salvezza nel nuoto verso la terraferma, quindi l'ufficiale si rassegnò nel dover attendere ancora un po' di tempo prima di mettersi in marcia. In tutto questo, Biscardi non fece caso al fatto che, a meno di un miglio da lui, dietro una piccola china, la Libeccio stava approdando, insabbiandosi a pochi metri dalla spiaggia.
*
-Fate passare le cime per l'argano, poi assicuratele a terra su degli alberi.- Caminetti aiutava in prima persona il suo equipaggio nel tentare di mettere in sicurezza la nave. Senza più le ancore, dovevano legarsi con delle cime a terra, quindi si stavano muovendo di conseguenza.
Il lato di sinistra, meno danneggiato, venne fatto stendere sulla sabbia, in modo da tener sollevata la dritta, di cui una buona metà dell'opera viva emerse dall'acqua, non esponendo più le falle all'ingresso del liquido. Poco a poco, dalle basi degli alberi e da ciò che restava dell'argano vennero fatte passare delle robuste gomene che furono assicurate a terra: la nave ora era abbastanza stabile e, soprattutto, non correva più il rischio di finire negli abissi.
Contando le vittime della battaglia, una vera carneficina tra morti e feriti, Caminetti si rese conto che gli rimanevano tra i centoventi ed i centotrenta marinai ancora in piedi, di cui almeno una ventina sembravano essere stanchi morti, forse troppo per poter affrontare un combattimento corpo a corpo. Decise allora di dividere le sue forze: lui sbarcò con un centinaio tra uomini e donne, lasciando i più esausti a guardia della fregata, con l'ordine di iniziare a chiudere le falle appena ne avessero avuto la forza.
Armatosi di tutto punto, radunò la squadra d'assalto a terra e si mise in marcia verso la spiaggia vicina: i soldati sbarcati dovevano essere privi di energie: sperava di indurli alla resa con un attacco improvviso. Un po' di vittime sarebbero bastate qualora qualcuno avesse provato a opporre resistenza.
La marcia avrebbe richiesto più di una mezz'ora, visto che quasi tutti soffrivano un po' di mal di terra, lui compreso. Ma nonostante ciò sarebbero riusciti nell'intento: tre o quattrocento soldati sfiniti e senza armi, non valevano neanche la metà di cento marinai agguerriti e ben armati.
*
Lo scafo della Principessa scomparve sott'acqua. Marco Ruggero, il Nostromo della defunta corvetta, sospirò nel vedere la nave su cui aveva lavorato per oltre vent'anni sparire per sempre sotto il mare. L'abbordaggio aveva sì avuto successo, ma con perdite troppo alte: il Guardiamarina Remigi si era battuto fino alla morte, cosa che metteva Ruggero al comando della preda, essendo il sottufficiale più anziano rimasto in piedi. Attorno a sé riusciva a vedere solo distruzione e morti, assieme a pochissime persone ancora vive.
Nonostante l'iniziale effetto sorpresa, gli Esfali si erano battuti bene, non volendo in alcun modo cedere la propria nave al nemico. Lo scontro era stato breve, ma decisamente intenso: l'equipaggio del brigantino aveva mietuto non poche vittime prima che i Rialtini lo massacrassero. Infatti, in quel momento, non rimanevano più di sei o sette persone ancora in piedi sul ponte. Gli altri o erano morti, o erano doloranti e sofferenti per le ferite riportate.
-Che facciamo, Marco?- gli domandò uno sfinito marinaio quasi quarantenne, intento a riprendere le forze standosene stravaccato sopra un piccolo cumulo di cadaveri. -Posso alzare la nostra bandiera su questa bagnarola? Se saremo fortunati almeno non ci accuseranno di navigazione sotto falsa bandiera.-
-Smettila di fare l'insensibile, Giacomino!- lo zittì il nostromo. -So che anche a te dispiace per tutti quelli che abbiamo perso oggi!- disse mentre gli occhi gli si facevano lucidi.
-Certo che mi dispiace! Ma ora che facciamo?- a quanto pare preferiva sforzarsi di pensare ad altro: ci sarebbe stato tempo per il lutto più avanti. -Siam troppo pochi a bordo, non potremo nemmeno combattere se volessimo ributtarci nella mischia.-
Marco tirò il fiato per alcuni istanti. Giacomo aveva ragione: l'abbordaggio non era stato un vero successo: troppi marinai morti e troppo pochi superstiti per poter combattere. Attorno a loro la battaglia imperversava ancora, e loro non avevano alcun modo di prestare alcun aiuto...o magari... Nella mente dell'uomo prese piede un'idea. Un'idea macabra, quasi meschina, ma che avrebbe potuto consegnare loro la vittoria. -Ammassiamo tutto l'esplosivo rimasto a bordo sulla prua, poi facciamo rotta contro quella nave!- disse indicando la Bellabarba che, nonostante i colpi subiti, stava poco a poco facendo a pezzi le fregate che la bombardavano, soprattutto dopo che la Caradonna aveva ingaggiato la Saetta, che per rapida che fosse, lo era molto meno delle palle di cannone, e iniziava ad accusarne i colpi.
-Che diavolo ha in mente?- chiese tremando il più giovane dei marinai, un ragazzino di quattordici anni che aveva le guance rigate di lacrime ed un occhio pesto a causa di una botta.
-Diventeremo un brulotto, ecco cosa ho in mente.- rispose Marco rimettendosi faticosamente in piedi. -La piccola scialuppa che abbiamo a poppa ci potrà garantire la fuga. E non cambiamo bandiera fino all'ultimo. Non devono capire che siamo noi ad attaccarli. Con un po' di fortuna se ne fregheranno della nostra navigazione sotto falsa bandiera ed anzi, ci ringrazieranno di questa azione.- si interruppe per riprendere fiato: -Forza, sbrighiamoci. Non resteranno ad aspettarci per sempre!-
Dieci minuti dopo, con un equipaggio a dir poco insufficiente alle manovre, il piccolo brigantino veleggiava verso la nave di linea impegnata in combattimento, pronto a farla saltare in aria.
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