Capitolo 23

Le orecchie dell'animale che Killian si ritrovò difronte erano ritte, in allerta, come quelle di un cane da pastore che fiuta un intruso, ma affusolate e con la punta più sottile.

I colori del manto, quel marrone sporco alternato a striature grigiastre e nere, gli ricordava quello dei lupi, ma la bestia che aveva di fronte era più piccola rispetto ai predatori dei boschi.
Le zampe sottili e slanciate lo rendevano più alto di un normale cane da caccia e la figura snella e muscolosa lasciava trasparire possenza e velocità.

Killian non poteva far a meno di chiedersi che creatura fosse mai quella, troppo grande per essere domestica, troppo piccola per essere paragonata a un lupo selvatico.

Ma i suoi pensieri sparirono del tutto quando la bestia allungò il muso affusolato verso di lui mostrandogli la dentatura robusta ed i canini affilati.
Chiuse istintivamente gli occhi e si portò un braccio al viso, lasciando che un gemito rompesse il silenzio attorno a loro.

«Amutef, qui!» Una voce imponente troneggiò sull'oasi.

Killian sollevò il capo, volgendo lo sguardo alla bestia che ora gli dava le spalle per raggiungere la donna che gli stava di fronte, a pochi passi di distanza.

I lunghi capelli neri e perfettamente lisci le arrivavano a sfiorare le gambe per metà nude.
Una veste rossa lasciava intravedere buona parte del corpo bronzeo e statuario della donna; la corda fatta di fili d'oro che le cingeva la vita slanciava la sua figura mentre i gioielli che portava sulle braccia e che ornavano le spalline della veste risaltavano in contrasto con i colori scuri della carnagione e della chioma.

Killian era estasiato da quella visione: non aveva mai visto una donna portare degli abiti così succinti e inappropriati con tanta regalità; quasi gli sembrò che fluttuasse sulla sabbia mentre gli si avvicinava.

Volse lo sguardo al nero magnetico dei suoi occhi, provando a tirarsi in piedi e ricacciando la paura che ancora gli gonfiava il petto, mentre lei continuò a parlare.

«Sei degno, Killian» udì l'uomo nella sua testa, non notando, però, alcun movimento delle labbra colorate di oro di lei.

«Sei la morte?» chiese con un filo di voce, guardando poi la bestia che si era seduta tra le gambe di lei, quasi a proteggerla, «Tu e quel cane-lupo siete qui per giudicarmi, non è vero?»

«Amutef è lo Sciacallo. Io sono la Vita.» La voce lo raggiunse di nuovo senza che lei compiesse alcun movimento. «Ti ho scelto e per rendere grazie al mio dono dovrai fare ciò che ti ordino.»

Killian spalancò gli occhi e aggrottò le sopracciglia quando vide una coppa in oro con delle gemme incastonate comparire dal nulla nelle mani della donna.
Per lo stupore cadde sulle sue stesse ginocchia quando questa si mosse verso la pozza d'acqua che stava alla loro sinistra.
Mentre lei si chinava per riempire il calice col liquido cristallino, non poté far a meno di notare il grande arco, che sembrava risplendere di luce propria e che lei portava sulla schiena, e la faretra colma di frecce che non si spostarono di un millimetro neanche mentre lei tornava eretta.

Continuava a chiedersi cosa gli stava accadendo. Il paradiso ora gli sembrava un'idea lontana e il pensiero che quella fosse una strega si insidiava sempre più vivo dentro il suo animo. Come poteva parlargli senza aprir bocca? Da dove era venuto fuori quel bicchiere? E come era arrivato lì?

Stregoneria.
E l'unico posto in cui la stregoneria conduceva era l'Inferno.

Minuscole goccioline di sudore gli imperlavano la fronte corrugata mentre impaurito studiava i movimenti eleganti e armoniosi della donna che, ora, era tornata di fronte a lui.

La vide mentre si piegava sulle proprie gambe per raggiungere la testa dello Sciacallo, che non aveva mai abbandonato la posizione fiera assunta precedentemente.
Con la mano sinistra reggeva la coppa e con la destra prese a carezzare il capo dell'animale, che portò le orecchie indietro e socchiudeva gli occhi ad ogni tocco.
Quando questi spalancò le fauci Killian sussultò, temendo nuovamente per la sua incolumità e per la grandezza delle zanne bianche.

La donna gli lanciò una sola e fugace occhiata prima di allungare la mano libera verso la bocca della bestia per poi premere il dito indice su uno dei suoi canini.
L'uomo guardò con disgusto la scena, lasciandosi sfuggire una smorfia di dolore che gli corrugò le labbra e tenendosi la mano destra come fosse stata la sua ad essere ferita.
Continuò a seguirla con gli occhi mentre lei premeva sulla piccola ferita appena creatasi sul dito per lasciare che le gocce di sangue cascassero nella coppa per mescolarsi con l'acqua.

Avrebbe voluto indietreggiare quando la vide muoversi verso di lui, ma le gambe non rispondevano ai suoi comandi restando immobili sotto il suo peso.
Le braccia si allungarono in avanti per accogliere il calice che lei gli porgeva mentre incredulo guardava i movimenti delle mani che la sorreggevano senza che lui potesse gestire quella presa.

«Bevi, Killian. Sii uno dei miei Eletti e vantati della vita eterna che la Dea in persona ti ha donato.»

«Vita eterna» ripeté l'uomo guardando il liquido scuro che teneva tra le mani.
Avrebbe voluto porle mille domande. Avrebbe voluto gettare quella coppa in terra e scappare lontano da lì. Ma non riuscì a contrastare i movimenti involontari del suo corpo che sembrava mosso da una forza invisibile.
Bevve tutto d'un fiato, riuscendo solo a strizzare gli occhi, lasciando che il buio lo avvolgesse.











Gli sembrò di aver goduto di quella rilassante oscurità per pochi istanti.
Quando riaprì gli occhi si ritrovò seduto sul letto sfatto della sua camera da letto.

Le tende erano spalancate, poteva distinguere la luna alta nel cielo che illuminava debolmente i tetti scuri di Londra. C'era uno strano silenzio che aleggiava nella stanza e quando allungò una mano per cercare il corpo di Keshandra al suo fianco, l'unica cosa che toccò fu il ruvido tessuto che teneva insieme la paglia e le piume che costituivano il materasso matrimoniale su cui sovente riposavano.

Si sollevò in piedi con facilità, sfiorandosi più e più volte le braccia, il viso e il torso mentre si dirigeva verso la porta in legno che conduceva al corridoio.
Le piaghe che affliggevano il suo corpo non erano tornate. Si sarebbe soffermato più a lungo su questo dettaglio se nella sua testa non si fosse insidiata una sola ed unica domanda: dove erano finite le sue donne?

Raggiunse lentamente l'ultima porta in fondo al corridoio, più per la paura di quello che avrebbe potuto trovarsi di fronte che per debolezza.
La trovò semi chiusa e gli bastò poggiare il palmo della mano su una delle travi per spalancarla.
Davanti a lui Keshandra, bella come la ricordava, stringeva la mano completamente nera della loro figlia Judith.

Per un secondo, per un solo secondo aveva sperato che il suo fosse stato più di un solo sogno e che presto il destino che era stato riservato a lui avrebbe accolto anche la sua famiglia.

Si avvicinò con piccoli passi al letto su cui riposava Judith e quando fu di fianco a Keshandra le posò una mano sulla schiena.
Il sorriso dolce che la donna gli rivolse quasi lo fece rabbrividire.
La loro figlia era moribonda davanti a loro e lei sorrideva... cosa le era successo?
Le lanciò uno sguardo incredulo e istintivamente indietreggiò di qualche passo.

Keshandra si alzò, con ancora le labbra rosee dischiuse in un sorriso. Allungò le braccia verso di lui e gliele portò attorno al collo, affondando con la testa sul suo petto.

I suoi capelli biondi profumavano di camomilla e quando, quasi involontariamente, le accarezzò una guancia, rimase estasiato dalla morbidezza della sua pelle, dimenticandosi del caos che si era creato nella sua mente per il gesto della donna.

«Siamo vivi, mio amato. Lo sarà presto anche lei» gli sussurrò con un filo di voce, rotta dalla commozione «Quando mi sono svegliata Judith mi ha dato la notizia della tua dipartita e ha dovuto vedere sua madre spirare subito dopo».

L'uomo sentì un nodo attanagliargli la gola; le strane parole di Keshandra gli dettero speranza. Forse quello che aveva vissuto non era stato solo un sogno. Dopotutto lui era lì, in piedi, apparentemente in salute, così come sua moglie. La donna dai capelli neri gli aveva detto che era stato eletto dalla Dea, che poteva vantarsi della vita eterna. Che anche a Keshandra fosse successa la stessa cosa?
Se così fosse stato non avrebbe potuto chiedere di meglio: vivere per sempre con la donna che aveva avuto la fortuna di scegliersi e con lei camminare per sempre verso un futuro radioso.

«Hai visto anche tu lo Sciacallo?» le chiese prendendola per le spalle, guardandola con occhi speranzosi.

«Lo Sciacallo? No, no. Io... non so, non credo» ammise Keshandra scuotendo il capo «Marito mio, so solo che due mattine fa sei deceduto e io ti ho seguito. Questo pomeriggio, però, mi sono rialzata nel pieno delle mie forze. E tu dormivi beato al mio fianco.»

Quasi stentava a crederle, se non fosse che egli stesso aveva vissuto tutto quello, con l'unica differenza che lui ricordava benissimo il volto della donna che gli aveva parlato del dono della seconda vita e che, solo ora realizzava, aveva salvato lui e sua moglie.

«Sono sicura che presto a Judith spetterà la stessa sorte» continuò Keshandra prendendogli una mano fra le sue e tirandolo al capezzale della figlia «Nostro Signore ci ha graziati, è un miracolo! Siamo guariti grazie alle preghiere. Mi auguro solo che lei non soffra troppo, ha già provato troppo dolore nel vedere con i suoi occhi la morte dei suoi genitori. Povera cara, si sarà sentita persa...»

Mentre Keshandra accarezzava i capelli biondi della figlia, ereditati da lei, Killian sentì dei colpi secchi provenire dalla porta d'ingresso.
Lanciò uno sguardo alla moglie che sembrava, in un primo momento, non aver udito nulla ma che subito dopo sussultò quando un tonfo ben più forte dei precedenti riecheggiò per tutta la casa.

L'uomo si precipitò lungo il corridoio affrettandosi a raggiungere il salone che ospitava l'ingresso quando un ragazzo dai lunghi capelli castani gli si parò davanti.

«Viktor, cosa fate voi qui?» domandò sorpreso, deglutendo subito dopo.
Si rese conto che anche la pelle del giovane era priva di imperfezioni e che non sembrava per nulla affaticato.
Indossava fiero un farsetto verde acqua, i pizzi bianchi della gorgiera facevano risaltare i suoi baffi scuri e le braghe chiare, in tinta col panciotto, erano ricoperte da quelli che gli sembrarono schizzi di fango, come se avesse corso dalla sua abitazione fino a lì, incurante del sudiciume delle strade londinesi.

«Dov'è vostra figlia?» chiese in risposta, allungando un braccio verso di lui per farlo spostare.

«Cosa avete intenzione di fare?» ringhiò Killian afferrandogli la mano, furente ma allo stesso tempo preoccupato per l'irrispettoso comportamento del ragazzo.
Non solo aveva osato entrare in casa sua, senza che nessuno glielo avesse concesso, ma ora aveva anche tentato di scostarlo bruscamente dalla sua strada, ignorando completamente le sue domande.
Un comportamento intollerabile, sopratutto per un ragazzo di ottima famiglia che conosceva le buone maniere.
Cosa lo spingeva ad agire in quel modo?

«Perdonatemi, mio signore, ma non c'é tempo per spiegarvi. Ho salvato le mie sorelle e ora tocca alla mia futura sposa.» Viktor parlò tutto d'un fiato.

Killian rimase a fissarlo per pochi istanti; era visibilmente agitato, il petto gli si gonfiava e sgonfiava velocemente e le mani gli tremavano, ma quello che lo colpì maggiormente era la strana luce nei suoi occhi che accompagnava un mezzo sorriso. Era speranza quella? Che avesse trovato la cura per la peste?

O forse... era forse possibile che anche Viktor fosse stato nell'oasi? E, dunque, come voleva salvare sua figlia?

«Spiegatevi, ragazzo» gli disse afferrandogli una spalla e strattonandolo indietro, bloccando lo scatto che aveva fatto verso la fine del corridoio per raggiungere le camere da letto.

«Vi ho già detto che non c'è tempo!» ringhiò in risposta il giovane, caricando un destro sul naso dell'uomo.

Quello che avvenne dopo lo ricordava in maniera confusionaria: il naso gli bruciò istantaneamente per la botta subita, il pugno lo aveva preso alla sprovvista e la forza usata dal giovane gli sembrò quasi sovrumana; crollò al suolo picchiando la testa prepotentemente sulle assi in legno del pavimento e ancora una volta si ritrovò nell'oscurità più totale.











Quando riaprì gli occhi capì che era mattino dalla luce che, seppur debolmente, gli arrivava in viso da una delle finestrelle del vicino salone.

Per qualche momento si trascinò con le braccia, ancora rintontito, per poi scattare in piedi quando riconobbe la sua Keshandra seduta sul pavimento a fissare la porta d'ingresso.

Quella era stata la parte peggiore, il momento della sua vita che ricordava con maggior dolore.
Morire era nulla in confronto a quello che aveva provato quando Keshandra gli aveva raccontato cosa era accaduto.

Mentre lei gli narrava di come Viktor era entrato nella stanza di Judith, del coltello che stringeva tra le mani e che aveva usato per ferirsi il palmo di una mano, e del sangue che aveva lasciato gocciolare nella bocca della loro figlia, Killian sentiva rabbia e rancore crescergli dentro.

Viktor sapeva, anche lui era stato nell'oasi e aveva visto la Dea, ma perché ripetere il suo stesso rituale? Perché non lasciare anche a Judith quella possibilità?

Quando la donna gli raccontò di come la ragazza aveva riaperto gli occhi mentre il promesso sposo la stringeva tra le braccia, con l'intenzione di portarla nella sua abitazione, Killian provò una morsa al petto.

Judith si era ripresa.
Keshandra aveva visto con i suoi occhi le macchie sparire dalla sua pelle e l'aveva vista balzare lontano da lei e dal giovane per imboccare la porta d'ingresso e svanire nel buio  delle vie londinesi.

Gli era stato concesso rivedere la sua amata figlia solo un'altra volta, in quello stesso giorno.
Mai avrebbe potuto immaginare che tre lunghi secoli lo separavano da lei, e che un altro giovane, di nome Gerry, avrebbe aiutato la sua famiglia a tornare unita.

Quando quella notte aveva visto il volto di Judith sporco di sangue aveva da subito capito che quella non era più la sua bambina.
Gli aveva letteralmente ringhiato contro, intimandogli di andare via e maledicendolo per quello che le avevano fatto.

Se solo avesse saputo sin da subito cosa fosse diventata la dolce Judith le avrebbe risparmiato una vita fatta di omicidi e di fughe.

Ma ci vollero trent'anni prima che lui e Keshandra scoprissero dell'esistenza della Congrega, unica che riuscì a far luce su cosa era successo loro quella notte d'inverno del 1666.


Pensavo che la lettura "a puntate" potrebbe farvi perdere qualche pezzo, come i riferimenti che lascio capitolo per capitolo.
Vi lascio qui sotto degli estratti dal Capitolo 0.1, che dovrebbero aiutarci a capire chi è l'enigmatica Dea di cui si parla in questo capitolo 😏

È una cosa che faccio spesso, nominare qualcosa di successo in passato lasciando che sia il lettore a mettere insieme i pezzi, ma prometto che d'ora in poi utilizzerò questo metodo, mettendovi a fine capitolo le vecchie citazioni a cui mi riferisco per aiutarvi a mettere insieme i pezzi 😄

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