Capitolo 51
Non rimisi più piede nel Quartiere dal giorno del matrimonio di Emma: non volevo essere di nuovo coinvolta nei suoi casini, per quanto sperassi che con Carmine mettesse davvero la testa a posto; anche perché in quel periodo avevo ben altro a cui pensare: Cinzia era tornata dalla Nigeria con due bambini, un maschio e una femmina, in lista per essere adottati da qualche famiglia italiana: si chiamavano Abdul e Amina, e fin quando non avessero trovato dei nuovi genitori pronti ad accoglierli, sarebbero stati sotto la tutela di Tancredi e avrebbero vissuto con noi a casa Storione.
Era da qualche giorno dopo l'aborto del bambino che aspettavo da Christos, il ragazzo greco con cui tradii Annibale Zanoni nell'estate del 1999, che non mi ero più immaginata così intensamente nei panni di madre, forse per paura che il ricordo di quell'esserino mai nato tornasse a fare male: quando Abdul e Amina comparvero nella mia vita, sebbene sapessi che il loro affido sarebbe stato temporaneo, il mio desiderio di maternità tornò a farsi largo nel mio petto, scansando tutte le ferite del passato e guardando quella famiglia improvvisata - io, Tancredi, Cinzia e i piccoli nuovi arrivati - con una consapevolezza nuova, ossia che un giorno avrei avuto dei figli miei, che sarebbero nati e avrebbero ripreso un po' dei miei tratti e un po' quelli di Tancredi.
***
Fu da quella loro prima notte alla villa che potei toccare con mano tale consapevolezza, quando, verso le due, mi alzai per andare a prendere un bicchiere d'acqua, e sentii un rumore di pianto: accesi una delle abat-e vidi la piccola Amina che s'era rannicchiata in cucina, il viso ricoperto di lacrime.
<< Amina, che è successo? >> domandai, inchinandomi verso di lei e scandendo bene le parole in italiano, che aveva imparato da poco nella Onlus di Cinzia.
<< Io... Ho fatto un brutto sogno... >> esordì, puntandomi in faccia gli occhioni neri.
<< Cos'hai sognato? >> le chiesi.
<< C'erano degli uomini cattivi che hanno dato fuoco al mio villaggio, hanno ucciso tutta la mia famiglia e appeso il maestro alla porta della scuola con dei chiodi, per farlo morire... >> raccontò, piangendo ancora più forte.
Non sapevo come fare per consolarla, fino a quando la chiave per la risoluzione, almeno parziale, dei suoi dolori: era stato il ricordo del suo maestro della scuola del villaggio a farle addirittura più male della morte dei suoi genitori e fratelli; mi venne in mente quando venne ammazzato il signor Faria, per essersi innamorato, ricambiato, della donna sbagliata: all'epoca ero poco più grande di Amina, ma fu per me e per Emma peggio di un lutto in famiglia, perché quell'uomo ci aveva insegnato ad immaginare un futuro diverso da quello che ci sarebbe spettato dentro il Quartiere.
E allora seppi cosa fare.
<< La vuoi sentire una storia? >> cominciai.
<< Sì... >> rispose la bambina.
<< Quando la mia amica Emma e io avevamo la tua età abitavamo in un posto molto brutto, dove la gente non sapeva sognare. In cima al nostro palazzo abitava un signore che si chiamava Ulisse Faria, e comprava e vendeva le opere d'arte, ed era anche molto bravo a rifarle. Solo che a noi bambini era proibito parlagli, e i nostri genitori dicevano che praticava la magia nera, per tenerci lontani da lui >> continuai.
<< Come gli sciamani? >> chiese Amina, asciugandosi le lacrime col dorso della mano destra e assumendo un'espressione curiosa.
<< Esatto, come gli sciamani. Successe però che Emma e io avevamo trovato un sesterzio, una moneta degli Antichi Romani, in un posto chiamato Incompiuta, il nostro rifugio segreto. Volevamo sapere tutto su quel tesoro, così lo chiamavamo, e Faria era l'unico che poteva spiegarci qualcosa di più >> proseguii.
<< E ci siete andate? >> fece la piccola.
<< Sì, siamo salite di nascosto, con la paura che le storie su di lui fossero vere. Poi lui ci ha aperto la porta e ci ha mostrato qualcosa di bellissimo... >> replicai, tornando con la mente al giorno in cui il falsario ci aveva aperto le porte della sua casa, determinando in gran parte quello che saremmo diventate.
<< Cosa? >> mi incalzò.
<< La sua casa aveva due piani, e a quello di sopra c'era la sua stanza da lavoro, un posto in cui c'erano oggetti provenienti da tutto il mondo e di tutte le epoche: sembrava che tutta la storia e tutta la geografia fossero lì dentro... >> ribattei.
<< E com'è stato ucciso? >> volle sapere.
<< Un uomo molto cattivo lo buttò di sotto dopo una lite, venne trovato la mattina dopo con la testa spaccata. Aveva messo gli occhi addosso alla fidanzata di quest'uomo, e lui non glielo aveva perdonato >> ricordai, l'immagine del signor Ulisse - che gli adulti non ci mostrarono - ancora viva nella mia mente come se non fosse passato nemmeno un attimo da allora.
<< Povero signor Ulisse. Era un uomo buono, che sapeva tante cose. Che posto brutto, quello in cui stavi tu... Meno male che adesso siamo sane e salve tutte e due... >> confessò Amina, abbracciandomi. Risposi a quell'abbraccio, ne avevo bisogno dopo aver richiamato alla memoria quell'episodio terribile della mia vita.
<< Già, siamo sane e salve... >> commentai. In realtà lo era solo lei, io me la giocavo camminando su un filo di seta sospeso nel vuoto, in bilico tra l'oblio nei confronti della mia vita precedente e il morboso attaccamento alle vicende del Quartiere da cui non ero mai riuscita completamente ad affrancarmi. Ma quella notte non volli tediarla con i miei problemi, e poco dopo la riportai a letto, dove si addormentò serenamente.
***
La mattina successiva raccontai a Tancredi delle sensazioni di maternità che mi aveva suscitato quella conversazione notturna con Amina, e gli dissi che all'ora di pranzo sarei andata da Emma per condividere con lei quelle sensazioni: chissà che, dopo la mia confessione, non venisse anche a lei l'idea di dare dei figli a Carmine nel breve termine.
Per andare nel Quartiere preferivo non farmi accompagnare da Tiziano, l'autista di Tancredi, ma di prendere la mia macchina: dalle mie parti non amavano gli sconosciuti, a meno che non portassero soldi.
Sapevo che sicuramente l'avrei trovata al banco di fiori: nonostante fosse sposata, non si sarebbe mai sognata di restare in casa a fare la moglie e basta, nemmeno sotto tortura.
Parcheggiai nella piazza principale e mi diressi verso il banco, ma sulla strada sentii degli strani gemiti provenire dall'officina dei Floris, chiusa per la pausa pranzo e con la saracinesca semichiusa: pensai che Emma e Carmine avessero una grandissima intesa, ma poi ascoltai con più attenzione e capii che la voce maschile non era quella del legittimo consorte della mia amica, bensì di suo fratello maggiore Orlando.
All'improvviso fui catapultata mentalmente indietro nel tempo fino al maggio del 1995, quando il primogenito del meccanico s'era messo a parlare con me pur di arrivare ad Emma; all'epoca, però, lei sfruttò semplicemente l'interesse di lui per farsi procurare l'erba che fumavamo all'Incompiuta; adesso invece, a distanza di anni, se lo stava scopando nell'attività della famiglia di lui, con la possibilità di essere scoperta dal marito o da qualsiasi altro dei Floris.
Tale era lo shock che rimasi pietrificata lì davanti, non riuscii a muovermi nemmeno quando Orlando tirò su la saracinesca dell'officina e ne uscì con Emma. Erano scarmigliati e circospetti, vedermi lì li riempì di sgomento.
<< Leti... >> disse lui, avvicinandosi.
<< Non me ne frega un cazzo dei vostri casini, fate come se non avessi visto niente... >> replicai trattenendo a fatica il disgusto.
<< No Leti, lasciami spiegare... >> rispose Emma. << Orlà, non ce l'hai te un pranzo da mangiare? >> fece poi riferendosi all'ormai cognato di entrambe, esortandolo a togliersi dalle scatole. Orlando ubbidì, lasciandoci da sole all'interno dell'officina. Emma abbassò di nuovo la saracinesca.
<< Si può sapere che cazzo stai facendo? >> esordii alterata. Il fatto che una condizione di moglie potesse andarle stretta l'avevo tenuto in conto, conoscendola, ma il povero Carmine, questo trattamento proprio non se lo meritava.
<< Non ti devi preoccupare di niente. È tutto a posto >> mi tranquillizzò.
<< Ma a posto cosa? Ti stavi scopando tuo cognato e nemmeno è passato un mese dal tuo matrimonio con Carmine! >> obiettai abbassando il tono di voce. Non volevo che nessuno sentisse, mi vergognavo per lei.
<< Carmine lo sa >> rispose.
Fui sicura di non aver capito bene.
<< Come sarebbe a dire che lo sa? >> ribattei incredula.
<< Prima che ci sposassimo gli ho detto che non avrei potuto promettergli fedeltà eterna, che quella era solo una formula di rito, e che non potevo combattere la mia natura >> mi rivelò.
<< E quale sarebbe la tua natura? Quella di fedifraga? >> feci scandalizzata.
<< Ascolta, Leti. Abbiamo passato tutta la vita a domandarci perché ci fosse toccato essere femmine in questo ambiente di merda: le nostre coetanee parlavano di persone meravigliose e viaggi incredibili, noi dovevamo chiedere il permesso ai nostri padri e fidanzati perfino per scendere giù in piazza, a fare una passeggiata. A me non importa del giudizio della gente, ma non essere tu a giudicarmi, Leti. Te ne prego >> sentenziò, guardandomi negli occhi.
Pensai alla sorte che sarebbe toccata a Orlando e a tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui, povere carni da macello che la mia amica avrebbe usato e poi gettato via, lasciandoli a sanguinare sul ciglio della strada.
Le giurai il mio silenzio e me ne andai, non potevo resistere un altro minuto lì dentro.
***
L'immagine di Emma e Orlando che si amavano in officina, nella penombra della saracinesca abbassata, mi perseguitò per diversi giorni.
Avrei voluto che non me lo confidasse mai, il motivo per cui aveva sposato Carmine: era l'unico uomo nel Quartiere che avrebbe accettato di mantenere con lei una relazione aperta.
A me faceva schifo questa cosa: non era giusto nei confronti di quel povero ragazzo, che accettava perfino di portare le corna.
Mi faceva pena perché lui, Emma, l'amava davvero, con cieca e insensata fiducia; lei invece odiava tutto di lui, con silenzioso e latente risentimento: il suo conformismo, la sua passività, la rassegnazione all'ambiente dov'era nato e cresciuto. Ma la cosa che mi faceva veramente schifo era la possibilità che, con la copertura del suo matrimonio, potesse tornare a mettere le mani su Gabriele, semmai a quest'ultimo fosse tornato in mente di tornare in Italia: solo che non aveva ancora in mente di lasciare New York, forse aveva deciso davvero di mettere radici oltreoceano.
***
Per quanto non condividessi la scelta di Emma, dovevo ammettere che era riuscita a raggiungere un buon compromesso sposando Carmine, godendo di tutti i vantaggi dello status di donna coniugata e benestante ma senza rinunciare alla propria libertà.
Al posto suo non ce l'avrei mai fatta a prendere una decisione simile, non tanto per mancanza di fegato, quanto per il fatto che, nonostante avessimo conosciuto anche nel Quartiere i grandi cambiamenti epocali e la conseguente modernità, continuavamo a portarci appresso tutto il substrato d'ignoranza e bigottismo che avevamo ereditato dai nostri genitori, un background che mi condannava a rimanere sullo sfondo, mentre lei era in primo piano, sempre al centro della scena.
Avevo costantemente un senso di inadeguatezza che mia madre stava sempre lì a ricordarmi, come se le desse soddisfazione vedermi soffrire.
<< Ma guardati, perfino la tua amica dimostra che sei inutile. Almeno lei, anche se è una grandissima puttana, ha trovato qualcuno che se l'è presa. Tu invece ti sei incollata come una pellicola a quel Tancredi, e vedrai come rimarrai fregata, te lo dico io! >> sentenziava senza pietà, ogni volta che, capitando nel Quartiere, mi veniva la malaugurata idea di andare a trovare la mia famiglia in pizzeria o a casa.
Non c'era niente delle cose che mi erano accadute negli ultimi tempi - il mio trasferimento da Tancredi, l'arrivo di Abdul e Amina, i viaggi per lavoro e per diletto - che ricevessero la sua approvazione: secondo lei avevo sbagliato tutto a prescindere, e non c'era redenzione per quelli che ai suoi occhi apparivano come peccati capitali.
***
Cercai di non pensarci, di fare finta che Emma quasi non esistesse, e un vantaggio ce l'avevo: convivendo ormai da un anno con Tancredi, stavo lontana dalle schifezze che la mia amica faceva alle spalle di quel povero scemo del marito.
Venivo nel Quartiere solo di tanto in tanto, quando il lavoro, i viaggi e la questione dell'adozione di Abdul e Amina mi davano la possibilità di tornare laggiù da sola o insieme al mio fidanzato, e tendevo ad andare a trovare la mia famiglia, Viviana e Mario o i miei amici del mercato, piuttosto che Emma; mi volevo tenere alla larga più possibile dai suoi guai, non avevo alcuna intenzione di mettere le pezze come facevo da tutta la vita.
Finché una mattina arrivammo nel Quartiere e ci accorgemmo che c'era un gran chiasso.
<< Cosa sarà successo? >> domandò Tancredi mentre parcheggiava.
<< Non lo so, forse sarà morto qualcuno... >> risposi facendo spallucce.
Scendemmo dalla macchina e ci addentrammo nelle strade del Quartiere, dove la gente stava affacciata dai balconi e dalle finestre dei casermoni, appollaiata sui portoni o accalcata per strada, che si sussurrava nell'orecchio o si dava le gomitate per avere la visuale migliore su quell'evento tanto misterioso quanto interessantissimo, a giudicare dall'eccitazione che suscitava in tutti.
Incontrammo Renata Caruso, che appena saputo quanto successo s'era precipitata subito fuori dalla portineria.
<< Signora Renata! Ma che è successo? >> domandai, mentre le venivamo incontro.
<< È tornato quel grandissimo mascalzone, e a quanto pare s'è pure sposato! >> esclamò.
<< Chi s'è sposato? >> chiese Tancredi.
<< Gabriele Altieri, e la moglie è americana, c'ha un nome strano, tipo Shully, Shirry... >> commentò.
<< Shirley? >> ipotizzai per assonanza. Non ci potevo credere che l'avesse fatto davvero, eppure dovevo aspettarmelo.
<< Eh sì. Sta in piazza, si vanta come un pavone che fa la ruota, ma quella povera ragazza non ha nemmeno idea di chi è suo marito... >> sentenziò Renata, ma già le voltavamo le spalle, diretti dove ci avevo detto.
Davanti alla porta dell'agenzia, Gabriele sfoggiava Shirley Steward, la sua moglie statunitense, come un trofeo: lunghi boccoli biondi, occhi celesti, pelle diafana e silhouette da far venire i complessi alla maggior parte dell'universo femminile, era la classica ragazza che mi aspettavo accanto a lui.
Tra la folla cercai di scorgere Emma, pensando che non avrebbe retto il colpo: e invece era lì tra la folla, mano nella mano con Carmine, a dimostrazione che di lui e della sua nuova vita, a lei, non gliene fregava un benemerito cazzo.
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