Capitolo 5

Dalla seconda metà di giugno il Quartiere si svuotava: la maggior parte degli abitanti non erano romani di sette generazioni, per cui d'estate quasi tutti tornavano al proprio paese natale; Giulio Ferranti era nato a Marina di Pisciotta, mio padre proveniva da Modica.
Le famiglie si muovevano in fila, con le rispettive macchine, dai casermoni alla piazza principale, fino ad imboccare il Viale dei morti ammazzati: sembravano una carovana del deserto.
Mi sedevo sul sedile posteriore a destra e, non appena cominciava il Grande Raccordo Anulare, osservavo le vetrate con gli uccelli di carta appiccicati sopra, messi lì per non farli andare a sbattere, ma poiché non erano animali di particolare intelligenza, ci si andavano a schiantare lo stesso; davanti ai finestrini sfilavano i paesaggi di molte regioni: il basso Lazio, l'Abruzzo, il Molise, la Campania; il viaggio procedeva tranquillo, almeno finché non cominciava la Salerno-Reggio Calabria: la nota continuazione sud dell'Autostrada del Sole era lunga agonia di traffico, bestemmie e suoni nervosi di clacson, e ricordava un girone dell'inferno dantesco sviluppato in orizzontale, che sembrava non dover finire mai.
Ma il passaggio dello Stretto di Messina ci ripagava di tutti i disagi: il promontorio di Scilla e quello di Cariddi ci osservavano da entrambi i lati, la luce e il mare ci accompagnavano fino a che non si cominciavano a vedere i primi edifici di gusto barocco.
<< Taliate, picciotti... Chista è casuzza nostra! >> esclamava mio padre, a cui tutte le volte quasi non pareva vero di tornare nell'amata Sicilia.

                                    ***

Tornavamo nel Quartiere i primi di settembre, abbronzati, con qualche chilo in più e l'odore del mare, della montagna, della sabbia e dei prati ancora sulla pelle; ma dovevamo imparare presto a scordarlo e a riabituare le narici a quello del Quartiere, un misto di sangue, polvere, cucinato e immondizia.
L'unica cosa che rendeva meno brutto il rientro in città erano i prodotti tipici che ogni famiglia si portava appresso dal paese di provenienza: la nduja di Pizzo Calabro, la pizza con le cipolle di Tropea,  gli arrosticini di Montesilvano, le pagnotte di Matera, le mozzarelle di Mondragone, i formaggi della Sardegna; quando eravamo tornati tutti, ma proprio tutti, ce li scambiavamo come se fossero Figurine Panini, e così l'estate sembrava durare fino a ottobre inoltrato. Il nostro cavallo di battaglia era la cioccolata di Modica, dal gusto spiccatamente fondente.
Il settembre del 1986, però, fu per Gilda, per Simona e per i loro coetanei un mese particolare: avrebbero cominciato le elementari.

                                    ***

I giorni iniziali di quell'ultimo anno d'asilo Emma si annoiava tantissimo: eravamo trenta bambini in una classe, tutti figli di genitori che non vedevano l'ora che ci pigliassimo la terza media per andare a lavorare e pesare il meno possibile sulla famiglia, e per di più abituati alla quasi totale libertà fino a poco tempo prima.
La maestra, Rebecca Mari, era la stessa da tre anni ma siccome l'anno dopo avremmo frequentato le elementari, voleva farci preparare per bene, per cui decise di inquadrarci: ci fece sedere a un gruppo di tavoli a parte, e per settimane ci fece fare gli esercizi di precisione sul quaderno, quelli preparatori alla scrittura, ossia le linee orizzontali, verticali e oblique, le ondine e i cerchi, tutti uguali, in sequenza: questa attività così monotona poteva andare bene a qualsiasi bambino o bambina di cinque anni, ma non ad Emma; eravamo al banco insieme, e non appena la maestra si girava dall'altra parte, lei cambiava pagina e si metteva a disegnare tutti i fiori che era abituata a veder maneggiare dai genitori: erano sghembi e imprecisi, ma all'epoca mi sembravano bellissimi, audaci frutti di un talento puro e anticonformista.

                                    ***

Decise di mostrarli a tutte noi, un giorno in cortile.
<< Ma che belli! >> esclamò Viviana.
<< Davvero meravigliosi! >> aggiunse Alice.
<< Li hai visti fare dai tuoi? >> domandò Diana.
<< No, li ho pensati da sola. I miei non le fanno queste cose così fighe, coi fiori >> spiegò Emma.
<< E perché non gliele fai vedere? Così almeno li fanno coi fiori veri! >> suggerì Gilda, che a ricreazione lasciava momentaneamente i compagni della prima elementare e tornava da noi.
<< No, sono cose troppo complicate per loro. Non le capiscono, specialmente mio padre. Le potranno scoprire solo quando sarò brava e li farò diventare ricchi. Allora sì che mi daranno retta... >> commentò lei.
<< Dici che se vedono i soldi ti credono? >> chiesi.
Emma guardò prima me, poi le altre, con il tipico sguardo di chi stava per fare una rivelazione fondamentale per le sorti del mondo.
<< Non è che lo dico io. È proprio così: con i soldi, perfino chi ti odia comincia ad amarti >> sentenziò, lasciandoci letteralmente spiazzate.

                                    *** 

Ripensai a lungo alla frase che aveva detto Emma, senza però riuscire a trovarle un significato: avevo sentito mia madre fare recriminazioni a mio padre sui soldi che non bastavano mai, ma era una frase che dicevano tutti, nel Quartiere, e pensavo che da quelle parti, di ricchi veri come quelli che si vedevano nelle fiction o sulle riviste dei giornali, non ce ne fossero.
Il giorno in cui dovetti darle ragione, stavamo cenando, quando sentimmo delle urla in napoletano stretto, un tonfo e un rumore di vetri che si infrangevano a terra: erano Pino O' Serpente e Lilly Marlen che stavano litigando per gli "incassi" di lei.
Abitavano nell'appartamento accanto al nostro e le pareti dei casermoni erano abbastanza sottili da lasciar trapelare ad ogni famiglia i dettagli più intimi della vita dei propri vicini; alle sceneggiate di quei due ci eravamo abituati, come lo eravamo al fatto che, se la situazione degenerava, Alice sgattaiolava da noi.
Quella volta, però, sentimmo un rumore strano, di imposte che si aprivano: ci precipitammo alla finestra della cucina tutti nello stesso momento, giusto il tempo di vedere Lilly Marlen volare di sotto dal secondo piano, urlando.
<< Stronza, zoccola! Tu sul chill saje fa, e manco buon! >> strillò l'uomo fuori di sé, mentre la povera donna era caduta a terra, il braccio sanguinante.
In tutto questo Alice era dietro di lui, il volto atterrito. Pino si accorse di lei.
<< Vattenn, pur tu! >> berciò, inducendola a scappare.
Mentre mia madre la lasciava entrare in casa nostra, mettendo il suo caratteraccio da parte apposta per l'occasione, mio padre e altri inquilini del nostro palazzo erano accorsi in aiuto di Lilly Marlen, qualcuno aveva chiamato un'ambulanza.
Alice dormì da noi per tutto il tempo in cui sua madre fu ricoverata in ospedale: Pino non fece obiezioni, aveva troppa paura di mio padre.

                                    ***

D'altra parte la disfunzionalità era la prassi, tra le famiglie del Quartiere: i miei erano l'esempio perfetto di questo concetto.
Quando mio padre, Calogero Finelli, aveva incontrato mia madre, Clelia Ferrucci, era un giovane militare siciliano  trapiantato nella Roma del 1967: era una ragazza dal carattere forte, e fu proprio questo a conquistarlo al punto che, finita la leva, si sposarono e decisero di risparmiare fino all'ultimo centesimo per comprare i biglietti di due posti in terza classe su un transatlantico che li avrebbe portati a New York, dove conobbero Giulio e Amanda Ferranti, e tutti insieme sperarono di passare indenni ai controlli di Ellis Island.
I primi tempi furono durissimi, anche se col tempo gli italiani negli Stati Uniti erano trattati molto meno male rispetto a prima, ma se il carattere di mio padre rimase sostanzialmente lo stesso, quello di mia madre peggiorò: gli stenti, le privazioni, i pochi soldi l'avevano fatta diventare una donna venale e materialista, piena di risentimento verso quel marito che faticava a diventare qualcuno di importante; non si ammorbidì nemmeno quando i suoi parenti residenti a Berlino Ovest trovarono lavoro sia a loro che ai Ferranti, nel 1975: nonostante fossero caduti in piedi, il rancore di mia madre verso mio padre, memore dell'incertezza degli anni americani, continuò a crescere, anche perché non si erano potuti permettere di fare figli.
Solo quando nacque mia sorella Simona, nel 1980, parve acquietarsi, anzi disse a mio padre che dovevano tornare a Roma, perché la città era in espansione e potevano mettersi in lista per un alloggio popolare in una delle periferie futuristiche in costruzione, dotate di tutte le comodità; i Ferranti fecero lo stesso, e la signora Amanda aspettava Emma quando venne loro assegnato un appartamento nel Quartiere Anceschi: i miei aprirono una pizzeria, i genitori di Emma un banco di fiori e furono subito rispettati, visto che mio padre era un omaccione alto un metro e ottantacinque e il signor Giulio mordeva peggio di un cane idrofobico.
Simona e io venimmo su tra gli spacciatori, gli assassini, i ladri e le puttane, con gli incendi appiccati agli ascensori e le persone lanciate dalle finestre durante una lite, ma mentre io speravo di non somigliare mai al contesto che ci aveva viste nascere, mia sorella ci affondò senza opporre alcuna resistenza, ereditando gli spigoli, la perenne incazzatura e l'arrivismo di nostra madre. E poi mi odiava, facevano a gara lei e la mamma a chi mi disprezzasse di più tra le due, per la mia "colpa" di non voler soccombere ad un destino già scritto.
Nemmeno la nascita di Dario distese i nostri rapporti.

                                    ***

Ma accadde che, nei giorni di ricovero di Lilly Marlen, Pino O' Serpente fece un colpaccio tale - chi diceva rapina in banca, chi assalto ad un portavalori - da ottenere un sacco di soldi che gli fecero dimenticare tutti i motivi della lite con la compagna, anzi: divenne un altro, sorridente e gentile, andò perfino a prenderla in ospedale con la macchina, e la accompagnò con la sedia a rotelle in ascensore, che eccezionalmente funzionava.
Fu amorevole perfino con Alice, che riempì di regali.
Non litigarono per diverso tempo, sembravano essere diventati la Famiglia del Mulino Bianco, ma proprio dal loro atteggiamento capii il senso dell'affermazione di Emma: i soldi avevano davvero il potere di cambiare gli uomini e le donne, nonché di trasformare le bestie come Pino O' Serpente in persone.











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