Capitolo 40

Il fidanzamento tra me e Leonardo venne celebrato in famiglia con una grande festa, all'inizio di settembre, dove mia madre, da brava arrivista qual era, cominciò a tessere le mie lodi come mai aveva fatto in vita sua, seguita a ruota da Simona, incinta della sua prima figlia, la quale non aveva altrettanto mai speso una parola positiva nei miei confronti; le uniche cose sincere uscirono dalle bocche di mio padre, di Dario e di Orlando.
Per tutto il tempo sperai che quella commedia farsesca finisse: la presenza di Leonardo era l'unico appiglio che avevo per mantenere la calma e non impazzire.
Andò via promettendo che presto ci avrebbe tutti invitati a casa sua, tra le grida di giubilo di mia madre e mia sorella; a guardarle come gongolavano, mi augurai che i genitori di Leo potessero fare le giuste distinzioni tra me e i miei consanguinei.

                                      ***

In quei giorni capii che avevo passato un anno ad esorcizzare la fuga di Emma, a non pensarci nemmeno, ma in quella nuova situazione in cui mi trovavo mi fece venire un effluvio di nostalgia: lei era la sola che sapeva darmi il consiglio giusto, che non fosse dettato dalla ruffianaggine, dall'apprensione o dalla rabbia; i suoi pareri schietti e senza filtri mi avevano dato sempre il coraggio di prendere la decisione migliore, e il mio fidanzamento con Leonardo, con conseguente cambiamento degli atteggiamenti della mia famiglia solo perché era ricco, mi faceva sentire ancora di più l'assenza della mia amica.
Iniziai ad aspettare sue notizie, che mi arrivarono in un momento in cui non me le sarei mai immaginate: l'11 settembre un terrorista di Al Qaeda si schiantò con un aereo sulle Torri Gemelle, due grattacieli al centro della piazza di Ground Zero, a New York, dove perse la vita un sacco di gente che ci lavorava dentro.
Due giorni dopo mi stavo ancora riprendendo dallo shock collettivo che aveva attraversato il mondo dall'Europa all'Oceania, quando notai che nella posta c'era una busta per me, con su scritto "Per Leti": riconobbi la calligrafia di Emma. Lasciai cartoline, bollette e pubblicità sul tavolo del soggiorno e corsi in camera, sapendo che la mia migliore amica voleva comunicarmi qualcosa di importante proprio alla luce dell'attentato.
Entrai in camera, mi sedetti alla scrivania, aprii la busta e mi stupii del contenuto; dentro non c'era una lettera, ma una foto: ritratta c'era Emma, circondata da due ragazzi, probabilmente locali, entrambi abbracciati a lei. Girai l'istantanea, notai che riportava la data 11 settembre 2001.
Sorrideva trionfante, come se quello che era successo a New York non l'avesse toccata minimamente.
Il mondo esiste soltanto per piegarsi a noi, così aveva detto Emma nel maggio del 2000, quando mi sfotteva perché giravo col giornale sottobraccio e mi accusava di informarmi troppo come se fosse un crimine; in quel momento mi fu chiaro quello che voleva dire all'epoca: tutto il mondo era letteralmente nel panico e lei se ne stava lì, avvinghiata ai due londinesi, dritta e secca come la prima persona singolare, ma non quella in italiano, bensì in inglese, I, maiuscola come il suo egocentrismo, come l'etica dei paesi anglosassoni a cui s'era completamente uniformata.
E sebbene sapessi che informarsi fosse una cosa giusta, corretta, mi sentii piccola e scema appresso a tutte quelle notizie dal mondo, zerbina e lacchè di un sistema che lei, invece, contribuiva a costruire in maniera attiva e vitale, col suo coraggio assurdo di trascinarsi sempre oltre i limiti senza temere di essere disprezzata da chiunque le stesse accanto.

                                      ***

Il giorno in cui i genitori di Leonardo ci invitarono a pranzo per conoscerci era ottobre e mia sorella, al nono mese di gravidanza, aveva avuto da ridire perché si sarebbe dovuta spostare fino al Quartiere Coppedè, dove abitavano i signori, come lei chiamava spregiativamente i genitori del mio fidanzato: Orlando cercò di rassicurarla ricordandole che ci saremmo spostati con le macchine, e che comunque non c'era pericolo che la bambina decidesse di nascere proprio quel giorno.
I signori Giorgio e Delia Sironi abitavano al secondo piano di un elegante palazzo di inizio secolo, costruito sicuramente coi migliori materiali e soggetto a continui lavori di manutenzione ogni volta che c'era anche solo una piccola crepa.
<< Lo facessero anche ai casermoni questo lavoro di rifinitura... >> commentò Simona.
<< Ti prego, Simo, durante il pranzo non metterti a raccontare aneddoti del Quartiere a rotta de collo... >> la pregai.
<< E che altro dovrei raccontare, cazzo? Io quelli c'ho, oppure volevi che m'inventassi a tavolino un'infanzia e un'adolescenza in Prati? >> ribatté seccata lei.
<< Forse Leti intendeva dire che potrebbero giudicarci, essendo nati in tutt'altro ambiente... >> cercò di mediare Orlando.
<< Simona ha ragione, perché ci dobbiamo reprimere per fare contenta 'sta stronzetta? Io sono del Quartiere Anceschi, e me ne vanto! >> esclamò mia madre, facendomi venire il desiderio improvviso di scomparire sottoterra.
<< Cerca di darti una calmata, Clè, che sennò ci facimm letteralmente una figura della minchia... >> intervenne mio padre.
<< Che facciamo, suoniamo o no? >> chiese Dario, che non aveva molta voglia di rimanere a vederci litigare davanti ai citofoni.
<< Ammuninn, Dariù, suona! >> comandò il capofamiglia.
Mio fratello suonò al campanello, io annunciai me e la mia famiglia, cosicché il portone si aprì ed entrammo, diretti agli ascensori.

                                     ***

<< Buonasera! >> ci salutò Leonardo, aprendoci la porta.
<< Buonasera! >> risposi, baciandolo.
<< Ma venite, che vi faccio conoscere i miei genitori e mia sorella Alessandra... >> ci introdusse lui.
Ci guardammo intorno: la casa era bellissima e spaziosa, circa il doppio degli appartamenti nei casermoni.
<< Certo che ti sei piazzata proprio bene... >> mi sussurrò all'orecchio Simona.
<< Sei sempre così venale... >> le risposi con lo stesso tono di voce, superandola per raggiungere Leonardo.
I familiari del mio fidanzato ci aspettavano in soggiorno: avevano tutti gli stessi tratti somatici, capelli scuri e occhi chiari; Alessandra aveva sedici anni e frequentava il liceo classico.
<< Ma complimenti, di quanti mesi è? >> fece la signora Sironi, notando il pancione di mia sorella.
<< Nove, e potrei partorire da un momento all'altro >> replicò quest'ultima come se, invece di un dato di fatto, stesse esprimendo una minaccia.
Ci fecero accomodare intorno al grande tavolo rettangolare dove si mangiava durante le feste o le occasioni speciali: la cameriera Juanita, proveniente dal Messico, cominciò a portare gli antipasti; mi faceva uno strano effetto essere servita a tavola, mia madre mi avrebbe spaccato i piatti di coccio in testa se non me la fossi sbrigata da sola.
Agli antipasti seguirono il primo, il secondo e il contorno; tra una portata e l'altra parlammo un po' di noi: il signor Giorgio e la signora Delia svolgevano la professione di diplomatici, e si erano incontrati all'ambasciata di Città del Messico, dove avevano peraltro conosciuto Juanita, ormai facente parte della famiglia.
Fu tra la frutta e il dolce che Simona cominciò a sentirsi poco bene, scolorendosi in viso e accusando dolori sempre più forti.
<< Tesoro, che hai? >> chiese subito Orlando.
<< Si sono rotte le acque... >> dichiarò lei.
<< Non è possibile, manca ancora un po'... >> osservò lui.
<< Ti ho detto che si sono rotte, cazzo! >> sbraitò Simona.
<< Bisogna andare in ospedale... >> commentò mia madre.
<< No, señora. È troppo tardi, la sua hija deve partorire en casa >> intervenne Juanita.
<< Ma che è scema? Mi vuole far partorire in casa come gli antichi? >> scattò Simona tra una contrazione e l'altra.
<< Si fidi di Juanita, lei sa quello che fa >> la rassicurò la signora Sironi.
<< Bien. Señorita Letizia, vada a far scaldare l'acqua. Señorita Alessandra, lei si occupi delle pezze pulite. Señoras, voi venite con me. Los hombres harian a estar fuera! >> ordinò la messicana, come una direttrice dei lavori.
Doveva aver fatto partorire in casa tante donne, dalle sue parti, per cui ubbidimmo tutti.

                                     ***

Il parto fu lungo e complicato, ma Juanita governò la situazione con il pugno di ferro, riuscendo a domare perfino mia madre e mia sorella.
Poi, quando le urla di Simona furono sostituite dalle urla della piccola Jessica, uscimmo dalla stanza stravolte, mentre Orlando ci veniva incontro, bianco come un lenzuolo, circondato da mio padre, da Dario, dal signor Sironi e da Leonardo.
<< Allora? >> domandò.
<< La niña è sana e bella. Felicitaciones! >> esclamò Juanita, stringendogli vigorosamente la mano.
<< Simona è dentro? >> chiese il giovane Floris.
<< Sì, la señora està dentro con la pequeña >> confermò la governante.
Orlando si precipitò dentro da Simona, mentre io guardai Leonardo.
<< Ci siamo fatti riconoscere, vero? >> gli feci, in tono di scuse per quell'imprevisto.
<< Ma non ti preoccupare, anzi... È stato il pranzo più memorabile che ci sia mai stato in questa casa! >> esclamò lui divertito.
Sbirciai con la coda dell'occhio nella stanza da letto dei Sironi, dove s'era formata la nuova famiglia Floris-Finelli: la piccola Jessica aveva momentaneamente addolcito perfino mia sorella; mi venne in mente che potevo avercelo anch'io, un bambino, ma mi avevano impedito di farlo nascere; forse dovevo raccontarlo a Leo, se volevo che mi stesse accanto doveva sapere tutto di me, anche i lati più oscuri del mio passato.
Ma magari era ancora presto.

                                     ***

Le settimane successive furono caratterizzate da un gran viavai in casa di Orlando e Simona ma anche da noi: tutti venivano a esprimere le loro congratulazioni, a raccontare aneddoti generali sui neonati, a elargire consigli su quando la piccola Jessica sarebbe cresciuta.
Leonardo e io continuavamo la nostra storia: passavamo molto tempo insieme, all'università ma anche fuori; ottobre volgeva al termine, portandosi via l'ora legale e gli ultimi caldi.
La cosa che mi è sempre piaciuta di più di novembre è quel suo essere un mese di frontiera tra una festività e l'altra, specialmente da quando ne avevamo importate dall'estero, cosicché feste italiane ed internazionali si sovrapponevano e si susseguivano, e ci sembrava di festeggiare sempre, anche quando non ce lo saremmo mai aspettati, anche quando non c'era proprio niente da festeggiare.
Il giorno di Ognissanti, come in un balletto al Teatro dell'Opera, coi tempi perfettamente cadenzati, sulle vetrine dei negozi sparivano gli addobbi di Halloween e comparivano quelli di Natale, dandosi il cambio dalla sera alla mattina: non dovevano rimanere sguarnite, mai, dovevano essere sempre decorate; era come se i negozianti assumessero orde di bimbi cinesi sottopagati che facessero il restyling alle vetrine durante la notte del 31 ottobre, di moro che ci fossero sempre degli addobbi, anche quando erano inutili o troppo futili da non meritare lo status di festivi, in una soluzione di continuità, senza discontinuità.

                                      ***

Anche il Capodanno del 2002 lo festeggiammo nella villa di Caterina Esposito, ma per la prima volta introducemmo persone esterne a quelle che venivano di solito e per la seconda venni con un un vestito che non era stato fabbricato da Emma e Sonia, visto che la loro "società" non esisteva più.
Quella sera ebbi modo di capire quale fosse il punto di vista di Caterina, da quando era cominciato l'atteggiamento strano di Mario.
Li avevo visti discutere sulla terrazza, poi lei era corsa via piangendo.
L'avevo inseguita fino al bagno, e nel momento in cui fece per entrare la chiamai.
<< Cate! >> esclamai.
<< Leti... >> rispose lei. Le lacrime le stavano facendo colare il mascara, righe nere le solcavano le guance.
<< Che è successo? Ti ho vista litigare con Mario... >> replicai.
<< Io non lo capisco più, Mario. È da inizio anno che è strano, nervoso e scostante, come se qualcosa lo infastidisse >> ribatté, come se mi stesse facendo una confidenza che avrebbe cambiato le sorti del pianeta.
<< In che senso? >> domandai, anche se temevo che l'inizio del comportamento strano di Mario coincidesse con il fidanzamento tra suo fratello Gabriele e Viviana; ma comunque mi pareva singolare, perché li conoscevo tutti dall'infanzia, e mai il maggiore degli Altieri aveva mai espresso una preferenza particolare per la nipote dei portieri Caruso.
<< Nel senso che temo si stia stufando di me. Sospetto che ci sia un'altra... >> mi confessò.
<< Ma che dici... >> protestai, anche se in cuor mio mi sentivo una bugiarda.
<< Dico quello che penso, che lui mi fa pensare. Tu sei cresciuta nel suo stesso posto, siete vicini di casa e vi conoscete da una vita... È interessato a un'altra? >> volle sapere.
Non sapevo cosa risponderle, perché quei miei sospetti sul presunto interesse di Mario per Viviana non era detto che fossero veri.
Perciò decisi di non darle dispiaceri inutili.
<< No, non c'è nessuno. Forse è solo stanco. Forse gli manca la sua vita da ricco anche se non l'ha mai manifestato quanto Gabriele. Dagli tempo, vedrai che le cose si aggiustano... >> la rassicurai.
Caterina si asciugò le lacrime e mi guardò: era l'immagine del fatto che i soldi non facessero la felicità; magari aveva anche cominciato a sospettare della tresca tra suo padre e la Zingaredda.
Ma sorrise, a dimostrazione del fatto che mi aveva creduto.
<< Hai ragione tu. Magari è solo tanto stressato. Comunque è mezzanotte meno dieci, su Rai Uno sarà già cominciato il countdown... >> si riprese, asciugandosi le lacrime e uscendo dal bagno. La seguii a ruota. Uscimmo in terrazza, mentre gli altri stavano cominciando a contare all'indietro da dieci a uno.
Cominciarono i botti nel cielo notturno, a celebrare l'arrivo del 2002. Mi augurai che il nuovo anno portasse di nuovo l'equilibrio nella testa indecifrabile di Mario.

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