Capitolo 4

Avevo quattro anni quando nacque mio fratello Dario: ricordo che mia madre si era assentata da casa per qualche giorno, e che mio padre venne a prendere me e Simona a scuola per dirci che finalmente era arrivato il fratellino, come lo chiamava con noi.
Ricordo che quando arrivammo a casa, un fiocco azzurro era attaccato sulla porta, e che la prima volta che vidi Dario avvolto in una copertina bianca, in braccio a mia madre, pensai che fosse un bambolotto tale da aver addolcito perfino mia sorella.
Mio padre era letteralmente euforico: non aveva mai fatto il sessista riguardo chi di noi avrebbe ereditato la pizzeria, ma dopo due femmine di seguito, era contento che finalmente ci fosse un altro maschio in famiglia, se non altro per non rimanere da solo come esponente di genere.

                                    ***

Lo stesso non si poté dire del signor Giulio, che desiderava ardentemente che dopo due femmine consecutive gli arrivasse un bel maschietto, ma nel giugno del 1985, un mese dopo la nascita di Dario, venne al mondo Marta, la terzogenita dei Ferranti.
Anche loro, esattamente come noi, attaccarono il fiocco alla porta: solo che, anche quella volta, era rosa, e il neo-papà guardava con invidia quello azzurro ancora attaccato alla nostra porta, quando scendeva le scale.
Emma mi raccontò che suo padre, la prima notte in cui la piccola Marta li svegliò perché voleva essere allattata, aveva sputato in faccia alla moglie tutto il suo disappunto, più del solito.
<< Mannaggia a te, un maschio me lo potevi fare, una volta tanto? Almeno i Finelli, dopo le due figlie maggiori, l'hanno avuto, tu invece mi hai saputo fare solo femmine, e le femmine costano, e per di più se non stiamo attenti restano incinte del primo che capita! >> aveva sbottato, con gli occhi impastati di sonno, mentre la signora Amanda si occupava di marta.
<< Ma che cosa brutta! >> avevo esclamato, dopo quel suo racconto.
<< No, macché cosa brutta! Se non mi vuole bene perché sono una femmina, allora significa che me lo dovrò prendere da sola, il suo bene! >> aveva decretato lei, con una sicurezza inusuale per la nostra età.

                                    ***

Dario e Marta fecero il battesimo lo stesso giorno, insieme agli altri bambini nati più o meno nello stesso periodo.
Indossavo un vestitino blu, e stavo tranquillamente seduta alla prima fila a sinistra della chiesa del Quartiere, vicino a mia madre; Emma invece era in verde e non vedeva l'ora di andare a giocare in oratorio.
Nessun bimbo si astenne dal piangere, non appena Don Fernando verso loro l'acqua battesimale sulla fronte - per loro  era solo acqua in faccia, e come tale li infastidiva.
Il rinfresco venne fatto nel cortile dell'oratorio, tutte le famiglie coi figli battezzati messe insieme: Marta e Dario fecero subito amicizia, e Don Fernando e la perpetua Celeste, scherzando, dicevano che sicuramente quei due si sarebbero sposati, un giorno.
Erano i primi di agosto, faceva un caldo bestiale e quella sera al telegiornale sentimmo dei giudici del pool antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, costretti a doversi rifugiare, con le rispettive famiglie, nell'isola dell'Asinara, per evitare di essere uccisi.
<< Meno male che l'hai lasciata, la Sicilia, altrimenti a quest'ora eri orizzontale! >> disse mia madre a mio padre, la delicatezza di un elefante in un negozio di porcellane.

                                     ***

Quello che nessuno di noi immaginava - come del resto nessuno all'infuori del pool stesso - fu che quella vacanza forzata fu, per i due magistrati, più che produttiva: ebbero infatti il tempo di cercare, raccogliere e raggruppare tutti i fascicoli riconducibili ai più pericolosi boss della mafia, ai loro picciotti, ai collaborazionisti e ai pentiti che avevano, invece, deciso in ultimo di schierarsi dalla parte della giustizia, per dare inizio, una volta tornati a Palermo, ad un processo alla mafia di portata storica, chiamato appunto maxiprocesso, che vedeva per la prima volta sul banco degli imputati, criminali di mafia di ogni ordine e grado della gerarchia, dalle manovalanze che si esprimevano solo in dialetto - tanto che la corte ebbe bisogno di interpreti - ai cosiddetti "colletti bianchi", emblemi della collusione tra mafia e politica.
Il maxiprocesso fu talmente impegnativo che cominciò il 10 febbraio del 1986 al 30 gennaio del 1992, precisamente dal nostro ultimo anno d'asilo fino alla metà della quinta elementare.
I suoi echi giungevano perfino nel nostro chiuso mondo retrogrado, dove il tutto era guardato con scetticismo, come se il lavoro dei magistrati fosse inutile e non bastasse un processo per sradicare la mafia dalla Sicilia.
Noi non ne capivamo molto, all'epoca, ma ripensandoci oggi, credo che gli adulti del Quartiere si identificassero più nei criminali processati che nei giudici che li processavano.

                                    ***

Ma il 1986 fu noto anche per molti altri avvenimenti di grande impatto sociopolitico: il passaggio della Cometa di Halley, l'omicidio di Giorgio Ambrosoli e il conseguente arresto al suo assassino Michele Sindona, la stipula dell'Atto Unico Europeo, lo scandalo del vino al metanolo, l'esplosione di una bomba a Corinto, gli attentati terroristici a Berlino e a Tripoli, il disastro nucleare di Chernobyl.
Tuttavia, quel mondo esterno così tormentato ed emotivamente lontano rispetto al Quartiere, esercitava su me ed Emma un fascino misterioso, come gli ululati per il cane Buck nel romanzo "Il richiamo della foresta"; avevamo solo cinque anni, ma già ci sentivamo altro rispetto alla realtà che ci aveva viste nascere, e anche se avevamo poche certezze, tra queste c'era il fatto che la nostra vita futura non si sarebbe svolta laggiù.

                                    ***

Certi pomeriggi facevamo un gioco: andavamo fino al confine ovest del Quartiere, proprio di fronte al Viale dei morti ammazzati, il braccio della superstrada che ci collegava col resto della città. Guardavamo le macchine che andavano in un verso o in quello opposto, tutte in fila come se inseguissero qualcosa.
Ogni tanto spuntava un pedone: quel pedone si trasformava in una fragile speranza, ma bastava che si distraesse un attimo, che subito una macchina lo prendeva in pieno, facendolo volare via come una lattina vuota per l'impatto, finché la soglia tra la perdita dei sensi e la morte si faceva così sottile da scomparire.
Schizzi di sangue si stagliavano sui cofani, sui parabrezza, sull'asfalto; i resti del malcapitato si sparpagliavano tutt'intorno.
Morto dopo morto, macchina dopo macchina, quel panorama ci soffocava, e dovevamo tornare indietro.
<< Un giorno ce lo dimenticheremo tutto questo, perché saremo ricche, felici e lontane da qui >> sentenziava Emma.
E con che solennità pronunciava quelle parole, soffermandosi soprattutto sul primo aggettivo, come se il concetto di ricchezza fosse un requisito imprescindibile per l'esistenza degli altri due. Io le credevo, come sempre: d'altra parte era l'unica persona che concepiva l'idea di una vita possibile, fuori dal Quartiere.

                                    ***

Non aveva paura di niente, nemmeno del parco della discarica, che invece si trovava all'estremo est; progettato dall'architetto Anceschi per essere il polmone verde della zona, attualmente era una terra di nessuno, piena di rifiuti d'ogni sorta, dai materassi sventrati agli scheletri delle macchine; siringhe e preservativi si camuffavano nell'erba alta quanto le persone.
Tutt'intorno sorgevano baraccopoli e palazzi non finiti, tra cui spiccava l'Incompiuta di Puccini, un edificio di quindici piani che non si sapeva come potesse avere un soprannome così aulico, visto che la gente del Quartiere aveva una cultura al minimo sindacale; era il regno dei "nuovi ultimi": neri, zingari, poveracci disperati e più sfigati di noi, che avevano raccattato i materiali più scadenti per costruirsi un tetto sulla testa o si erano risparmiati la fatica occupando vani vuoti, non ancora pronti per la consegna.
Oltre quello schifo si trovava il Villaggio, la zona appresso alla nostra, di cui disprezzavamo profondamente gli abitanti.
Io avevo il terrore di quel parco: potevamo venire violentate dai tossici o dagli occupanti, con l'opinione pubblica che, invece di dire che eravamo vittime, ci avrebbe dipinte come consenzienti, perché secondo loro noi ragazze del Quartiere eravamo tutte puttane, fin da piccole.
Di questo e del potenziale pericolo a cui andavamo incontro ogni volta che ci spingevamo fin lì, Emma se ne fregava, perciò io l'ammiravo e la seguivo: il mio unico desiderio era quello di essere all'altezza del suo coraggio.

                                    ***

Ovviamente fu l'Incompiuta a suscitare il maggiore interesse per Emma, in quel luogo abbandonato: era un ecomostro che svettava come un fungo in mezzo all'erba, alle baracche e ai palazzi decisamente più bassi.
Senza nessuna remora, pochi giorni dopo la scoperta della sua esistenza, volle usare la scala d'emergenza per salire fino all'ultimo piano; all'inizio provai ad oppormi, ma lei cominciò a dire che ero una cagasotto e per dimostrarle il contrario la seguii su per quella scala dissestata e sconsigliabile per due bambine di cinque anni.
Emma era sicura che lassù ci fosse un mistero, qualcosa di incredibile che aspettasse solo noi, per essere scoperto; e non appena arrivammo in cima, su quello spiazzo malconcio che doveva essere il pianerottolo, ci accorgeremmo che c'erano tre porte: Emma aprì senza esitazione quella centrale.
Dentro era la desolazione: i teli di nylon coprivano male i vani non ancora suddivisi, i tramezzi provvisori erano stati lasciati dov'erano, le tavole sconnesse del parquet - avevano in programma di diventare appartamenti di lusso, per avercelo! - rischiavano di farci inciampare e finire con le schegge di legno conficcate nella carne; ma non era quello che colpì l'attenzione di Emma, subito catalizzata dai grandi finestroni che lasciavano entrare la luce del tramonto.
Mi avvicinai esitante, raggiungendo davanti a quella struttura priva di vetro e sfidando il pericolo di cadere di sotto per una qualsiasi disattenzione, ma la visuale che mi apparve davanti mi ripagò di tutti i dubbi: interi quartieri si stagliavano sotto di noi, oltre il nostro, e ci trovavamo talmente in alto che si scorgeva vagamente anche un po' del centro, il tutto reso suggestivo dai toni arancioni e rosa del crepuscolo; da quella posizione, la città sembrava così vicina che ci pareva di toccarla.
Scendemmo soddisfatte che il sole era già tramontato, facendo attenzione a non dare troppo nell'occhio con gli adulti, che sicuramente ci avrebbero sgridato e picchiato; da quella volta l'ultimo piano dell'Incompiuta divenne il nostro covo segreto.

                                    ***

Crescendo praticamente tutti appiccicati, era naturale che le amicizie diventassero legàmi di sangue: nonostante Emma e io ci completassimo a vicenda, non eravamo mai da sole, ma avevamo un gruppo di amiche, tutte figlie di famiglie il cui unico denominatore comune era la sfiga di essere venuti ad abitare nel Quartiere.
Viviana Caruso era la nipote dei portinai Renata e Gaetano: la loro unica figlia Angela rimase incinta a sedici anni di un ragazzo conosciuto appena, ucciso da un proiettile vagante prima ancora di sapere che stava per diventare padre; aveva la nostra stessa età, i capelli biondi e gli occhi verdi, inoltre ci invitava sempre a merenda a casa sua, con la nonna che era una cuoca eccezionale e che, vedendoci sempre sciupate, ci riempiva di leccornie.
Gilda Durante aveva i genitori ex migranti, che avevano lavorato in Brasile, a Saõ Paulo, e tornati in Italia, coi loro risparmi avevano aperto un negozio di scarpe; aveva un anno più di noi ed era convinta che l'unica realizzazione possibile, per una donna, fosse un buon matrimonio: per questo impiegava tutte le sue energie nell'essere carina e nell'aspettare l'ereditiero che avrebbe cambiato la sua vita.
Diana Moretti doveva molto ai miei perché avevano impiegato tutta la sua famiglia nella nostra pizzeria: il signor Ettore al forno, la signora Miranda alla cassa, lei ai tavoli, col tempo affiancata perfino dal fratello minore Christian, il più sveglio di loro quattro: voleva viaggiare in giro per il mondo e non amava il suo aspetto fisico, sebbene non fosse affatto grassa, ma solo un po' in carne.
E infine c'era Alice Scorticelli, tanto dolce quanto marchiata a fuoco dal fatto di essere figlia di Lilly Marlen, una puttana che aveva avuto la sfortuna di incontrare  e di essere protetta da Pino O' Serpente, dal carattere irascibile e dalle mani terribilmente lunghe, capace di massacrare la compagna di botte se non faceva abbastanza soldi battendo; sulla figliastra, però, non aveva mai alzato un dito, ma nonostante questo Alice viveva con la paura costante di finire un giorno anche lei preda della furia del patrigno.
Non eravamo male, come gruppo, e come tutte le bambine eravamo convinte  che niente e nessuno ci avrebbe mai divise.







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