Capitolo 33
Non lo vidi più per qualche giorno: la maggior parte del tempo la passava fuori, in mare, o al mercato di Atene a vendere il suo pesce; forse dopo il nostro pomeriggio di fuoco non voleva incontrarmi, ma non mi importava più di tanto: da qualche giorno anch'io avevo cominciato a non farmi vedere in spiaggia o in giro per l'isola; mi sentivo male dalla mattina alla sera, mi girava la testa, ma soprattutto avevo mal di stomaco: mi capitava di vomitare la colazione, il pranzo, la cena; mi guardavo allo specchio, appena sveglia, e vedevo sul mio viso una cera sempre più brutta.
Sebbene cominciasse a serpeggiare nella mia mente il motivo per cui mi sentissi a quel modo, mi auguravo che non si trattasse di una gravidanza indesiderata: non poteva essere, in fondo venivo dal Quartiere e dalle nostre parti, appena noi ragazze diventavamo adolescenti dovevamo subito stare attente a scopare con tutte le preoccupazioni possibili, perché le nostre famiglie erano già abbastanza sfigate in media e a mettere al mondo altri piccoli potenziali sfigati ci andavamo coi piedi di piombo.
Se avessi aspettato un bambino da Christos, mia madre probabilmente mi avrebbe preso a cinghiate sul viale delle casette bianche, davanti a tutto il vicinato, come facevano tutti i genitori del Quartiere quando i figli si tacciavano di onte che andavano a riversarsi sul resto delle famiglie.
Per cui raccolsi le forze e cercai una farmacia in giro per Corfù. Avevo bisogno urgente di un test di gravidanza.
***
Mi chiusi in bagno e seguii tutte le istruzioni scritte sulla scatola. I minuti che separarono l'immersione del test nella mia urina e la formazione della legenda che ne avrebbe decretato il verdetto furono fottutamente lunghi.
Lo tirai fuori, lo pulii con la carta igienica, e aspettai col cuore in gola la comparsa del colore e del numero delle tacche: ne apparvero due rosse. L'esito era stato inequivocabile. Ero incinta.
Non riuscivo a tenere più quel test tra le mani, cercai nervosamente il secchio e buttai tutto, avendolo avvolto prima di ulteriore carta igienica per cancellare le prove del misfatto.
Avrei voluto ammazzarmi, in quel momento: non sapevo cosa fare, non sapevo a chi rivolgermi; andare all'ospedale avrebbe destato sospetti, cercare una mammana sarebbe stato costoso, tenerlo equivaleva a farmi diseredare e disconoscere dalla mia famiglia seduta stante.
Mi sentivo in un vicolo cieco, la cui uscita, in quel preciso istante, mi pareva solo vomitare di nuovo.
Un rumore improvviso alla mia sinistra si sovrappose a quello del mio rigetto; un rumore di porta che si spalancava, mentre sull'uscio comparve l'ultima persona che avrei voluto vedere: mia madre. Che mi osservava con le mani sui fianchi e gli occhi verdi ridotti a fessure.
<< Da quanto, Leti? >> esordì.
<< Da quanto cosa? >> ribattei allo stremo delle forze, residui di vomito ai lati della bocca. Dovevo farle un ribrezzo indicibile.
<< Da quanto sei incinta? >> continuò, avendo la situazione perfettamente chiara pur avendo io cercato di non trapelare niente.
<< L'ho scoperto adesso. Il test è positivo >> ammisi.
<< Chi è il padre? È quel disgraziato del figlio maggiore della Sylos? >> volle sapere.
Non ce la facevo a replicare. Ma il mio silenzio valeva come risposta.
<< Dimmi se è lui il padre, cazzo! >> berciò allora lei, alterandosi.
<< Sì, è lui >> confessai, chiudendo gli occhi e aspettandomi il peggio. Un ceffone, un calcio in culo o in pancia, una scarica di cinghiate.
E invece niente. Aprii gli occhi e vidi che si era avvicinata a me, inginocchiandosi alla mia altezza.
<< Ringrazia Dio che sono venuta a saperlo, altrimenti chissà che cazzo di decisione avresti preso. Sono quei libri che ti hanno dato alla testa, io l'ho sempre detto. Ti credi di poter fare tutto, ma non sai niente. Non hai neanche saputo capire se quel porco s'è sfilato in tempo o meno. Ah, se potessi ti prenderei a calci fino a farlo schiattare, quel bastardello che ti si sta formando in pancia... Ma non voglio dare nell'occhio. Dobbiamo prendere provvedimenti nella maniera più indolore possibile >> sentenziò.
<< In che senso? >> chiesi allora.
<< Nel senso che farai tutto ciò che ti dico io. Senza domande >> decise.
Sapevo che parlava di aborto, ma mai avrei immaginato come.
***
Lo scoprii quando uscimmo con una scusa - andare al mercato a fare la spesa - e invece ci dirigemmo a un indirizzo che le aveva dato la signora Degli Esposti, un indirizzo di cui non avrei voluto mai conoscere la proprietaria: si chiamava Esthia Touraki ed era una mammana esperta, una di quelle che con delle conoscenze solo a loro note ti ripuliscono a dovere, come se non fossi mai stata incinta; queste pratiche, nel Quartiere, le effettuava anche la Zingaredda, accanto alla lettura dei tarocchi, per tutte quelle ragazze che avevano paura di andare ad abortire in ospedale.
Mi chiedevo come potessero esistere, alle soglie del 2000, persone del genere: lo sperimentai sulla mia pelle quel pomeriggio della seconda metà di giugno.
La mammana Esthia Touraki abitava in una casa tipica degli isolotti greci, ma dentro sembrava l'appartamento della Zingaredda, così come la proprietaria somigliava fisicamente alla fattucchiera del Quartiere: minuta, con i capelli e gli occhi scuri, e l'aria di chi possedeva chissà quale sapere; in realtà era solo una ciarlatana che faceva affari sulle spalle di povere disgraziate, greche e non.
Si mise a parlare fitto fitto con mia madre, e quando si girò verso di me sorrise, cercando di risultare rassicurante: in realtà mi aveva messo ancora più paura.
Volevo scappare, ma sentivo che non potevo più tornare indietro: mia madre mi avrebbe riportata indietro con la forza, e poi ero letteralmente paralizzata dal panico.
La mammana sparì dietro una tenda dopo aver finito di parlare con mia madre, dopodiché tornò con una boccetta contenente chissà cosa: ne avevo vista una simile in mano a Lilly Marlen, nell'appartamento della Zingaredda, ma avevo sempre pensato che si trattasse di un elisir di lunga vita per rimanere giovane; invece adesso mi appariva chiaro e nitido il suo utilizzo: era un intruglio che serviva ad abortire in maniera rapida, senza passare per i ferri.
Impallidii, ma la donna mi sorrise incoraggiante, allungandomi la boccetta; mia madre mi fece cenno di prenderla, non ammettendo repliche. Ubbidii, aprendo piano il tappo. Sentivo che stavo per fare qualcosa di cui mi sarei vergognata a vita. Poi pensai a cosa avrebbe fatto Emma al posto mio: lei sarebbe stata coraggiosa, probabilmente avrebbe sfoggiato quell'aborto come una medaglia al valore. Io non ero come lei, ma comunque ero spaventosamente giovane: un bambino, per di più avuto da un ragazzo che non era il mio fidanzato, mi avrebbe marchiato a vita, ancora di più accentuata dal fatto che provenivo dal Quartiere.
Perciò trangugiai quello schifo senza fare pause, non tralasciando nemmeno una goccia.
***
Tornammo a casa che non mi reggevo in piedi dai dolori di pancia: la Touraki aveva detto che sarebbe stato normale; dovevo solo andare in bagno e tutto sarebbe passato.
Perciò appena arrivammo mia madre mi accompagnò fino alla porta del bagno; mi calai le mutande in fretta e furia, mi sedetti sulla tazza del cesso e pisciai un filo di sangue.
Non mi fece impressione il liquido ematico - ero abituata, col ciclo - ma l'amara consapevolezza che mio figlio, anche se non s'era nemmeno formato, già non c'era più.
Passai il resto della giornata distesa sul letto, sperando di cadere in un sonno senza sogni; invece rimasi sveglia, a guardare il soffitto e a chiedermi se la mia gravidanza fosse stata un segreto tra me, mia madre e la Degli Esposti o se ormai lo sapessero tutti quanti.
La risposta mi arrivò poche ore dopo, quando bussarono alla porta: era Simona. Avevo troppe poche forze per cacciarla, così la lasciai entrare.
<< Se ce la fai, tra poche ore sarà pronta la cena >> mi avvertì.
<< Non lo so se ce la faccio >> risposi.
<< Certo che sei proprio una cretina, lasciatelo dire. Hai scopato innumerevoli volte, e non ti sei nemmeno preoccupata che quel greco sfigato si sfilasse al momento giusto... >> commentò prima di girare i tacchi e andarsene via, chiudendo la porta.
Non solo sapevano tutti, ma mi stavano anche prendendo per il culo.
Cenai poco, riuscii a dormire ancora meno: sognai il volto del bambino, ma era sfocato, cosicché non riuscivo a capire se somigliasse a me o a Christos.
***
Appena mi rimisi in sesto un minimo cominciammo a fare i bagagli: mia madre decise che dopo quello che era successo non potevamo più rimanere lì; dovevamo scendere a Modica con la macchina che mio padre era riuscito a portarsi appresso all'andata e mantenere le apparenze, come se l'estate non fosse moralmente finita lì.
Il giorno in cui lasciammo definitivamente Corfù i saluti tra noi e i Degli Esposti furono poco espansivi per non dare troppo nell'occhio; Anthea Sylos e i suoi figli nemmeno uscirono da casa.
Stavo per salire in macchina, ma mi girai per cercare lo sguardo di Christos, per spiegargli anche senza parole che non era colpa mia, ma lui non si mostrò; forse era fuori, in mare, o in città, a vendere il suo pescato; forse aveva capito tutto e non osava mettere il naso fuori di casa.
Non parlai per tutto il tragitto verso la Sicilia, non riuscii a guardare in faccia né i miei genitori né i miei fratelli, specialmente Simona - dentro di me ero convinta che fosse stata lei a scoprire la mia gravidanza e a fare la soffiata a mia madre.
Il resto dell'estate mi scivolò addosso come se non la stessi vivendo io, ma qualcun altro all'infuori di me.
Il bambino tornò a popolare i miei sogni, si faceva via via più nitido; era mutevole nell'aspetto: somigliava talvolta a me, talvolta a Christos, ad Annibale, a Gabriele.
Mi chiedevo se Emma avesse ricevuto la mia lettera e se mi avesse inviato la sua risposta: probabilmente nessun postino di Corfù mi avrebbe trovata, e tale missiva sarebbe stata rispedita al mittente.
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