Capitolo 29
I primi mesi del 1998 furono teatro di grandi eventi: il film Titanic, campione d'incassi pochi mesi prima - che ero andata a vedere con Annibale, Emma e Rocco al New Star, il cinema del Quartiere con un'unica sala dove Italo e i suoi smerciavano sostanze stupefacenti nell'intervallo - vinse ben undici Premi Oscar; il papa Giovanni Paolo II andava in visita a Cuba, il primo grande ingresso cattolico, dopo anni, in un paese comunista per definizione; in Giappone inauguravano un imponente sospeso che collegava le città di Shikoku e Honshu; a Bruxelles l'Ecofin aveva stilato una lista di Paesi che avevano aderito ad una possibile moneta unica che si vociferava potesse chiamarsi Euro.
Ma l'evento più importante di quella prima metà dell'anno fu il nostro primo viaggio d'istruzione: la meta scelta alla fine fu Como, e il concetto di colazione e cena compresi nel prezzo dell'albergo ammorbidì perfino mia madre e il signor Giulio, che diedero sia a me che ad Emma il permesso di partire.
***
Le uniche distese d'acqua che avevano visto nella mia vita erano state quelle marine, il Mediterraneo da quando ero piccola e il Tirreno quando ero stata invitata ad Anzio dai Battaglia; non avevo mai visto un lago in vita mia, solo nei libri di geografia delle elementari, delle medie e del ginnasio: l'ambiente era diverso rispetto a quello marittimo, con meno macchia mediterranea e più canne e giunchi, senza contare il numero di ville che vi si affacciavano, molto più eleganti dei palazzi che si affacciavano sul litorale laziale o quello siculo.
Quello era veramente un luogo esclusivo ed elitario, da ricchi, tanto che mi sentivo dannatamente fuori luogo, come se da un momento all'altro qualcuno mi beccasse come una ladra nel bel mezzo di un furto e mi chiedesse che ci facevo lì; esattamente il contrario di Emma, che si muoveva sicura per la città, per il lungolago, col suo intercedere da regina, di chi sente letteralmente il mondo ai suoi piedi; lo stesso, identico atteggiamento di Gabriele: quei due andavano somigliandosi di più con gli anni che passavano.
Non ci avevo mai fatto veramente troppo caso, almeno fino al mio ritorno da Anzio, prima di cominciare la quinta ginnasio: ma per la mia stabilità mentale avevo sempre cercato di marginalizzare questa loro similitudine per non sentirmi schiacciata, sopraffatta dalla gelosia.
***
Ma si trattava comunque della mia prima gita da sola fuori dal Lazio, in un luogo splendido tra l'altro, quindi mi imposi di godermelo senza pensare al resto: lasciai perciò il Quartiere e i suoi drammi fuori dalla porta del mio cervello, facendo ben attenzione che non entrassero.
Como era la città cornice dei Promessi sposi: era stato là che Alessandro Manzoni aveva collocato il punto di partenza della turbolenta e contrastata storia d'amore tra Renzo e Lucia, aprendo le vicende col celebre verso Quel braccio del lago di Como che volge a mezzogiorno.
L'albergo era in pieno centro città, e per la prima volta nella mia vita ebbi modo di sperimentare l'ebbrezza di una colazione internazionale vera: fino ad allora uova, pancetta e succo di frutta, in una tavola apparecchiata per il pasto principale della giornata, l'avevo vista solo nei film americani alla televisione.
Ogni giorno, poi, andavamo in visita a qualcosa di nuovo, carico di storia e di bellezza: il duomo in stile gotico, il Museo Didattico della Seta che rappresentava la tradizione tessile lombarda, il Museo Voltiano intitolato al fisico Alessandro Volta, la funicolare panoramica; ma il mio luogo preferito era diventato immediatamente il percorso pedonale che portava al lago, dove si affacciavano Villa Olmo e tutte le altre abitazioni eleganti.
La sera ci dividevamo tra chi usciva e chi rimaneva in albergo: io passavo prevalentemente il mio tempo libero con Emma, Irene e Gabriele, i quali, contrariamente alle mie aspettative, continuavano a stare insieme.
Non riuscivo a capire se lei facesse finta di non vedere la natura irrimediabilmente fedifraga di lui, o se il giovane Altieri, alle soglie della maturità, stesse diventando un minimo più profondo.
***
In realtà di Irene, a Gabriele, non gliene fregava un bel niente: ne ebbi la conferma il pomeriggio del penultimo giorno.
Aspettavamo sempre le quattro con ansia: era il momento in cui staccavamo, in cui ci lasciavano liberi fino a cena.
Potevamo fare quello che ci pare, anche prendere il percorso pedonale e andare a fare un giro sul lago, tanto era tutto convenzionato con l'albergo.
Accadde che mi prese da parte dopo pranzo, facendo attenzione che Irene non ci vedesse.
<< Andiamo a farci un giro sul lago? >> mi propose.
<< Ma io e te da soli? >> gli chiesi.
<< Leti, che palle! Da quando ti sei messa con Annibale sei peggio di una monaca di clausura... >> commentò contrariato.
Accettai l'invito per evitare che continuasse a parlare male del mio fidanzato anche fuori dal Quartiere: da quando stavo insieme ad Annibale, Gabriele non aveva speso una parola buona su di lui; ricordava che quando stavano in classe insieme non era una cima, che non c'era da stupirsi se s'era fermato alla terza media. Mi dava fastidio quel suo atteggiamento: sembrava che rosicasse perché mi aveva persa, perché un altro era arrivato nei miei pensieri e l'aveva scansato.
Quel pomeriggio di maggio il Lago di Como riluceva come in una veduta del pittore inglese John Constable: il riverbero del sole sullo specchio d'acqua, i giunchi e le betulle che ondeggiavano leggeri al debole vento di scirocco, le libellule che volavano a pelo di lago, le ninfee che galleggiavano pigramente tra le piccole onde, e i rari passeggeri sulle barche rendevano il paesaggio un vero e proprio quadretto idilliaco.
<< Dai, prendiamo questa barca che è libera... Avere un circolo di vela, una volta, sarà servito a qualcosa... >> disse Gabriele, prendendomi per mano. Non opposi resistenza, imponendo a me stessa di non vedere quella passeggiata sul lago altro che come un'innocente uscita tra amici.
Mi aiutò a montare sulla barca, poi salì anche lui e si mise a remare piano.
Si sentivano solo i versi stridenti delle cicale e i battiti nervosi del mio cuore, nonostante le mie intenzioni di non provare niente.
<< Ti mortifica >> esordì.
<< Come, scusa? >> domandai, non afferrando subito il succo del discorso.
<< Annibale, dico. Ti mortifica. Non è alla tua altezza, non lo è mai stato. Non potrai essere felice, con lui >> rispose. Ancora il solito discorso. Ancora l'ennesima secchiata di disprezzo su qualcuno che mi stava rendendo finalmente felice, solo perché era geloso ma non l'avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.
<< Ma come ti permetti? Che ne sai tu di com'è Annibale? >> mi infervorai.
<< So quello che vedo. A te il Quartiere va stretto, non ti ambienterai mai laggiù. Annibale invece è uno di quelli che s'è rassegnato alla sua vita perché non riesce proprio a concepirne un'altra. Se ti lancerai come prometti di fare, lui te lo lascerai per sempre indietro >> replicò. Non ci vidi più dalla rabbia.
<< E chi riuscirebbe a starmi dietro? Tu? Non riesci nemmeno ad ammettere con te stesso il fatto che ti dà fastidio se mi sono rifatta una vita... >> ribattei perciò.
<< Sono favole che ti racconti per sentirti a posto con la coscienza, ma non ci credi nemmeno tu... >> mi provocò. Eravamo arrivati ormai in mezzo al lago, lontanissimi dalla riva, eppure mi alzai in piedi sulla barca.
<< Voglio scendere >> decisi.
<< Ma hai idea di dove siamo arrivati? >> fece Gabriele, smettendo all'improvviso di remare.
<< Allora riportami a riva. Non ce la faccio più a stare qui, con te. Dici sempre le stesse cose. Sei ripetitivo. Ripetitivo e invidioso >> continuai a smaniare.
<< Mettiti a sedere, che sennò ci ribaltiamo... >> cercò di avvisarmi, mentre la barca ondeggiava pericolosamente sotto di noi.
<< Non me ne frega niente, voglio scendere adesso... >> insistetti, e riuscii a malapena a finire di parlare, che quello che Gabriele aveva detto si verificò. Fummo sbalzati in acqua in poco meno di un secondo.
<< Complimenti. Complimenti davvero! >> sbraitò, muovendo braccia e gambe per tenersi a galla.
<< Guarda che è stata tua l'idea di venire qui... Mannaggia a me e a quando ho accettato l'invito! >> gli rinfacciai.
<< Lo avresti accettato comunque. Non riesci a fare a meno di me... >> sorrise lui, trionfante. L'avrei volentieri affogato.
<< Vaffanculo! Sei talmente pieno di te che ti ritieni indispensabile... >> sbottai, ma appena smisi di parlare mi baciò. Potevo spingerlo via, potevo dargli uno schiaffo, e invece ricambiai. Avevo appena dimostrato a me stessa di quanto ci avesse da sempre preso lui, di quanto i miei desideri di stabilità emotiva con Annibale fossero finti, deboli e provinciali, frutto di una fantasia di sedicenne proveniente da un luogo in cui le donne non potevano immaginare un futuro diverso da quello di mogli e di madri, e l'unico sbocco professionale a cui potevano ambire era al massimo nelle attività dei propri mariti.
Non volevo diventare così: avevo intenzione di continuare a studiare, diplomarmi, fare l'università contro tutto e tutti, lasciare il Quartiere e abitare al centro di Roma o all'estero, di piegarmi ad un destino a cui s'erano piegate pian piano tutte le mie amiche. A cui sembrava che si stesse piegando anche Emma, per certi versi.
Ma mi faceva incazzare come una bestia che, di tutte le persone che me lo potessero dimostrare, il destino avesse scelto proprio l'ultima da cui avrei accettato prediche e consigli.
Me lo sarei scopato lì, in mezzo al lago, nell'acqua cosicché nessuno potesse sospettare, se non fosse stato che mi sentivo tremendamente sporca e scorretta nei confronti del povero Annibale, lontano e inconsapevole.
Perciò lo scansai in modo irruento.
<< Non voglio vederti. Mi metti il nervoso! Magari Irene ti accanna... >> saltai su, cercando di rimettere la barca nel verso giusto e di recuperare i remi.
Fortunatamente mi diede una mano, in silenzio. Salimmo e tornammo remando a riva. Nessuno dei due parlò fino al ritorno in albergo.
***
Avrei dovuto tenermelo per me, quello che era successo. E invece ebbi la bella pensata di raccontarlo ad Emma, quella sera stessa.
Dopo aver ascoltato la mia confessione, si mise a ridere.
<< Che ci trovi di tanto divertente? >> chiesi allora.
<< E me lo domandi, Leti? La tua storia con Annibale scricchiola peggio delle impalcature dell'Incompiuta, e ti stupisci di aver baciato Gabri? >> mi rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
<< La mia storia con Annibale non scricchiola, cazzo! Vi siete messi d'accordo, tu e lui, a farmelo credere? >> mi ribellai.
<< Può darsi >> mentì lei sorridendo.
<< Non dire minchiate, almeno tu... >> la pregai.
<< Non ne sto dicendo, Leti. Quanto potrete durare, tu e Annibale? Due anni, tre, cinque? Te lo sposeresti, come vorrebbe fare Gilda con Attilio? Non ti ci vedo. Tu vuoi studiare, fino a farti una posizione che ti aiuti a uscire dal Quartiere, e Annibale non riuscirà mai a starti dietro. È un uomo delle nostre parti, dopotutto... >> mi delucidò, e appena disse quelle parole mi parve di riavere davanti Gabriele. La loro uguaglianza era, ogni volta, come uno schiaffo in faccia, o un pugno nello stomaco: la stessa schiettezza, la stessa sicurezza chirurgica con cui mi analizzavano, discernendo quello che era da me e quello che non era da me fare.
Avrei tanto desiderato dimostrare a entrambi il contrario, stupirli, far vedere loro che anch'io ero capace di qualcosa di pazzo, di un coup de theatre che non si sarebbero aspettati da me e che li spiazzasse.
Ma più tentavo di esternare un minimo di follia, di eccentricità, di stoffa, più andavo a confermare la loro implicita ma chiara tesi secondo la quale sarei stata per sempre quella tranquilla e ordinaria, la classica acqua cheta che però non inondava i ponti.
E infatti, non replicando, diedi loro ragione: mi dava un fastidio tremendo, questa cosa, non volevo più tornare sull'argomento. Volevo solo che quel viaggio d'istruzione finisse, tornare nel Quartiere e dimostrare che si sbagliavano, che Annibale e io potevamo essere la coppia più bella del mondo.
***
Quella notte mi rigirai nel letto, svegliandomi più volte: pensavo al bacio con Gabriele, al suo scherno nei confronti del mio fidanzato, allo scherno anche da parte di Emma, alle loro maledette similitudini che non mi lasciavano respirare ormai da due anni.
Chiudevo gli occhi e li sognavo nudi, in mezzo al parco della discarica, in cima all'Incompiuta, oppure nelle cantine del nostro palazzo, dietro la tenda del laboratorio di lei.
Li riaprivo e mi giudicavo pazza, stupida, buona solo a farmi dei film mentali che mi davano una visione distorta della realtà.
Ma i loro atteggiamenti non mi lasciavano la possibilità di farmi un altro punto di vista, meno folle, meno malizioso: per cui mi sincerai di non fare rumore al fine di non svegliare Irene, Andreina e Concetta, e mi avvicinai di soppiatto alla porta, aprendone uno spiraglio; cosa speravo di vedere, o meglio di beccare, lo sapeva solo la mia mente in subbuglio: forse Emma che sgattaiolava nella stanza di Gabriele, o forse lui in quella di lei; poteva accadere veramente, o essere tutto un'allucinazione partorita dal sonno e dalla gelosia inespressa.
Forse speravo solo di non scoprire niente, di mostrare definitivamente a me stessa che mi sbagliavo.
E invece qualcosa accadde, nel corridoio; una figura in pigiama si muoveva furtiva, guardandosi intorno per sincerarsi che nessuno la vedesse: capelli rossi, pelle lattea, occhi azzurri. Inconfondibilmente Emma. Si dirigeva verso le camere dei ragazzi.
Ed ecco sporgersi, proprio da quella parte, una figura maschile, inconfondibile anch'essa: Gabriele.
La mia amica avanzava leggera verso di lui, e appena gli fu accanto si baciarono appassionatamente. Poi lui la trascinò in camera sua, dove i compagni di stanza si erano dileguati, complici.
Volevo solo chiudere la porta, o uscire fuori e ammazzarli entrambi in un colpo solo. Mi guardai dietro: Irene dormiva, inconsapevole del tradimento ai suoi danni. Io, invece, ero consapevole eccome.
Da Emma, in fondo, un gesto simile me l'ero sempre aspettato, ma l'idea che lei e Gabriele, il mio Gabriele, fossero amanti clandestini se ne stava negli angoli più remoti della mia fantasia malata.
Le avevo affidato un segreto, e lei l'aveva stravolto a suo favore. Aprii la porta del bagno, chiusi a chiave, mi inchinai sul cesso e vomitai tutti i miei fantasmi.
***
Il giorno del ritorno a Roma arrivò come una manna dal cielo: volevo lasciarmi alle spalle tutto quello che era successo a Como, la barca ribaltata, il bacio, Emma e Gabriele, tutto.
Quella mattina, lei mi venne incontro con un gran sorriso e un particolare che non le avevo mai visto prima: gli occhi accesi di una luce particolare, come se avesse la febbre.
<< Allora, è finita la pacchia... >> commentò come se nulla fosse successo, come se non avessi scoperto la sua tresca con Gabriele poche ore prima.
<< Si torna in prigione... >> continuò, cominciando a servirsi al buffet per la colazione. Il mio invece, di stomaco, era chiuso. Tutto quello che avrei assunto, lo avrei buttato giù a forza.
Fummo raggiunte da Gabriele e mi sentii ancora peggio nel constatare che aveva la stessa nonchalance e la stessa luce febbricitante negli occhi.
<< E dai, non vi lamentate... Questo era il mio ultimo viaggio alle superiori, voi ne farete minimo un altro, addirittura all'estero, se vi dice culo... >> esordì.
Sembravano essersi messi d'accordo per glissare l'argomento davanti a me. S'erano messi d'accordo da una vita, quei due.
In pullman mi misi vicino a Tony, ma non fui particolarmente loquace: la maggior parte del tempo la passai a leggere, ad ascoltare musica, a lanciare di tanto in tanto occhiate a Gabriele e Irene, che sembravano affiatati come il primo giorno. Sembravano, appunto, perché ai miei occhi erano l'immagine della falsità.
Quando fummo nel piazzale della scuola, mi accorsi che c'era venuto a prendere Annibale. Gli corsi incontro con tutte le valigie, abbracciandolo e baciandolo.
<< Come mi sei mancato, amore mio! >> esclamai con tutto il fervore possibile.
<< Anche tu mi sei mancata... >> disse lui, rassicurandomi. << Allora, come è andata la vacanza? >> aggiunse poi, rivolgendosi anche ad Emma e Gabriele.
<< Un gran bel tour in mezzo alla vita vera >> raccontò il giovane Altieri.
<< Peccato che sia finito così presto... >> sorrise la mia amica, guardando furtivamente Gabriele.
Montammo nella macchina di Annibale, mi sedetti accanto a lui; Emma e Gabriele si accomodarono dietro.
Dallo specchietto retrovisore non li perdetti di vista un attimo. Abbassavo poi lo sguardo, non riuscendo a sopportarli. Da lontano intanto cominciavano a scorgersi i casermoni del Quartiere.
Speravo che il ritorno a casa rimettesse tutto a posto, che ciò che era successo a Como rimanesse a Como.
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