Capitolo 23
Nei documentari, quelli che magari sono interessantissimi, ma davanti ai quali ci si addormenta puntualmente, dicono che gli animali più terribili e feroci - iene ridens, orsi greezle, oppure quei pesci brutti che nuotano nelle profondità più buie del mare - siano diventati così per via delle condizioni avverse dei luoghi in cui le loro specie si sono sviluppate: la savana infuocata, le fredde lande del Nordamerica, le profondità degli abissi, quelle dove non arriva neanche un raggio di Sole.
Gli uomini sono animali, solo più sviluppati, ma a noi gente del Quartiere è successo lo stesso che alle bestie dei luoghi più impervi: magari anche noi un tempo abbiamo avuto un contegno, una grazia, un raziocinio, ma le circostanze in cui abbiamo vissuto ci hanno fatto diventare selvaggi, vendicativi e rabbiosi, bravi solo a prevaricarci l'uno con l'altro, a subire selezioni naturali a cui sopravvivevano solo i più forti e a scartare gli anelli deboli della catena, fino a ridurli come morti viventi, o a farli scomparire come se non fossero mai esistiti.
Della nostra subumanità radicata me ne resi conto ufficialmente in quell'inizio di settembre del 1996.
***
Successe un primo pomeriggio dopo il nostro rientro dalle vacanze; era l'ora del dopopranzo, quella in cui, una volta finito di mangiare, ognuno se ne stava per i cazzi propri: chi a dormire, chi a vedere la televisione, chi a sbrigare le faccende di casa, chi a prendere il sole sui balconi microscopici con sdraio malconcie.
Il cortile, invece, era deserto: di solito la gente non mancava mai, specialmente bambini e ragazzi, massaie pettegole e pensionati campioni di tresette, ma l'arsura che imperava dalle due alle quattro faceva demordere tutti dall'idea di mettere il naso fuori di casa, anche se non si era più nel cuore dell'estate.
Il silenzio assordante, però, fu improvvisamente interrotto da un tonfo, seguito da urla disumane in napoletano stretto: probabilmente era un'altra incazzatura di Pino O' Serpente, che se la prendeva con Lilly Marlen o con Alice per la questione degli incassi dei clienti.
<< Zucculella 'nfame, tu chist a me, ca so' comm patete, nun me lu duviv 'a fa! >> sbraitava il delinquente, e a quell'appellativo capimmo che il suo bersaglio era la figliastra.
<< Pinù, pigliatella cu 'mme, ma a iss lassl sta'! >> pregava la ragazza.
Mentre ci precipitavamo fuori, ricollegammo le urla di O' Serpente al motivo scatenante di tutta quella furia: mentre noi stavamo ancora fuori Roma, Alice aveva conosciuto un cliente particolare, giovane e diverso da tutti gli altri; era benestante, gentile e non proveniva dal Quartiere, e inoltre trattava la giovane Scorticelli con rispetto, non come una cosa di cui abusare per poi gettarla via dopo l'uso. Si erano innamorati, e grazie a lui la nostra amica d'infanzia si stava godendo per la prima volta i suoi quindici anni. Ma questo fatto non andava bene al patrigno, che all'idea di perdere una fonte di reddito per un capricc' 'e na criatura, come diceva lui, si era incazzato fino a perdere la ragione, cosa che gli capitava spesso.
Ma quella volta esagerò, perché l'ultima frase di Alice fu seguita da un rumore fulmineo, come uno schiocco, seguito da un urlo femminile: Pino la stava prendendo a cinghiate in cortile. Ci affacciammo alle finestre, ai balconi, alle portinerie.
Lilly Marlen correva loro appresso: a quarant'anni passati ne dimostrava sessanta, la vita del cazzo che aveva sempre fatto l'aveva resa vecchia di colpo.
***
Lilly Marlen, al secolo Liliana Scorticelli - anche se ormai s'era dimenticata di avere un nome di battesimo - batteva fin da quando ne avevamo memoria e non aveva mai fatto altro mestiere in vita sua; veniva da Secondigliano, un quartiere alla periferia di Napoli, ed era stata una delle prime persone a stabilirsi nel Quartiere: aveva battezzato molti nostri coetanei, e anche diversi padri di famiglia andavano a farle visita ogni tanto.
Poi, l'incontro con un cliente in particolare le aveva cambiato la vita; quando era rimasta incinta aveva pensato che fosse un segno e aveva subito cercato un lavoro all'interno del Quartiere, ma le donne delle nostre parti, sapendo che quella zoccola era andata a letto coi loro mariti e figli, neanche a servizio la volevano prendere.
Allora era andata fino a Roma centro, ma in città lo capivano a distanza da dove venivamo, c'avevano il radar per riconoscerci e ci dicevano che erano al completo, che non gli serviva nessuno - i più educati; altrimenti ci cacciavano come i cani randagi.
Cosicché Liliana aveva continuato a battere per mantenere se stessa e Alice, che nonostante la condizione di figlia di puttana cresceva senza complessi e giocava sempre con noi.
Poi aveva conosciuto Pino Stornaiolo detto O' Serpente, braccio destro di Don Domenico Esposito - il padre della mia compagna di classe Caterina - che si dava certe arie come se fosse gerarchicamente più in alto del suo padrone; viveva di furti, rapine, omicidi su commissione e spaccio di cocaina e psicofarmaci, e con lui Lilly Marlen s'era fermata: era diventato il suo protettore e la sfruttava fino allo sfinimento, mettendo sul marciapiede, con gli anni, anche Alice, ma mentre alla compagna la riempiva spesso e volentieri di mazzate o peggio - tutti ricordavamo quando l'aveva lanciata dalla finestra, nel settembre del 1986 - sulla figliastra non aveva mai alzato un dito. Almeno fino a quel pomeriggio: Alice aveva osato sognare una vita diversa da quella sotto il giogo del patrigno e questo, O' Serpente proprio non riusciva a tollerarlo.
***
Ci vollero mio padre, il signor Giulio e il nonno di Viviana per scollarlo da Alice, e anche una volta che loro riuscirono nell'intento, Pino continuava a urlare e dimenarsi.
<< I' nun la vuliv piglià a mazzate accusì, sul c'ha 'ncuminciat a diventà truopp zoccola! >> biascicò sfinito dall'arrabbiatura. Avrei voluto ricordargli che ce l'aveva fatta diventare lui, una zoccola. Che me la ricordavo ancora, versione minorenne di Pretty Woman, sul Viale dei morti ammazzati, un anno prima.
Lilly Marlen lo osservava, lo sguardo a metà tra lo schifo e la compassione: quell'uomo le aveva reso la vita un inferno, indirizzando alla prostituzione anche sua figlia. Ma era anche l'unico uomo disposto a prendersi cura di loro.
<< Lilly, almen' tu me crir? I' nun la vuliv menà Alice. Sul ca ha fatt 'na cazzata. Aviv' 'a rimedià... >> continuò O' Serpente in versione pentita, mentre si metteva in ginocchio e abbracciava Lilly Marlen alla vita.
La donna ascoltava le preghiere del suo compagno e protettore, e le compariva davanti agli occhi l'immagine di Ulisse Faria, l'unico che l'avesse trattata come un essere umano, morto ammazzato sul retro del cortile una mattina di giugno del 1992, con la testa spaccata nella caduta dal decimo piano.
<< Sì, Pinù. Te crir. Mo però iammucenn 'a casa... >> rispose rassegnata. Non avrebbe mai trovato il coraggio di cambiare vita. Non sarebbe mai stata capace di ribellarsi a O' Serpente. Né lei né Alice. A meno che non venisse ammazzato. Per sbaglio, in un vicolo, da una coltellata improvvisa o da un proiettile vacante: quello era il suo sogno, la sua ambizione segreta. In quel momento, però, si guardò bene dall'esprimerla.
Alice era rannicchiata in un angolo del cortile, col Sole delle tre a fargli sanguinare copiosamente le ferite inferte dalle cinghie di Pino. Andammo da lei, a consolarla, poi il signor Caruso la portò nella sua portineria, a farla medicare dalla moglie Renata.
Mentre salivamo le scale per tornare a casa, Emma sentì come al solito l'esigenza di dire la sua.
<< Mi sa tanto che Lilly Marlen adesso avrà qualcosa in mente per fare secco Pino... >> commentò.
<< Ma che dici? >> feci sbigottita. In realtà non ci sarebbe stato da stupirsi.
<< Dico che prendendo a cinghiate Ali ha passato il segno. Vedrai che ce lo ritroviamo orizzontale, nei prossimi mesi... >> sentenziò lei.
***
Passarono i mesi e contrariamente alle aspettative occulte di Lilly Marlen, O' Serpente rimase vivo, vegeto e sempre sul pezzo, anche se ultimamente non stava più così addosso né a lei né ad Alice: doveva aver avuto un incarico importante, qualcosa che lo assorbiva del tutto; partiva la mattina all'alba con la macchina a vetri scuri e tornava la sera tardi, sempre quando tutti dormivano.
Nessuno sapeva dove andasse, né da chi, e non importava a nessuno, men che meno a me, che ero già proiettata ad un sabato pomeriggio di fine settembre: Mario aveva preso la patente, e per festeggiare avrebbe portato me, Gabriele, Emma e Viviana a fare un giro in centro; mi piaceva andare da quelle parti, mi faceva sentire un'altra persona.
S'era fatto una Panda turchese, uno scassone di terza o quarta mano, che tuttavia quel pomeriggio ci pareva una limousine: la famiglia Altieri aveva dovuto già spendere un sacco di soldi per il braccio di Gabriele, ma fortunatamente Mario non era pretenzioso e quindi quell'utilitaria gli era bastata e avanzata.
<< Allora, belle ragazze... Siete pronte a passare un pomeriggio al centro storico? Dai, che il mio fratellino ci fa pure l'onore di essere tra noi... >> esordì il maggiore degli Altieri, deridendo bonariamente Gabriele.
<< Vaffanculo, Mario! >> ribatté stizzito quest'ultimo.
<< Andiamo a vedere le vetrine? >> chiese Viviana.
<< E le opere barocche del Bernini e del Borromini? >> domandai.
<< Tutto quello che volete... >> fece Mario.
<< E la nostra Emma, invece, non ha richieste particolari? >> intervenne Gabriele, guardando la mia migliore amica.
<< Voglio mangiare il gelato da Giolitti >> rispose lei.
Viviana e io ci scambiammo un'occhiata veloce: nemmeno unendo tutti i nostri contanti nei portafogli saremmo riusciti a permetterci un cono o una coppetta nella gelateria più importante di Roma, anzi, forse con tutto quello che potevamo racimolare neanche i tovaglioli avremmo potuto comprarci.
<< Va bene un'altra gelateria? >> propose subito Mario, che aveva capito le nostre espressioni.
<< No, no... Io voglio andare da Giolitti >> pretese Emma sorridendo, mentre tirava fuori dal portafoglio un mazzo di banconote che così alto non l'avevamo mai visto.
Mi chiesi mentalmente da dove provenissero tutti quei soldi, ma avevo paura a domandarglielo ad alta voce. Emma sorrideva provocatoria: poteva averli guadagnati in qualunque modo, per quanto ne sapevo anche battendo - non sapevo niente e non me la sentivo di escludere nessuna ipotesi.
<< E Giolitti sia! >> esclamò Gabriele. Poi salimmo tutti in macchina - i due fratelli davanti, Emma, Viviana e io dietro - e partimmo alla volta della nostra meta.
***
Il viaggio dell'andata fu allegro e chiassoso: Mario cambiava stazione radio tutte le volte che c'era una canzone che gli piaceva, ci cantava sopra e noialtri gli andavamo appresso; poi, quando cominciarono a scomparire i palazzoni, le chiese futuristiche e le lande desolate, e apparvero gli edifici storici, i monumenti e le opere d'arte del passato, io feci l'inquadramento dell'epoca in questione, ed Emma ci impartiva delle vere e proprie lezioni di disegno, dandoci la dimostrazione di tutto quello che aveva imparato in un anno e un mese di liceo artistico.
Arrivammo a Piazza di Spagna, cercammo un parcheggio nei dintorni: solo che arrivò prima una macchina rossa fiammante col tetto decappottabile; al suo interno riconoscemmo Italo, Manuel, Francesco, Gilda e Simona.
<< Che cazzo, eravamo arrivati prima noi! >> sbraitò Mario.
<< Se non ci leviamo che ci fai, le buste della spesa? >> lo derise Bianchi.
<< Ma andatevene a fanculo! >> scattò il più giovane degli Altieri, scendendo dalla macchina. Gli andammo dietro per fermarlo: temevamo volesse fare a botte.
<< Che vuoi fare a pugni, Altieri? Ma non c'avevi il braccio cioccato? >> lo provocò Francesco. Non potevo vedere quei tre dal giorno in cui andarono a consumare l'orgia con Alice, ma non intervenni. Non intervenne nemmeno Viviana. Volevamo solo passare un pomeriggio in pace.
<< Ce l'aveva cioccato perché qualcuno gliel'ha cioccato, no? >> si mise in mezzo Emma.
<< Emma dai, stanne fuori... >> disse Gilda, che sebbene fosse nell'altro gruppo rimaneva sempre amica nostra.
<< Ma no, falla scapocciare a questa pazza, vediamo fino a dove si spinge... >> sorrise maliziosamente mia sorella. Avrei voluto buttarla nella Fontana di Trevi, sperare che dimenticasse di saper nuotare e guardarla affogare lentamente senza muovere un dito per aiutarla.
<< Ma levati, 'a Fata Turchina... Ci si scanna tra maschi, le risse non sono cose per femmine... >> si aggiunse Manuel.
<< Oppure risolviamola io e te. In privato >> propose Italo con un sorriso viscido.
Qualunque altra ragazza lo avrebbe mandato a fanculo, sdegnata. Non Emma però.
<< Guarda, per me pure subito. Solo che pensavo fossi fissato con la Martini, fosse mai che ti trova occupato... >> replicò, sottolineando il debole di Bianchi per Laura.
Era stato colpito nel suo punto più delicato. Parlargli di Laura e dei suoi continui rifiuti era come dargli un calcio in mezzo alle palle, per cui decise di battere in ritirata.
<< A' regà, andiamo in un posto dove non ci sta tutta 'sta gente... >> comandò al resto della cricca, che rimontò in macchina con lui e si allontanò.
Seguirono alcuni minuti di silenzio imbarazzante: vedere Simona e Gilda con quei tre soggetti ci aveva rovinato la giornata.
<< Allora, ma che è 'sto mortorio? Ce lo andiamo a pigliare il gelato, o no? >> ci spronò allora Emma.
Faceva finta di non averli mai incontrati, e aveva ragione: dovevamo fare lo stesso.
***
Di tutti i giri in centro che avevo fatto con i miei amici di scuola, non ero mai stata alla gelateria Giolitti, né avevo mai mangiato un gelato così buono, in un luogo con dei posti a sedere, per giunta.
Mi presi una coppetta con cioccolato e panna con la granella di nocciole, non credetti di aver mangiato niente di più gustoso e pregiato; Emma prese un cono con cioccolato fondente, nocciola e fiordilatte; tuttavia una domanda mi tormentava fin da prima dell'andata, ossia dove avesse preso tutti quei soldi con cui aveva praticamente offerto il gelato a tutti.
Volevo togliermi quel dubbio, e così decisi di affrontare l'argomento con lei quando andammo al bagno di Giolitti; glielo chiesi una volta che fummo entrate.
<< Guarda che adesso che siamo sole me lo puoi dire: ma ti sei messa a battere, per avere tutti quei soldi nel portafoglio? >> domandai sottovoce.
Lei si mise a ridere, nonostante non fossimo sole nel bagno. Mi guardai intorno imbarazzata.
<< Ma che sei scema? >> rispose.
<< E allora come mai c'hai tutti quei soldi? >> chiesi.
<< Vuoi saperlo davvero? >> mi guardò lei provocatoria.
<< Sì... >> mormorai abbassando lo sguardo.
<< Hai presente gli abiti che abbiamo indossato per due Capodanni consecutivi? >> mi fece presente la mia amica.
<< Li state vendendo, tu e Sonia? >> indovinai, sgranando gli occhi.
<< Sì, e le nostre compagne di scuola sono disposte a pagare profumatamente per queste nostre creazioni... >> commentò soddisfatta.
<< Adesso però sbrighiamoci che sennò pensano che il cesso ci abbia risucchiate... >> aggiunse poi, chiudendosi in bagno.
***
Tornando a casa, due pensieri avevano affollato la mia mente: il primo era il business in cui si erano lanciate Emma e Sonia vendendo le loro creazioni alle nostre compagne di scuola, sia dell'artistico che del classico; la seconda era il fatto di aver visto Simona e Gilda in compagnia di Italo, Francesco e Manuel: sapevo che la nostra amica d'infanzia voleva un uomo ricco e Bianchi lo stava diventando, ma per quanto riguardava mia sorella pensavo che ancora le dispiacesse, per la rottura con Mario. Almeno un minimo.
Non immaginavo certo di trovarle con quei tre, né che la loro strada si incrociasse con la nostra, quel pomeriggio. Decisi di affrontare anche lei come avevo affrontato Emma, quando tornai a casa.
Simo stava ascoltando la musica col walkman, letteralmente sbracata sul letto; nemmeno si accorse che ero entrata.
<< Simo, levati le cuffie e rispondi! >> ordinai. Non mi degnò nemmeno di uno sguardo.
Venni vicino a lei e gliele strappai dalle orecchie.
<< Ma che cazzo fai? >> si mise subito sulla difensiva.
<< Che ci facevi con Italo e gli amici suoi, oggi al centro? >> esordii.
<< Passeggiavamo. Che c'è di strano? Il centro è di tutti, mica solo di quei poracci degli amici tuoi! >> ribatté.
<< Uno di qui poracci era il tuo ragazzo fino a qualche mese fa! >> le ricordai.
<< Lo era fino a quando non si è dimostrato un mollusco ai miei occhi! >> rispose.
<< C'entrano loro con l'incidente di Gabriele? Lo hanno buttato dalle scale perché glielo hai chiesto? >> volli sapere. Il dubbio mi divorava.
<< Vaffanculo, no! Non è colpa di Italo se quello sfigato a cui continui a morire dietro non ha messo bene un piede davanti a l'altro, o s'è scontrato con qualcuno! >> saltò su lei.
<< Italo, Francesco e Manuel spacciano, cazzo! È gente come loro che sta rovinando il Quartiere, Simo... Perché non lo capisci e ti ci mescoli? >> le chiesi avvicinandomi a lei, prendendola per le spalle.
Mia sorella scrollò via le mie mani rabbiosamente.
<< Loro spacciano, ma tu la loro roba la fumi! La fumiamo tutti, e ci piace, cazzo! Ci piace! >> esclamò.
Era impossibile parlare con lei. Non avrei cavato un ragno dal buco.
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