Capitolo 17

La vicinanza tra Emma e Orlando continuò anche durante la preparazione dei nostri esami, e non fu l'unica: dopo il maggiore dei Floris cominciarono a venirci dietro anche Giovanni, il figlio maggiore del ferramenta Santini, suo fratello minore Francesco che stava in classe con noi, e perfino i ragazzi più piccoli di noi come Claudio Leonardi, il fratello più piccolo di Antonio; io lo sapevo perché i maschi comparivano a frotte quando passavamo, e questa cosa mi preoccupava ogni giorno di più.
Fino ai tredici anni ero stata io la migliore: ero più bella di Emma, più alta e gentile e aggraziata, a scuola avevo voti più alti dei suoi, e i ragazzini che ci venivano dietro, lo facevano perché ero io ad attirarli; Emma era un'indemoniata, con quella massa rossa che aveva in testa e quell'espressione di chi avesse qualcosa che se la mangiava dentro: rispondeva a tono, tanto che ero sempre io a salvarla dalle situazioni spiacevoli perché sapevo dire la cosa giusta al momento giusto, e nel Quartiere credevano tutti che me la portassi appresso per carità.
Ma al compimento dei nostri quattordici anni, nell'arco di quell'estate del 1995, qualcosa cambiò.
Le nostre strade, che erano sempre procedute parallele, si divisero alla scelta del liceo: io scelsi il classico, lei l'artistico; eravamo tra i rari casi di quattordicenni del Quartiere Anceschi che non interrompevano gli studi dopo la terza media e questo ci faceva sentire parimenti lanciate verso il grande mondo - quello esterno, che avevamo sognato coi racconti di Gabriele e Mario - che ci avrebbe accolte a braccia aperte; ma fu all'inizio della nostra adolescenza che la sua stella esplose al punto che la sua luce arrivò ad oscurare la mia: i maschi del Quartiere catalizzarono la loro attenzione su di lei, affascinati e intimoriti da quella ragazzina sfrontata che teneva testa a chiunque senza nessuna paura; i ruoli si erano ribaltati, ma la cosa, a parte in un primo periodo, non mi sconvolse più di tanto, perché sapevo che sarebbe stata una meteora: ero sicura che il tempo e la pazienza mi avrebbero restituito il mio primato.

                                      ***

Il liceo dove andammo si trovava al centro di Roma, vicino a Piazza dei Cinquecento, e si divideva in due indirizzi: il classico e l'artistico.
La prima volta che andammo agli open day fu un'emozione prendere l'autobus 105 fino al capolinea: a parte le volte in cui eravamo andate in gita alle elementari e alle medie con maestri e professori, non eravamo mai state al centro di Roma da sole; la tentazione era stata forte in quegli anni, ma le cinghiate che aveva dato il barista Martini a sua figlia Laura, proprio per aver fatto questo, ci avevano disincentivate.
Era un edificio imponente di quattro piani, e le classi dei due indirizzi non erano divise per blocchi, ma era possibile trovarli entrambi sullo stesso piano; li si distingueva da come si ponevano: ben vestiti, acqua e sapone ed equilibrati quelli del classico; istrionici, colorati ed esuberanti quelli dell'artistico.
Potei constatare che, in un certo senso, quei due diversi modi di porsi ci sembravano rispettivamente cuciti addosso.
Venni smistata nella classe IV B - il quarto e quinto ginnasio si chiamavano così perché erano un'antica prosecuzione delle medie - mentre Emma in I B: fortunatamente non eravamo troppo lontane, visto che stavamo entrambe al terzo piano, e la sua sezione stava esattamente di fronte alla mia.

                                     ***

Nella mia classe eravamo trenta alunni: non mi sembrò una cosa sconvolgente, Gabriele mi aveva detto che si partiva sempre in trenta al quarto ginnasio e si arrivava in quindici o sedici alla terza liceo.
Pensavo di essere l'unica ragazza a provenire dalla periferia più sperduta e malmessa della città, ma fortunatamente nessuno dei presenti era troppo centrale, qualcuno addirittura proveniva da fuori Roma, quindi mi ritenni in buona compagnia: la prima insegnante che conoscemmo, la professoressa Dandini di Italiano, Storia e Geografia, ci chiese le nostre provenienze ad uno ad uno.
La mia compagna di banco si chiamava Irene Aiello e disse di provenire dal Villaggio, la zona appresso al Quartiere, che si poteva vedere subito dopo il parco della discarica: i nostri genitori ci dicevano che da quelle parti tutti erano esseri inferiori e senzapalle, ma il padre di Irene era benestante, e possedeva una catena di caffetterie che si estendeva anche fuori dai confini del Villaggio - o Villaggio Ettore Castaldo, come il nome dell'architetto idealista che l'aveva progettato, animato dalla stessa ingenuità di Riccardo Anceschi, colui che aveva dato vita al Quartiere.
Ma la figura che mi incuriosì di più, in mezzo ai nostri compagni, fu Caterina Esposito, che lì dentro sembrava essere la più ricca di tutti; e io lo sapevo bene perché: Gabriele mi aveva detto che Pino O' Serpente era il braccio destro di Domenico Esposito, il padre di lei; si diceva anche che fosse stato lui a fargli accorciare la pena, dopo che aveva ucciso il signor Faria. Anche se di numero eravamo pari e tutti avessero un compagno o una compagna di banco, lei sembrava stare da sola, contornata da un'aura di superiorità che la rendeva lontana anni-luce da noi comuni mortali.
<< Come se la tira quella... Non trovi? >> mi sussurrò Irene all'orecchio.
Non potei che darle ragione: Caterina Esposito aveva una spocchia infinita.

                                     ***

Tutto sommato quella classe mi piaceva: eravamo un gruppo abbastanza eterogeneo, di gente comunque accomunata dal desiderio di scoprire quale fosse il proprio posto del mondo, a parte la figlia di Domenico Esposito, che sicuramente il suo posto l'aveva già trovato; tuttavia ero convinta che anche lei, in quegli anni di liceo, volesse trovare se stessa, e magari fuggire da un destino già scritto: da quello che lasciava intendere O' Serpente, Don Domenico - come lo chiamava lui - era un camorrista potente e temuto, degno di far tremare perfino i più spavaldi spacconi del Quartiere, al solo essere nominato. Caterina era la sua unica figlia, e molto probabilmente il liceo e la successiva università sarebbero stati solo un pretesto per farne un'erede degna, nel bene e nel male, nel poco lecito e nel molto illecito.
Cominciò ad avere delle amiche, anzi una vera e propria cricca di api regine che decidevano chi fosse in e chi out.
Io non venni etichettata, ma c'era un motivo per cui Caterina e le sue "ancelle" mi trattavano da pari a pari: ero uscita dalle medie con dieci e appena cominciato il ginnasio pure lì erano fioccati da subito i bei voti, e a chiunque conviene essere amici dei migliori della classe, per sopravvivere fino all'ultimo anno.

                                      ***

A partire dai primi giorni di scuola, Emma e io cominciammo a lavorare nelle attività delle nostre famiglie, nel weekend: era il loro modo di farcela pagare per aver scelto di non interromperci alla terza media e continuare a studiare.
Emma e suo padre si svegliavano la mattina alle quattro, e alle cinque aprivano il banco dei fiori: avevano cappelli, cappotti, sciarpe e guanti a mezze dita - a quell'ora si moriva di freddo già da settembre; io, mio padre e mia sorella ci alzavamo alla stessa ora, per prendere le nostre solite postazioni in pizzeria: mio padre all'accoglienza, mia sorella ai forni e io a servire ai tavoli.
Il calore della cottura impregnava il locale così velocemente che nel giro di due ore già si moriva di caldo; fortunatamente arrivava la pausa pranzo, che coincideva con quella di Emma: quando ci incontravamo lei tremava di freddo, io ero tutta sudata.
Non parlavamo molto, e solo tempo dopo capii il perché: lei mi invidiava il fumo che riscaldava l'ambiente, la possibilità di fare su e giù e il contatto con la gente sempre così dinamico e continuo; io le invidiavo l'aria fresca sulla faccia, le persone che si facevano servire con calma e senza trattare male nessuno e il lusso di potersi sedere, ogni tanto, dietro il bancone.
Una volta le proposi di fare a cambio: lei rise di una risata sguaiata, la stessa che sfoderava quando sentiva qualcosa di assurdo.
<< Tu sei troppo principessina. Non dureresti un minuto al mercato >> sosteneva.

                                    ***

Con quella frase, Emma aveva tracciato una linea di confine tra di noi, una linea che prima non c'era o che forse c'era sempre stata ma non ci avevo mai fatto troppo caso; le superiori mi costrinsero a prendere atto di quanto fossi principalmente io quella che, delle due, volesse emanciparsi rispetto al Quartiere, mentre Emma, nonostante avesse sempre sostenuto che le andasse stretto, adesso che lavorava al mercato, pareva sguazzarci dentro, come nel suo elemento naturale.
La sua presenza accendeva i desideri dei ragazzi che lavoravano nei negozi dei rispettivi genitori, in piazza: venivano al banco, salutavano il signor Giulio e poi si mettevano a parlare con Emma; fu con loro che cominciammo a passare la pausa pranzo, seduti a uno dei tavoli esterni del bar Martini; facevano a gara a mettersi in mostra, parlando delle loro attività ed elargendo aneddoti in tema come se fossero medaglie al valore. Lei distribuiva sorrisi a trentadue denti, rideva a tutte le loro battute sconce e teneva banco in tutte le conversazioni: il suo comportamento mi metteva sempre più in imbarazzo, tanto che mi indirizzai maggiormente verso i miei nuovi amici del liceo; oltre ad Irene mi feci anche altri amici - Andreina, Concetta, Claudia, Tony - tutti figli di liberi professionisti, impiegati e commercianti, che provenivano da zone più interne della città e bazzicavano ambienti che io, invece, avevo solo sognato.
Nei pomeriggi infrasettimanali sgombri del carico di compiti e nelle giornate festive libere mi facevo vedere sempre meno per le strade del Quartiere, sperando che Emma se ne accorgesse e facendoglielo notare, parlando dei bei posti che vedevo e della bella gente che conoscevo: volevo dimostrarle che ormai frequentavo un certo tipo di persone, mentre lei ancora si circondava di meccanici, ferramenta, portinai e fruttaioli.

                                      ***

In realtà anche Emma si stava facendo amicizie al di fuori del Quartiere, solo che, a differenza mia, non vi si aggrappava disperatamente per scrollarsi di dosso le nostre origini, anzi: ne aveva la chiara e tranquilla consapevolezza, come se sapesse che quelli come noi erano marchiati a fuoco in maniera irreversibile; e più cercavo di essere diversa, di non rassegnarmi al nostro destino ineluttabile, più mi accorgevo di essere ibrida, per metà aspirante all'Empireo in cui mi sentivo coi miei nuovi amici, e per l'altra metà rovinante verso gli Inferi, verso il Quartiere e i suoi demoni.
Continuavamo a farci le canne per evadere da quella situazione: Emma diceva che era la nostra unica arma per sopravvivere a questa nostra condizione ambivalente, che ci soffocava e ci stritolava.
Non capivo quanto fossimo privilegiate in quel momento, ma la mia insoddisfazione di fondo ebbe un brusco arresto al rientro da un'uscita con i miei nuovi amici; ero sul 105 quando all'improvviso vidi, sui bordi del Viale dei morti ammazzati prima della mia fermata, una figura che attirò, più che la mia attenzione, la mia compassione: era una baby squillo, una puttana giovanissima che, a occhio, poteva avere la mia età; l'autobus le passò vicino e, quando riconobbi di chi si trattava, per poco non mi prese un colpo: quella ragazza era Alice. Sotto la parrucca a caschetto biondo platino, il trucco pesante, il top bianco, la microgonna rossa, le calze a rete e gli stivali neri a mezza coscia c'era una delle mie più care amiche nonché vicina di casa.
Quel bastardo di Pino ce l'aveva fatta, oltre che sfruttare sua madre Lilly Marlen, ci era riuscito anche con lei; aveva aspettato i quattordici anni della figliastra per metterla sulla strada e fare più soldi: le ragazzine ancora vergini attiravano il doppio dei clienti.
Per fortuna scesi in un punto abbastanza lontano da lei, il solo vederla ridotta a quel modo mi faceva sentire male.
Arrivai a casa con lo stomaco sottosopra: erano tutti troppo distratti per fare caso a me che corsi di filato in bagno. Chiusi la porta a chiave, mi diressi verso il cesso, alzai la tavoletta, mi chinai e vomitai tutto lo schifo che mi aveva fatto una simile scoperta.

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