Capitolo 14
A settembre cominciammo ad andare alle medie: ci immergemmo in questa nuova avventura scolastica con grande entusiasmo, spinte dai racconti di Gilda, Gabriele e Mario.
Certo, quello che regnava negli ultimi mesi del 1992 non era proprio un clima di festa, anzi: oltre allo scandalo di Tangentopoli che scoperchiava sempre più altarini e alle morti dei giudici Falcone e Borsellino, c'era anche la sanguinosa guerra del Kosovo, che aveva trasformato la Bosnia-Erzegovina in una polveriera; i nostri nuovi professori sostenevano che quello era il rovescio della medaglia del processo di unificazione dell'Europa, iniziato col crollo del muro nel 1989 e ufficializzato dal Trattato di Maastricht.
Avevamo imparato che non era stato facile creare un mondo libero, ma non immaginavamo quanto fosse complicato mantenerlo.
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In prima media cominciammo anche a fare latino: Gabriele diceva che era noioso ma se si impegnava lo faceva per sua madre; la signora Agata, nonostante fossero una stirpe di decaduti, ci teneva che i suoi figli continuassero ad avere un'istruzione degna di quel nome.
A me piacque immediatamente: la nostra insegnante di latino, tale professoressa Annamaria Corti, sosteneva che in quella lingua non c'era niente di morto, che anzi era vivissima, talmente viva da aver generato nove lingue dette neolatine, tra cui l'italiano.
Cominciammo a studiare dalla prima declinazione: riuscii anche a trascinare Emma con il mio entusiasmo, tanto da infonderle la pazienza di recitare tutti i casi, singolari e plurali, del vocabolo rosa, rosae, che altrimenti non avrebbe avuto.
Studiare il latino ci faceva sentire meno la mancanza del falsario, morto ammazzato a giugno: era come averlo ancora lì, sentivamo che era fiero di noi, di cosa stavamo diventando.
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Capivo che stavamo definitivamente elaborando il lutto quando Emma riaprì il suo laboratorio: era dalla morte di Faria che non ci entrava, e se non ci avesse rimesso piede a settembre credevo che avrebbe accantonato quel progetto per sempre perché continuarlo avrebbe fatto troppo male.
E invece ci tornò, invitando sia me che Gabriele quando decideva che era il momento giusto, come avevamo fatto fino a giugno; ero davvero felice che esistesse quel luogo, era il nostro rifugio contro tutto quello che stava succedendo in Italia: in quel 1993 infatti, da nord a sud esplodevano bombe; ordigni a Milano, a Firenze, a Roma, erano una rappresaglia della mafia contro lo Stato, e spingevano gli adulti a dirci di rimanere dentro casa, di uscire solo se era strettamente necessario e di non allontanarsi mai dal Quartiere: non era difficile attenersi a quell'imperativo, tanto non c'erano tutte queste occasioni di allontanarci dai nostri confini.
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Per noi ragazze, in particolare, c'era più apprensione che per i ragazzi, a partire dai nostri undici, dodici anni: la storia del Mostro di Firenze, un serial killer che uccideva le giovani coppie infierendo in maniera particolarmente sadica sui cadaveri delle vittime femminili aveva suggestionato i nostri genitori a tal punto che ci facevano il terzo grado su tutti i nostri spostamenti, come se non fossero gli stessi da anni.
Allora non vivevo la mia condizione di femmina come un problema che potesse attirare dei pericoli: sapevo che da un momento all'altro avrei sviluppato e sarei cresciuta, che sarei passata dall'infanzia all'adolescenza nel giro di pochi anni, ma lo accettavo con serenità, non mi mettevo certo a contare i giorni sul calendario come avevano fatto Simona, Gilda e le altre ragazze più grandi.
La mattina del 2 giugno era la festa della Repubblica e quindi le scuole erano chiuse, per cui potevo dormire fino a tardi; fu il caldo a farmi svegliare di soprassalto, un caldo improvviso, afoso, di quelli che ti portano a boccheggiare; quel caldo tuttavia proveniva da sotto il mio sedere e si disperdeva sul materasso: sapevo che ero nell'età in cui potevano cominciare a venirmi le mestruazioni, ma mai ci avrei pensato in quel momento esatto; il giorno prima avevo avuto dolori al basso ventre fino a sera, ma mia madre mi aveva dato una Tachipirina per non sentire che mi lagnavo: i dolori non erano passati, ma li tenni per me, per non beccarmi le proteste di Simona, che voleva dormire in pace; lei le mestruazioni già le aveva avute, e quando le arrivavano soffriva come un maiale mandato al macello, e io avevo avuto gli stessi sintomi.
Dunque mi feci coraggio, tirai via il lenzuolo e aprii le gambe: una macchia rossa si stagliava contro il bianco del lenzuolo. Impallidii.
Sapevo che avrei dovuto dirlo a mia madre e a mia sorella, ma avevo paura del loro giudizio, quasi sempre negativo, nei miei confronti; non sapevo bene cosa mi passava per la testa, corsi in bagno e mi ci chiusi.
Quando fui sicura di essere sola, tirai giù le mutande: si erano macchiate anche quelle.
In quel momento esatto arrivò mia madre, che guardò prima me seduta sulla tazza del cesso, poi le mutande sporche di sangue, e capì.
<< Ecco cos'erano tutti quei dolori di ieri! >> osservò, come se avesse scoperto qualcosa di ovvio e non ci fosse arrivata prima.
<< Non pensavo che fosse il ciclo. Non così presto >> ammisi.
<< Non esiste presto o tardi. Quello viene quando gli va di venire. Comunque mettile a lavare, quelle mutande, che sono tutte zozze, e mettiti questi >> mi disse, tirando fuori da un cassetto un pacco di assorbenti già cominciati da Simona.
<< Adesso dovrai starci co' cent'occhi, con quell'Altieri che ti porti sempre appresso... >> mi ammonì, riferendosi a Gabriele e alla nostra complicità.
***
L'avvertimento di mia madre sul fatto di stare attenta a Gabriele mi era entrato nel cervello come cento spilli, e proprio per sentirmene meno condizionata ne parlai con Emma, che era voluta rimanere non appena mia madre le aveva detto che mi era venuto il ciclo.
<< Dai, ci sta che te l'ha detto. A scuola ci hanno spiegato che una femmina, non appena ha le prime mestruazioni, può rimanere incinta, se fa sesso col suo uomo... >> mi fece, come se stesse esprimendo un concetto così scontato che quasi il mio stupore la scocciava.
<< Ma io e Gabriele mica facciamo sesso, siamo troppo piccoli! >> esclamai scandalizzata.
<< Lo so, ma quando sarete più grandi lo farete eccome, e allora dovrete stare attenti che sì. Un marmocchio è l'ultima cosa che vi ci vuole: gli Altieri non hanno manco gli occhi per piangere, e i tuoi non credo abbiano già voglia di diventare nonni, specialmente tua madre. Anche se il ciclo, ai maschi, gli fa come la carta moschicida ai moscerini: in quei cinque giorni mozzichiamo, quindi ci stanno alla larga >> mi spiegò.
Avrei voluto dirle che quel suo discorso non mi tranquillizzava affatto, che al contrario mi aveva messo ancora più ansia, ma era l'unica persona con cui potessi confidarmi, in quel momento.
<< Per allora magari è già riuscito ad aprire la sua agenzia di viaggi, chi lo sa... >> ipotizzai, facendo riferimento al sogno del ragazzo che amavo.
<< Sì, come no. Se qualcuno non se la sarà comprata, l'ex libreria maledetta. Comunque cerca di non arrovellarti troppo e di stare scialla, si tratta sempre di cinque giorni in cui non può romperti i coglioni nessuno, vuoi mettere? Io non vedo l'ora che mi vengano... >> ribatté lei, palesando un'invidia che non aveva mai avuto, nei miei confronti. Perché io ero già donna e lei ancora no, e questo la faceva rosicare. E il bello era che non facesse nulla per nasconderlo: ma me lo aspettavo a dire la verità; se non si fosse comportata così, non sarebbe stata Emma.
In quei cinque giorni mi venne a trovare anche Gabriele, mi disse che lui le sue polluzioni le aveva avute da un pezzo e che lo sviluppo, sia per i maschi che per le femmine, era fastidioso ma non invalidante.
Beato lui che la pensava così, io quei cinque giorni del mio primo ciclo me li feci tutti a letto.
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