Capitolo 13
Nel 1991 compii dieci anni, così come Emma, Viviana, Alice e Diana; quella nostra prima cifra tonda venne da noi considerata un vanto, esattamente come ci aveva detto Gilda un anno prima, quando li aveva compiuti lei: dieci anni erano il tempo della licenza elementare, il primo titolo che aggiungevamo alla nostra istruzione media rionale, per quanto scarsa che fosse; e poi questa nostra età - sempre stando a ciò che diceva Gilda - era il primissimo passo che avremmo fatto verso il mondo degli adulti: sarebbero susseguite le mestruazioni, verso i dodici o tredici anni; la nostra amica più grande e mia sorella non vedevano l'ora, così, secondo loro, sarebbero diventate donne e avrebbero potuto fare sesso e avere dei bambini, più in là: il matrimonio o anche la formazione di una famiglia di fatto erano per noi bambine, già all'epoca, un traguardo fondamentale dopo il ciclo, il patentino, il sesso e la patente di guida; significava infatti la libertà e lo svincolo definitivi nei confronti delle nostre famiglie disfunzionali, pure se spesso ne andavamo a formare delle nuove uguali di sfigati.
Tutti questi pensieri, pur affascinandomi, non mi turbavano più di troppo: a dieci anni, l'idea di sposarmi con Gabriele e farci dei figli non era poi così male.
***
Quell'anno tornò anche la neve a Roma, ma a febbraio, in un periodo più standard rispetto alle nevicate del 1986 e del 1987, in cui avevamo visto i primi fiocchi all'inizio di marzo.
La mattina in cui fummo svegliati dal candido manto bianco non andammo a scuola, anzi, scendemmo tutti, grandi e piccoli, a giocare con la neve in cortile, in piazza, per le strade; noi bambini facemmo anche una battaglia a palle di neve: la squadra di Emma contro quella di Laura Martini, due leader coi controcoglioni; entrambi gli schieramenti avevano le proprie fortezze, anch'esse costruite con la neve.
Fu una battaglia estenuante, che finì in parità; verso l'ora di pranzo sgomberammo il campo: tutto quel movimento ci aveva fatto venire fame.
Verso le quattro suonarono alla porta e mia madre venne ad aprire.
<< Leti, è per te >> mi disse, mentre stavo facendo i compiti, intenzionata a portarmi avanti in quel pomeriggio di vacanza improvvisa.
<< Per me? >> domandai.
<< Sì, è il figlio piccolo degli Altieri. Copriti, sennò ti piglia la febbre e non ho tempo di starti appresso >> rispose con la solita delicatezza di un elefante in un negozio di porcellane.
Corsi a vestirmi e uscii.
<< Ehi, ciao >> mi salutò.
<< Ciao >> ricambiai.
<< Che facevi? >> domandò.
<< Mi portavo avanti con i compiti >> risposi.
<< Sei veramente unica, solo a te può andare di studiare in un giorno come questo >> osservò divertito.
<< Mi sto preparando all'anno prossimo, in cui andrò in quinta e farò l'esame di licenza elementare >> replicai.
<< Non è difficile, è veramente poca roba. A mio fratello hanno detto che sarà più tosto l'esame di terza media >> mi rassicurò.
<< Immagino, ma non sei venuto per parlarmi degli esami, vero? >> volli sapere. Tutto quel giro di parole mi stava stufando, spingendomi a tirare fuori la schiettezza tipica di Emma.
<< No, sono venuto per farti vedere una cosa, ma stamattina non potevo perché c'erano anche gli altri >> mi spiegò.
Lo seguii giù per le scale, divorata dalla curiosità; scendemmo in cortile, dove lui aveva costruito un igloo semicircolare, con la parte aperta rivolta verso i casermoni.
<< Ma è bellissimo, l'hai fatto tu? >> chiesi stupita.
<< Sì, l'ho fatto per creare atmosfera >> sorrise lui, prendendomi per mano.
<< Quale atmosfera? >> domandai, anche se speravo di averci preso, con il motivo per cui mi aveva fatto venire fin lì.
<< Quella giusta per chiederti una cosa importante >> esordì.
<< Cosa? >> feci, con il cuore a mille.
<< Quando saremo grandi sicuramente ci sposeremo, ma nel frattempo ti vuoi fidanzare con me? >> mi propose.
Le sue parole mi colpirono come macigni, ad una ad una; le mie gambe tremarono e il respiro mi si fermò. Non aspettavo altro da quando ci eravamo conosciuti, e adesso stavo veramente facendo la figura della scema.
<< Allora? >> insistette, non vedendo una mia risposta immediata.
<< Sì, sì! Mi voglio fidanzare con te! >> esclamai, saltandogli al collo e abbracciandolo. Pensai che nessuno ci avesse visti, ma non sapevo di sbagliarmi: in quel momento, dalla finestra della sua stanza, si era affacciata Emma.
***
Dopo che la neve si sciolse riprendemmo la vita di tutti i giorni. Non avevo ancora avuto il tempo di raccontare ad Emma del mio fidanzamento con Gabriele, ma siccome mi aveva invitato nel suo laboratorio, quel pomeriggio, pensai che fosse l'occasione perfetta per confidare quell'importante novità alla mia migliore amica.
Non potevo nemmeno immaginare che lei già lo avesse saputo: lo dimostrò il fatto che, quando arrivai in cantina e scostai il telo che copriva l'area di Emma, trovai Gabriele lì con lei, che la guardava mentre disegnava.
<< Leti, finalmente sei arrivata. Ti stavamo aspettando >> esordì tranquillamente lei, come se niente fosse.
<< Tu che ci fai qui? >> domandai subito a Gabriele. Emma mi aveva fatto giurare di non dire niente a nessuno del suo laboratorio, e ora, di sua spontanea volontà, svelava l'esistenza di quel luogo proprio a lui?
<< Emma ha capito che eravamo fidanzati, e per dimostrare che era contenta per noi mi ha invitato nel suo laboratorio >> mi disse Gabriele.
Non riuscivo a capire tutta quella calma da parte di entrambi: avevano fatto tutto alle mie spalle, avvertendomi solo dopo i fuochi; lo trovavo fastidioso, mi sentivo esclusa.
<< Perché non sei venuta da me per farmi le congratulazioni? >> chiesi perciò ad Emma.
<< Perché ho capito che se sta con te, Gabri è un tipo a posto e di lui ci possiamo fidare. E poi ha un progetto, proprio come me e te. Se non è a posto uno così... >> mi spiegò lei.
Sorrisi forzatamente, cercando di fare finta che tutto fosse a posto, ma in realtà mi stavo logorando dentro: non solo Emma ci aveva sicuramente spiati, ma lei e Gabriele si erano anche rivelati i rispettivi progetti e questo li rendeva maledettamente simili, tanto che cominciai a pensare che fosse fidanzato con me ma l'intesa ce l'avesse con lei, che tra di loro si potesse scatenare una tempesta elettrica da cui io sarei rimasta per sempre estranea.
Cercai di scacciare quel pensiero cupo, focalizzandomi sul fatto che, se Gabriele aveva scelto me, sicuramente un motivo c'era. Nei giorni successivi non tornammo più sull'argomento.
***
Se dovessi cercare le parole per descrivere gli Anni Novanta, li rappresenterei come un fiume in piena, che rompe gli argini di una diga in cui si è sempre mosso e dalla quale non ha mai sentito il desiderio di uscire, ma che all'improvviso gli va stretta e vuole disfarsene definitivamente.
Il 1992 si aprì con lo scandalo di Tangentopoli, durante il quale il magistrato Antonio Di Pietro, a capo del pool di Mani Pulite, mise il punto finale alla Prima Repubblica, quella che dal 1946 arrivava fino ad allora: tantissimi politici di diversi partiti vennero messi con le spalle al muro, accusati di un magna magna - espressione che imparai all'epoca e che descriveva l'azione di arricchirsi sulle spalle della collettività - che si estrinsecava col metodo delle mazzette o tangenti; perfino il presidente della Repubblica in carica, Bettino Craxi, fu costretto a rifugiarsi ad Hammamet, la città tunisina che una volta aveva ospitato la sua "corte" e che adesso era un mausoleo dove si sentiva sepolto vivo.
Questo scandalo suscitò diverse reazioni tra gli abitanti del Quartiere: alcuni dicevano che finalmente sarebbe stata la fine della Repubblica delle banane, altri invece sostenevano che quella sollevazione delle coscienze era solo momentanea, che finito il polverone di Tangentopoli si sarebbe continuato a fare come prima, anzi addirittura peggio, della serie affinché tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi; era praticamente il pensiero di Tomasi Di Lampedusa nel libro "Il Gattopardo", solamente espresso più alla buona.
***
Un altro scossone stava attraversando la Sicilia: nel corso degli Anni Ottanta erano stati uccisi diversi magistrati antimafia, tra gli attentati dei vari clan di Cosa Nostra e la paura della gente comune, ma i più in pericolo erano attualmente i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali avevano dato il via al maxiprocesso, che aveva messo all'angolo mafiosi di tutti i tipi, dai più trucidi che si esprimevano solo in dialetto ai più sopraffini, veri e propri agganci tra malavita, politica e imprenditoria.
Quello del maxiprocesso era stato una svolta nella guerra Stato-Mafia, ma anche una provocazione secondo la psiche dei criminali, che avevano reagito facendo secchi giudici, magistrati, giornalisti, uomini di legge, trasformando Palermo in particolare e la mia terra d'origine in generale in un campo minato che terrorizzava i superstiti, portando a temere per la propria incolumità perfino quelli che, dalla prima ora, avevano combattuto i malavitosi a spada tratta; gli unici che non sembravano farsi toccare da nessun timore erano Falcone e Borsellino, che procedevano stoici per la loro strada contro la mafia, una stoicità che, purtroppo, li aveva resi sempre più isolati, ma sempre insieme da bravi migliori amici che erano: avevano condiviso tutto, dalle scuole alla professione, e ora avrebbero percorso fino alla fine anche la stessa strada, seppure impervia.
Me li ricordo nella loro foto più celebre: Giovanni Falcone col suo piglio grintoso, che sorridente e gioviale parla all'orecchio del collega Paolo Borsellino, il quale aspira fumo dalla sua perenne sigaretta accesa, più introverso e arrovellato da mille pensieri; quando mi capita di rivedere quella foto penso che, se i due giudici siciliani fossero nati a Roma, nel Quartiere Anceschi, sicuramente sarebbero somigliati a me e ad Emma.
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La verità, però, è che tutti questi sconvolgimenti ci colpivano, ma non abbastanza da lasciare un segno indelebile: d'altra parte, quando si è bambini, gli echi del mondo arrivano lontani, attutiti dall'ingenua consapevolezza che il domani possa essere sempre meglio dell'oggi e che questo sia un dogma imprescindibile, di quelli che non si discutono: tale nostra certezza vacillò il 23 maggio del 1992.
Nonostante fossimo ancora in primavera faceva caldo come ad agosto, per cui facevamo i compiti ai tavoli fuori della pizzeria; ogni tanto, tra un esercizio di analisi logica e un problema di algebra, Emma ci raccontava che per i suoi undici anni intendeva organizzare una festa fighissima, con tanto di composizioni floreali disegnate da lei: da quando Gilda ci aveva detto che a undici anni le bambine cominciavano a diventare donne e a crescere molto prima dei maschi, la mia amica era letteralmente entrata in fissa con quello che sarebbe dovuto essere il party del secolo.
Erano quasi le sei di un pomeriggio luminosissimo - l'estate era vicina e le giornate andavano allungandosi - quando alla radio dissero qualcosa che noi non capimmo subito, ma che portò gli adulti a precipitarsi fuori dai negozi e a radunarsi a parlottare in gruppi, e la gente in casa ad affacciarsi alle finestre e ai balconi gridando che avevano ammazzato il giudice, che l'avevano fatto saltare in aria.
La sera guardammo il telegiornale e ci facemmo le idee più chiare: il giudice in questione era Giovanni Falcone, che con la moglie Teresa Morvillo e tre uomini della scorta - Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - erano rimasti coinvolti nell'esplosione di una bomba sull'autostrada all'altezza di Capaci, vicino Palermo.
Al loro funerale la vedova di Schifani, Rosaria Costa, incinta del loro primo figlio, rivolse parole di sfida ai mafiosi: "Io vi perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio".
Credo che se la nostra infanzia non fosse finita quel giorno, nel senso morale del termine, subì comunque una botta che ci tolse il fiato, perché fino ad allora avevamo creduto che qualcosa di magico ci fosse nel mondo esterno, e che ci chiamasse per essere da noi scoperto e vissuto al massimo; e invece altro che magico: quattro uomini e una donna erano morti per aver fatto solo il loro dovere.
Nei giorni seguenti ebbi una paura fottuta di tornare in Sicilia per l'estate.
***
Per quanto la Strage di Capaci ci avesse lasciati tutti sotto shock, noi bambini cambiammo presto priorità: l'esame di quinta elementare si avvicinava; non era così difficile, consisteva in una prova scritta e in una orale, ma per noi, oltre che un attestato, sarebbe stato un vero e proprio traguardo, un biglietto da visita per il mondo degli adulti.
Emma e io continuavamo a frequentare la bottega del falsario, nel tempo libero, solo che negli ultimi tempi Faria era strano: nervoso, distratto, come se qualcosa lo preoccupasse, ci mandava via dieci minuti prima, quasi che volesse farsi trovare in casa da solo.
<< Secondo me Faria ha una donna >> affermò Emma mentre scendevamo le scale per tornare nei nostri appartamenti.
<< Ma che dici, il signor Faria si è praticamente sposato con l'arte! >> replicai.
<< È una cazzata, questa. Nessuno vuole morire da solo, nemmeno uno come lui >> ribatté.
Non seppi come controbattere: il suo ragionamento filava alla perfezione.
***
Le prove si svolsero poco prima della fine della scuola, mentre gli alunni di prima, seconda, terza e quarte già chiudevano i libri, spensierati, e quelli dell'ultimo anno delle medie si preparavano per il loro, di esame, che tra qualche tempo sarebbe toccato anche a noi.
Gli amici del nostro gruppo fecero riferimento a me perché ero la più brava e studiosa, perfino Emma mise a tacere il suo egocentrismo per affidarsi al mio spirito di secchiona che avrebbe permesso di prendere la licenza elementare a tutti, perfino a lei, che avrebbe sicuramente avuto una media alta come la mia, se solo si fosse impegnata di più.
I risultati uscirono di venerdì, me lo ricordo ancora come se fosse ieri: io avevo ricevuto tutti dieci, Emma era uscita con la media dell'otto; gli altri oscillavano tra il nove e il sei. Insomma ero stata la migliore, tanto che la maestra Francesca era venuta a casa nostra a complimentarsi con i miei: mio padre mi aveva fatto brindare con un dito di vino, mia madre invece aveva fatto un sorriso tirato, l'amara consapevolezza che ero la figlia meno simile a lei, quella che invece di immaginare una vita ovvia a sfornare pizze voleva studiare, acculturarsi e magari anche elevarsi socialmente.
Quel pomeriggio Faria ci fece i complimenti ma disse che quel giorno non potevamo fare lezione perché aveva da fare: Emma e io pensammo a una compravendita con un cliente difficile che, se fosse andata in porto, gli avrebbe fatto guadagnare un sacco di soldi.
Poi la mattina dopo, mentre facevamo colazione, ci sorprese il campanello: un suono nervoso, lungo, ripetuto più volte. Fu mio padre ad aprire la porta: era la signora Altieri.
<< Calogero, è successa una tragedia! >> esclamò, visibilmente sconvolta.
<< Che fu? >> chiese mio padre.
<< Hanno ucciso il falsario Faria! >> spiegò la donna in tono scosso.
<< Calò, si può sapere che è successo? >> intervenne mia madre, incamminandosi verso l'ingresso.
<< Una tragedia, Clè: Faria ammazzarono >> rispose mio padre.
Capendo che qualcosa era successo, Simona, Dario e io ci alzammo da tavola per ricevere spiegazioni.
<< Che è successo? >> domandò subito mia sorella.
<< Hanno ucciso Faria >> fece mia madre, e quelle sue parole mi trafissero come lame, facendomi capire tutti gli strani atteggiamenti del falsario negli ultimi tempi.
Ci ordinarono di andarcene a giocare fuori, nella parte davanti del cortile, perché il morto era sul retro e non era certo uno spettacolo a cui potessero assistere i bambini.
***
L'aveva trovato la signora Vitali mentre apriva le imposte della camera da letto, che dava appunto sul retro del cortile: stava schiantato per terra, le braccia e le gambe larghe, la testa spaccata e un lago di sangue intorno; si diceva che qualcuno l'avesse buttato di sotto e che, data l'altezza, l'impatto della caduta era stato devastante.
Si fecero coraggio gli inquilini del decimo piano, e anche la famiglia Veralli, che abitava al nono, proprio sotto l'appartamento di Faria, e tutti confermarono la stessa versione: la sera prima l'avevano sentito litigare con qualcuno - un uomo, forse un cliente - con un forte accento napoletano; la polizia non ci mise molto a capire che l'assassino era Pino O' Serpente, geloso del falsario perché aveva scoperto che questi e Lilly Marlen erano amanti da un po' di tempo, anzi erano innamorati per davvero: la povera donna, stanca delle continue vessazioni e violenze del suo protettore e compagno, aveva trovato un po' di conforto nel signor Ulisse, che, dolce e sensibile nei suoi confronti, era stato il primo uomo con lei a comportarsi come un essere umano.
Pino O' Serpente venne arrestato quasi subito, e mentre lo portavano via in manette trovò il coraggio di inveire contro Lilly Marlen.
<< Nun me pent 'e chill c'agg fatt, foss pe 'mme l'agg accir nata vota a stu strunz 'e l'omm tojo, zoccola ca nun si at! >> sbraitò mentre lo spingevano dentro la volante e lo portavano via.
Alice e sua madre osservavano la scena impassibili, quasi sollevate: Lilly Marlen sperò che gli dessero l'ergastolo.
***
E invece gli diedero solo tre anni: quando ce lo disse Alice non ci credetti.
<< Come hanno potuto dargli solo tre anni di galera? Quell'uomo di merda ha ucciso il signor Faria, gli ha spaccato la testa come una noce di cocco! >> esclamò Emma indignata.
<< E io che ci posso fare? Pino dice di avere amici potenti, talmente potenti che gli hanno accorciato la pena... >> spiegò la giovane Scorticelli, leggermente spaventata dalla reazione della mia amica.
<< Scusa, Ali. È che il signor Ulisse era amico nostro, e Pino, con l'accorciamento della pena, sembra essersi preso tutte le ragioni, come se gli avvocati pensassero che ha fatto bene ad ucciderlo... >> mi affrettai a rassicurarla.
<< Quello è un pazzo, e tutta questa storia l'hanno fatta passare come una semplice storia di corna! Una cosa simile non succede, alla gente fuori dal Quartiere... >> commentò Emma, centrando una realtà ingiusta ma lapalissiana: se la vicenda fosse accaduta ai Parioli, a Prati o a Piazza di Spagna, probabilmente avrebbero intessuto al falsario le più sdolcinate lodi post mortem; in zone come la nostra, invece, dove lo Stato non esisteva o arrivava a malapena e ognuno doveva farsi giustizia da sé, un marito o compagno tradito poteva benissimo uccidere la sua donna, il rivale o tutti e due, come se il delitto d'onore stesse ancora nell'ordinamento legislativo italiano.
Emma non entrò più nel laboratorio fino alla partenza per le vacanze estive.
***
La Strage di Via D'Amelio si verificò cinquantasette giorni dopo quella di Capaci, il 19 luglio, mentre noi Finelli eravamo già a Modica da un pezzo.
Per la seconda volta in quella stagione calda - non solo per il clima - la Sicilia tremò: il giudice Borsellino era andato a trovare sua madre, che risiedeva in Via D'Amelio, e gli uomini di Cosa Nostra avevano fatto mettere dell'esplosivo nel campanello cosicché, quando il magistrato lo suonò, saltarono in aria lui e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosino e Claudio Traina; l'unico agente superstite, Antonino Vullo, al momento dell'impatto si trovava in macchina e poté testimoniare l'accaduto.
Emma e io ne parlammo all'Incompiuta, poco dopo il rientro in città.
<< Me lo aspettavo, sai? Che Borsellino morisse uguale a Falcone >> affermò.
<< E come mai? >> chiesi.
<< Perché sono migliori amici e hanno condiviso tutto, anche la morte. La loro non era solo amicizia, era un vincolo di sangue, come se fossero fratelli. E non l'hanno spezzato, fino alla fine >> mi rispose.
Alla luce di quell'affermazione capii che, come i due giudici antimafia si erano sostenuti l'un l'altro, quand'erano in vita, anche Emma e io dovevamo fare uguale, e sentii di averle definitivamente perdonato la gelosia che mi aveva colpita, quando aveva portato Gabriele nel laboratorio pochi giorni dopo che ci eravamo fidanzati ufficialmente.
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