CAPITOLO VI

La nostra non era un'amicizia che faceva clamore: non passavano intere giornate assieme, io e la mia Anna, non stavamo attaccati come i mitili in coltura nel bacino salato della nostra città. Noi due eravamo due parti della stessa anima, pur restando ognuno aggrappato saldamente alla propria individualità.

Ci vollero diverse settimane, in alcuni casi mesi, prima di riuscire ad aprire uno dei "cassetti" della mente di Anna.

Fino a quel memorabile giorno, dovetti spezzare diverse matite - ricomprate con i miei risparmi per non dovermi giustificare con mia madre - scrivere incessantemente sulle pagine del mio diario pensieri e versi per liberarmi almeno in parte del peso dei miei tormenti.

Era il giovedì grasso di quello stesso anno scolastico, ricordo che in quella settimana in TV trasmettevano il Festival di Sanremo e per molti ragazzini come me era, insieme al Festivalbar che si teneva in estate, un momento speciale poiché i nostri genitori ci permettevano di stare in piedi fino al termine di ciascuna serata, in classe poi non si faceva che discutere delle canzoni che avevamo ascoltato la sera precedente e ognuno di noi stilava la propria classifica di gradimento - alcuni arrivavano persino ad aprire un vero e proprio giro di scommesse per quale canzone dovesse vincere la manifestazione.

Anche per strada, nei negozi, nei bar non si faceva che parlare del Festival e ciascuno s'improvvisava critico musicale o addirittura opinionista - anche se nessuno, a quell'epoca, si sarebbe sognato di andare in televisione a farsi vanto di ciò senza un'adeguata cultura di base in materia, a differenza di ciò che invece accade al giorno d'oggi in cui molti si fregiano con tanta leggerezza del titolo di opinionista.

Ero in classe dove regnava il caos più totale da quando il signor Attilio si era affacciato alla porta per avvisarci che la professoressa Martinucci era assente. Mi voltai per lanciare un'occhiata ad Anna e mi accorsi che se ne stava tutta assorta come al solito a fissare la finestra, con un velo di tristezza calato dunque gli occhi verde smeraldo.

La chiamai diverse volte prima che si voltasse verso di me. Quando lo fece vidi una lacrima scivolare lenta lungo la sua guancia pallida e in controluce scorsi persino la scia liquida che lasciava sulla pelle durante la sua caduta verso il vuoto.

«Anna!» ripetei quel nome che mi sembrò rimbalzare sul suo viso come in quelle scene di film in cui il protagonista si ritrova come isolato dal resto del mondo e tutto appare ovattato intorno a lui, vede la gente rivolgergli la parola, ma non riesce a percepire alcun rumore che sia diverso dai pensieri che lo torturano.

Anna non c'era. Qualcosa di grave la stava trascinando ancora più a fondo dell'abisso in cui già si trovava e io non potevo lasciare che ciò accadesse. Non senza aver prima provato anche l'impossibile per tirarla via da lì.

Spinsi con forza il banco in avanti che andò a scontrarsi violentemente contro la sedia vuota di Giovanni Marini e cercai di uscire dal mio posto il più velocemente possibile. Nel caos più assurdo della nostra classe mi precipitai come meglio potei verso la mia Anna. Le ruote della mia carrozzina agganciarono, nell'impeto del mio scatto, gli spallacci di almeno un paio di zaini che erano accanto ai banchi fra i quali passai per raggiungere la mia amica.

Quando arrivai finalmente da lei, mi sembrò di aver percorso chilometri di strada perché avevo le braccia che mi dolevano e le mani che bruciavano per quanto avevo stretto le ruote.

Le afferrai le mani incurante della sua reticenza nell'essere toccata da qualcuno senza il suo consenso e mi accorsi che erano gelide e tremanti.

«Parlami, Anna!» la implorai.

Lei si volse verso di me passando i suoi occhi dapprima sulle nostre mani giunte e poi sul mio viso crucciato.

«Mia madre...» proferì in un sibilo strappato ai singhiozzi.

Sgranai gli occhi come se osservandola più intensamente potessi avere il potere di fagocitare i suoi pensieri evitandole il dolore di dovermeli comunicare a voce.

Strinsi più forte la sua mano e lei rispose a quel mio ennesimo guizzo di audacia tirandola via dalla mia presa fattasi evidentemente troppo indiscreta per lei.

Sembrò quasi ricomporsi dopo quel suo attimo di debolezza in cui aveva persino accettato che la toccassi e si sistemò meglio sulla sedia schiarendosi la voce.

Mi staccai malvolentieri e solo in quel breve istante di contatto compresi quanto avessi bisogno di sentire la sua pelle morbida tra le mie dita come se un semplice tocco potesse connetterci a livello sensoriale.

«Mia madre è...» nuovamente la voce le si spezzò e vidi le lacrime riaffiorare dai bordi delle palpebre inferiori, imperlandone le ciglia lunghe e rossicce.

Sospirò, come se stesse racimolando a fatica la forza per rivelare quel fardello: « È malata e morirà come mio padre. Resterò sola, sola più di quanto non lo sia già adesso. Capisci, Fausto?» sputò fuori alzando ad ogni sillaba il suo tono di voce come se stesse cantando una scala musicale.

Dopo il primo momento di sconcerto, mi detti uno schiaffo mentale che mi riportò alla cruda realtà.

«Spiegati meglio! Sei sicura che non si possa fare nulla?» ribattei cercando di mantenere la calma.

Scosse la testa energicamente facendo ondeggiare i suoi capelli castani.

«Lo stesso mostro che ha divorato i polmoni di mio padre mi sta portando via la mia mamma e io... Io non ho nessuno, nessuno che si preoccupi della fine che potrei fare, nessuno che abbia a cuore la mia esistenza. Il dottore è stato talmente chiaro che per poco non sono svenuta davanti a lui. Io, non voglio che muoia, è l'unica persona che mi resta della mia famiglia. Nonostante tutto, le voglio bene. So che non è colpa sua se lui...» improvvisamente sgranò gli occhi fissandomi come se si fosse accorta di aver dato voce a pensieri che dovevano restar come tali solo nella sua mente.

Lessi un velo di terrore in quegli occhi verdi e la causa non era più la malattia di sua madre: compresi al volo che c'era qualcos'altro di altrettanto terrificante che la turbava per certi versi anche di più del suo dramma familiare.

Mentre la fissavo torvo e anche lievemente seccato da quel suo modo di fare - mi rendeva partecipe solo di una minima parte delle sue vicende rendendo il mio compito sempre più arduo - udii lo strascicare delle sedie sul pavimento mentre con la coda dell'occhio vidi alcuni miei compagni dirigersi velocemente ai propri posti. Il brusio che aveva preso il posto degli schiamazzi e del chiacchiericcio di cui si era riempita l'aula per un'intera ora, aveva lasciato a sua volta il posto a un inverosimile silenzio tombale.

Mi voltai di scatto verso la cattedra e notai che dietro di essa si era appena sistemata la preside.

Subito lasciai Anna per ritornare al mio posto, anche se l'impresa non fu affatto semplice poiché, nella fretta di risistemarsi ai propri banchi, i compagni avevano stretto involontariamente il passaggio tra di essi e questo mi impediva di raggiungere velocemente il mio.

Quelle parole di Anna, i suoi infiniti segreti, mi lasciarono turbato per l'intera giornata e avrei tanto voluto cercare di farmi dire da lei qualche altra informazione, ma s'era fatta scostante nei miei confronti così pensai che fosse meglio lasciarla stare.

Seduto alla scrivania della mia stanza cercai di buttar giù una sorta di schema come quelli della polizia con tutti gli indizi di cui ero a conoscenza sulla vita di Anna. A un tratto mi tornò alla mente l'uomo del Provveditorato che aveva permesso ad Anna di fare ritorno a scuola senza conseguenze sul suo curriculum scolastico.

Anna era terrorizzata dall'eventualità di restare da sola dopo la morte della madre, mi aveva detto di non avere altri parenti che potessero aiutarla e poi aveva aggiunto quella frase lasciata poi a metà su qualcuno, un uomo per la precisione, che aveva fatto qualcosa di grave e di cui la madre probabilmente era a conoscenza.

Restai con la matita a mezz'aria cercando di ricollegare tutte quelle informazioni frammentarie, ma alla fine dovetti lasciar perdere perché s'era fatta l'ora di cena e io non avevo combinato nulla per tutto il pomeriggio.

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