CAPITOLO III

Dopo l'ennesimo alterco con la professoressa Bruno di matematica, dove volarono parole forti e minacce non proprio velate, Anna ricevette un richiamo dalla preside.

Rischiò persino di essere espulsa dalla scuola, ma si presentò a prendere le sue difese - e mettere tutto a tacere - un funzionario del Provveditorato agli studi il quale intimò alla preside di sorvolare sull'accaduto promettendole - lo scoprii diverso tempo dopo - di dare una piccola “spinta” alla domanda di trasferimento nella sua città natale: Roma.

Inutile dire che la preside dovette fare a sua volta una dura opera di convincimento nei confronti della professoressa Bruno che nel frattempo era divenuta un tipo facilmente irritabile e particolarmente puntigliosa con l'educazione scolastica impartita alla povera Anna - quello doveva essere il suo modo di farsi giustizia per la sfrontatezza ricevuta dalla sua alunna.

Ma chi era quell'uomo tanto potente che si era presentato a difendere Anna? Erano parenti? Perché la madre non riusciva a rendersi conto di quei cambiamenti e perché quell'uomo che sembrava avere particolarmente a cuore la situazione di Anna non si adoperava anche per salvarla da quel suo tormento? Perché Anna appariva come un ombra che tutti vedevano ma che nessuno aveva il coraggio di toccare?

Fu allora che uscii dalla mia bolla di autocommiserazione per dedicarmi a comprendere la verità su Anna. Sapevo che non sarebbe stato facile e che, per come si presentava la situazione, dovevo essere quanto più delicato possibile, ma la cosa, stranamente, non mi spaventava, anzi mi servì a focalizzare meglio il mio obiettivo: salvare quella creatura della quale il mondo s'era scordato.

Tirai un grosso respiro e feci scorrere le mani sulle maniglie delle ruote - i miei piedi instancabili - puntando dritto verso il banco di Anna, deciso a porre fine a quella sorta di Guerra Fredda tra lei e il resto dell'umanità.

La vidi sollevare quel suo sguardo vitreo che mi perforò da parte a parte provocandomi una fitta acuta al petto. Anna si stava arrendendo a quel suo destino avverso. Negli occhi verdi c'era ancora un pizzico di quella bimba perduta che ancora restava aggrappata alla vita con una sola mano. Fu a quella bimba che mi rivolsi per scavare una breccia nel suo cuore, fattosi duro come il marmo.

«Anna!» la chiamai in un sospiro, ma subito mi schiarii la voce per apparire più forte e credibile ai suoi occhi.

«Che vuoi, mezzouomo?» rispose fissandomi dritto negli occhi quasi esasperata.

Quell'appellativo che mi aveva appena affibbiato mi lasciò senza parole per qualche istante. Non sapevo se volesse schernirmi o il suo era un poco convenzionale modo di fare un piccolo passo verso di me.

Incassai di buon grado e ripresi a perseguire il mio obiettivo.

«Ok. Meglio di storpio è sicuramente!» credo di aver sogghignato riflettendo su quel nomignolo.

Anna alzò gli occhi al cielo  cacciando fuori con forza l'aria dalle labbra.

«Beh?» insistette spazientita incrociando le braccia al petto.

Che avrei dovuto dirle? Tutto il discorso che mi ero preparato nei giorni precedenti e che più volte avevo ripetuto davanti allo specchio della mia stanzetta era improvvisamente fuggito dalla mia mente lasciandomi solo a sostenere lo sguardo tagliente di quella ragazza.

Tirai un nuovo profondo respiro e lasciai che fosse il mio cuore a prendere la parola servendosi della mia bocca.

«Anna, sappi che non sei invisibile. Non per me. Ti chiedo solo scusa per non essere in grado di aiutarti, ma… Io, ci sono! Ecco tutto» sputai fuori tutto d'un fiato col cuore fermo nel petto e in muto ascolto delle parole disegnate dalla mia lingua.

Avevo detto davvero quelle cose ad Anna? Mi chiesi subito dopo.

La mia amica sgranò gli occhi battendo più volte le palpebre come se davanti a lei si fosse improvvisamente palesato un qualche essere divino.

«Ma… Sei impazzito? Credevo fossi storpio solo nelle gambe e invece, a quanto pare...» proferì subito dopo, gelandomi.

La vidi ritornare a fissare la finestra accanto a lei e questo era per me un segnale inequivocabile: “tornatene da dove sei venuto, io so badare a me stessa.”

Beh, come primo tentativo non era andato poi così male. Era stato solo uno sfacelo.

Me ne ritornai al mio posto, ma non tutto era perduto. Non riuscivo a prendere quel primo tentativo di approccio con Anna come un totale fallimento, iniziai a vederlo come un piccolo passo verso la sua salvezza e forse la mia.

Tutto sommato fino a quel momento non le avevo mai parlato davvero, quindi ricevere da lei anche un appellativo seppur lievemente imbarazzante doveva per forza significare che nel suo subconscio anche lei mi stava comunicando, a modo suo ovviamente, che voleva essere presa per mano da me.

Tornando al mio banco sorrisi fra me per quella minuscola vittoria.

E mentre dovevo combattere ancora contro il mio corpo che a volte riusciva a farmi sentire più a disagio di quanto non lo fosse la mia menomazione, decisi che l'unico modo per non farmi catturare dal vortice della depressione per l'ignoto della mia adolescenza entro il quale viaggiavo, era quello di concentrarmi su Anna.

Qualche giorno più tardi rispetto a quella prima pseudo conversazione fra noi eravamo ancora una volta in classe ed era l'ora di ricreazione, istintivamente mi voltai verso di lei e la trovai assorta a fissare con aria disgustata un panino al prosciutto cotto e formaggio al quale Anna aveva strappato in parte il foglio di carta alluminio nel quale era avvolto.

Poi improvvisamente si portò una mano alla bocca e si alzò di scatto strisciando rumorosamente la sua sedia sul pavimento. La vidi fiondarsi fuori dalla classe diretta probabilmente verso il bagno delle ragazze.

Mi spostai dal mio banco per raggiungere la porta della classe ma fui fermato da Andrea: un ragazzetto dai capelli color del grano e due enormi occhi azzurri nascosti dietro ancor più grandi occhiali da vista neri. La pelle opalescente era tutta costellata da pustole di acne che puntavano dritte verso di me come piccoli vulcani pronti a esplodere in modo rovinoso. Ogni volta che si avvicinava a me - il che avveniva raramente, ossia quando s'era perso qualche pezzo della lezione del professore di geografia - pensavo inevitabilmente all'eventualità di risvegliarmi una mattina col volto completamente deturpato da pustole purulenti. Insomma, stavo accettando a fatica il fatto di non poter controllare significativi quanto imbarazzanti cambiamenti, figuriamoci se avrei potuto accettare di buon grado quel genere di “evoluzione”.

Andrea biascicò con la sua s sibilante qualcosa che aveva a che vedere con la lezione del giorno terminata qualche minuto prima e dopo aver ricevuto il mio quaderno con le risposte di cui aveva bisogno si allontanò finalmente da me. In quei pochi istanti in cui la mia attenzione era stata distratta, vidi Anna fare rientro in classe con un aria spaesata,confusa. Aveva la maglietta rosa confetto in parte bagnata di acqua e in parte sporca di qualcosa che aveva tutta l'aria di essere vomito. Al suo passaggio infatti tutti i compagni si scansarono voltandosi dalla parte opposta alla sua con smorfie di ribrezzo.

Subito mi precipitai da lei, ma nella foga di rigirare la carrozzina, le ruote si inchiodarono a terra facendomi volare in avanti e sbattere rovinosamente con un fianco alla sedia del banco accanto al mio. La mia caduta servì almeno a distogliere l'attenzione negativa sulla povera Anna che, nel frattempo, barcollando aveva raggiunto il suo posto.

Subito una piccola folla di ragazzini si era accalcata attorno a me, ma fu la professoressa Nardelli ad aiutarmi tirandomi su dal pavimento.

«Fausto! Stai bene?» mi chiese allarmata.

«Sto benone, grazie. Si è solo bloccata la carrozzina e sono caduto in avanti, ma nulla di grave» mi affrettai a rassicurarla, anche se avvertivo un'acuta fitta al fianco dove avevo battuto.

Ancora dolorante mi voltai verso Anna e trasecolai davanti al pallore del suo viso. Sembrava dovesse svenire da un momento all'altro, ma nonostante quel suo evidente malessere ricambiò il mio sguardo crucciato con uno molto simile alla gratitudine. I suoi occhi si erano fatti più dolci, ma sempre guardinghi.

Le sorrisi e lei incurvò leggermente all'insù gli angoli delle labbra provocando in me sensazioni strane che si andarono a sommare a tutta quella tempesta ormonale che stava mettendo sotto un tir il mio giovane corpo da bambino in crescita forzata.

Quel pomeriggio, quando uscimmo da scuola avevo percorso solo un breve tratto della solita strada che mi riportava a casa quando sentii alle spalle urlare il mio nome. Bloccai le ruote per voltarmi e vedere chi mi stesse chiamando e la vidi. Anna correva verso di me con lo zaino liso e mezzo aperto a causa della cerniera rotta sulle spalle e parte dei libri tra le esili braccia. La vidi avvicinarsi sempre di più e il mio cuore iniziò a tamburrellare nel mio petto ad ogni colpo che lei batteva con i piedi sull'asfalto.

«FAUSTO!» disse col fiato corto che si strozzò in gola a causa della bolla di saliva formatasi durante la corsa. Quando mi raggiunse si accartocciò su sé stessa tenendosi alle ginocchia  e respirando a bocca spalancata.

«Ehi!» proferii preoccupato.

Anna alzò la testa e si mise a fissarmi come se volesse parlarmi attraverso gli occhi senza essere costretta ad aprire bocca. Probabilmente pensava che se non avesse udito il suono delle sue parole forse l'inferno che si portava dentro non sarebbe stato poi così reale.

«Anna, parlami. Non posso fare molto per te, ma posso offrirti la mia amicizia e la mia lealtà» le dissi sperando di convincerla a fidarsi di me.

Indugiò qualche altro istante sulla mia bocca poi distolse lo sguardo come rassegnata. Scosse la testa facendo ondeggiare quel lucido manto corvino che le sfiorava le spalle e poi strizzò forte gli occhi come se si stesse ammonendo mentalmente. Sospirò, aprì lentamente gli occhi e si mise retta davanti a me, ristabilendo le giuste proporzioni: io seduto con la testa che le arrivava sotto l'incavo del braccio e lei in piedi.

Si morse fortissimo il labbro inferiore che subito prese a sanguinare tingendole lievemente gli incisivi di rosa.

«Se vorrai essere mio amico per me sarà più che sufficiente. Nessuno vuole avere a che fare con me se non per ...» si bloccò irrigidendosi.

Istintivamente allungai la mia mano per afferrare la sua e farle sentire che da quel momento non era più da sola a portare quel suo fardello, di qualunque cosa si trattasse - purtroppo, poco più tardi, capii mestamente, che il suo “segreto” era difficile da sopportare a prescindere e quella consapevolezza mi distrusse ogni giorno di più.

Sfuggì alla mia presa, guardandomi terrorizzata: non voleva essere toccata, non era abituata a ricevere attenzioni disinteressate. Quella mia audacia mi costò la fuga di Anna che vidi improvvisamente correre via da me come se avesse appena avuto un contatto col diavolo in persona. Restai lì, a fissare Anna che fuggiva senza voltarsi, spaventata, ancora più confusa. Temetti di averla persa per sempre e fino al giorno seguente non riuscii a farmene una ragione tanto da restarmene chiuso in camera mia senza mangiare fino alla mattina successiva.

«Mi vuoi dire che ti è successo?» chiese mia madre durante la colazione.

Il suo sguardo indagatore, gli occhi ridotti a fessura, le labbra strette, i capelli arruffati, il pigiama di cotone verde come gli occhi di Anna…

Ogni cosa mi rimandava a lei, ogni mio pensiero veniva convogliato da un immaginario capostazione verso quel binario cieco che sembrava non portare da nessuna parte. Ogni piccolo passo verso quella ragazza veniva annullato ogni dannata volta da un mio piccolo gesto concepito con la migliore delle intenzioni, ma da lei travisato.

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