CAPITOLO I

Credo che scriverò di quella prima volta, quella meravigliosa e dannata volta in cui le nostre strade si sono incontrate.

Sì, era un giorno di merda come tanti altri, me lo ricordo benissimo, sento ancora l'odore acre della pioggia che a contatto con l'asfalto caldo evaporava. L'afa non si spegneva nemmeno con quella tenue pioggerellina e penetrava nella mente fino quasi a stordire.  

La mia unica colpa era stata quella di essermi “innamorato” della persona sbagliata - la prima di una lunga serie -, ma tu eri lì e quella fu la prima volta - la prima di una lunga serie.

A dodici anni l'amore è un pensiero fugace che attraversa la mente tra un gioco e l'altro, può diventare sogno o incantesimo, salvo poi trasformarsi in pura follia quando si diventa adulti. Per me era un bellissimo sogno a occhi aperti, un sogno che nasceva e moriva lì tra quei banchi di scuola, tra le pareti scrostate della classe.

Anna, mi trema la mano quando parlo di te e di quello che abbiamo passato assieme.
Anna, figlia della guerra, la mia regina spartana, col fuoco nelle vene e i nervi sempre tesi, sull'attenti.
Ti hanno chiamata in tutti i modi più vergognosi e offensivi per colpa mia, perché eri sempre pronta a difendermi dal mondo intero.
Cosa potevo darti? Come può restituire il favore un povero storpio come me. Senza la forza delle gambe, come avrei potuto proteggerti dal male, come?
Ma tu mi ripetevi che Dio ti aveva posta sulla mia strada per aiutarmi ed essermi di sostegno finché non avessi compreso che la vera forza non risiede negli arti di un uomo, ma nella determinatezza del suo pensiero.

Faceva caldo quel pomeriggio di fine maggio, qualche piccola pozzanghera si nascondeva timidamente negli angoli sotto i marciapiedi, pronta ad asciugarsi nel giro di pochi istanti come il resto delle strade.  L'acquazzone di poco prima non aveva fatto altro che dare un odore più forte all'afa di quel giorno e regalare un tenue quanto fulmineo arcobaleno che non fece in tempo ad apparire nel cielo che già s'era dissolto. Un gruppetto di ragazzi della terza media mi aveva atteso all'uscita di scuola in una viuzza che attraversavo tutti i giorni per tornare a casa.

Mamma era orgogliosa del fatto che non volessi l'aiuto di nessuno per tornare a casa, ma al mio arrivo la ritrovavo sempre col viso tirato e gli occhi gonfi di lacrime.

«Mamma, non devi preoccuparti per me. Me la so cavare benissimo da solo, sono paraplegico non idiota! Abitiamo a duecento metri dalla scuola, cosa vuoi che mi succeda? Conosco la strada talmente bene che potrei andare a occhi chiusi», le dicevo tutte le volte e poi lei mi abbracciava e mi baciava.

Ma quel giorno i peggiori timori di mia madre avevano preso la più terribile delle forme e forse, a fare più male fu proprio il vedersi concretizzare di quelle paure piuttosto che gli spunti, le minacce o le percosse di quei quattro bulletti.

«Eccolo!» udii uno dei quattro avvisare, con voce sommessa i suoi compagni, non appena ebbi imboccato quella dannata via.

Quella strada, che mi era sempre stata amica, con i suoi alberi verdeggianti a offrirmi riparo in quelle giornate in cui alle due del pomeriggio il sole picchiava più violento, coi suoi palazzotti tutti bianchi e uguali di soli tre piani e senza balconi costruiti durante la Seconda Guerra Mondiale,  di colpo si era trasformata nel mio miglio verde.

Mi avvicinai più lentamente del solito stringendo fra le mani inguantate i bordi d'acciaio delle ruote della mia carrozzina.

Cercai di mantenere la calma ed elaborare un modo efficace per levarmi da quella situazione il più velocemente possibile. Avvertivo l'adrenalina fluire veloce nelle mie vene fino a farmi girare la testa, il sudore figlio della paura si mischiò a quello dovuto al calore del sole, improvvisamente non avvertivo più la pesantezza dei quasi trentacinque gradi sulla mia pelle, perché avevo i peli ritti per i brividi di freddo.

In breve realizzai che non v'era soluzione a meno di non riuscire a trasformarmi in un supereroe e volare via da lì. Benché riuscissi a correre parecchio con la mia carrozzina non sarei mai riuscito a seminare quei ragazzini.

Li vidi venirmi incontro e infine accerchiarmi. Il più alto dei quattro, un certo Edoardo, detto l'Irlandese - per via della sua capigliatura rossiccia e le innumerevoli efelidi di cui era coperta la pelle del suo viso - fu il primo ad avvicinarsi a me col suo ghigno malefico che scopriva parte della dentatura ferrata dall'apparecchio ortodontico che portava.

«Ehi, storpio, lo sai che un uccellino», quelle parole suscitarono subito sghignazzamenti anche nei suoi compagni - perfide iene pronte a sbranarmi -, «mi ha riferito che hai messo gli occhi sulla mia ragazza?!»

A quell'accusa tanto infondata mossa nei miei confronti non potei che ribattere con veemenza. Atteggiamento che mi costò un primo ceffone in pieno volto dal Criceto - un tizio bassotto e tarchiatello dall'andatura incerta e due enormi incisivi che rubavano la visuale a tutto il resto della sua bocca.

Quel gesto mosse l'orgoglio di tutti e quattro i ragazzotti che si strinsero ulteriormente intorno a me.

Ci volle un attimo per capire che da quella situazione ne sarei uscito con parecchi segni addosso. Mi muovevano accuse campate in aria per il solo gusto di avere un pretesto per darmele di santa ragione.

L'interrogatorio, che pareva sullo stile di quelli delle SS naziste, proseguì per un tempo che mi sembrò infinito in cui quei quattro bulletti mi schernirono senza ritegno strattonandomi e percuotendomi. Provai a difendermi urlando la mia innocenza, ma né loro si fermarono a quelle mie suppliche né intervenne alcuno per fermarli, anzi, tutti gli altri compagni si tennero ben alla larga da noi, cambiando strada.

Stavano per avere la meglio su di me che accartocciato su me stesso, cercavo di ripararmi dalle botte comprendo la testa con le mani, quando udii una voce femminile profonda e dell'inflessione lievemente mascolina: «Lasciatelo perdere immediatamente o vi impedirò di mettere al mondo dei figli per tutti i calci che vi darò!» ingiunse.

Restai raggomitolato per qualche altro istante con il mento puntato nel petto e le mani come unica protezione. Sentii dei passi avvicinarsi al mio fianco e voltai lievemente il capo, senza liberarmi dal mio scudo, per scoprire l'identità di quella salvatrice inaspettata.

«Toh! Lo storpio ha un'amichetta che lo difende. Peccato per entrambi, siete una coppia davvero pietosa e mal assortita! Tu, ragazzina, sei davvero carina, non dovresti perdere del tempo con un handicappato», disse l'Irlandese ammiccando.

«Siete voi quattro a fare pena. Dovreste essere dei bulli, per caso? Avete più l'aria di quattro galline spennate. Sapete perché fate paura? Perché siete in quattro con gambe sane e forti contro un povero disgraziato che non può prendervi a calci nel culo come meritereste, ma credetemi, anche in quel caso non ne varrebbe la pena perché avrete pure la forza negli arti dalla vostra, ma non quella della mente. A cosa vi sarà servita la forza dei pugni o dei calci se non saprete stare al mondo. Siete più storpi voi quattro di lui!» ringhiò la ragazza.

Riuscii a scorgere un'esile figura di poco più alta di me che ero seduto e sicuramente di molto più piccina rispetto al più basso di quei ragazzini, ma questo non sembrava costituire un freno al suo ardore.

In quel momento sopraggiunse tutto trafelato il signor Attilio, il bidello della nostra scuola, che con passo svelto e lievemente claudicante si dirigeva verso la fermata dell'autobus che lo avrebbe riportato al suo paesino. Quando l'uomo si rese conto di quel che stava accadendo non si fece scrupoli a frapporsi tra me e i bulletti.

«Che state facendo? Il sole vi ha fuso il cervello, per caso? Tornatevene a casa immediatamente, prima che avverta i vostri genitori!» ingiunse rivolto al quartetto con quella sua voce gracchiante da fumatore incallito qual era, brandendo l’ombrello rosso a quadroni blu che aveva in mano come fosse una spada.

Nel frattempo, avevo uscito la testa dal mio riparo e osservavo tremante di paura, tutta la scena come muto spettatore. Davanti a me potei vedere il signor Attilio col suo fisico segaligno coperto da una camicia bianca a righe azzurre con le maniche corte e jeans consumati e abbondanti. Da dietro sembrava un fascio di nervi col suo collo tirato e rugoso e la nuca canuta - se avesse avuto a disposizione una spranga o una forca, al posto di quel semplice ombrello sarebbe sembrato uno di quei contadini della rivoluzione francese che si vedono nei dipinti.

I quattro bulli se la diedero a gambe sparpagliandosi per la via. Attilio aveva ancora i pugni serrati e i gomiti puntati verso di me, rigido come una statua, mentre osservava quei vigliacchi fuggire come conigli.

«Va tutto bene?» sibilò ancora quella voce alla mia destra.

M'ero scordato di lei : la prima condottiera, il primo angelo giunto a salvarmi. Finalmente potevo osservare ogni suo particolare.

Era poco più di una bambina: una lunga coda di cavallo raccoglieva i capelli castani e indossava una t-shirt bianca striminzita con un paio di leggins blu più piccoli di almeno una taglia che le lasciavano scoperti caviglie e parte dei polpacci.

Mi soffermai su quelle braccia esili piene di graffi e lividi e poi risalii al viso che aveva la forma di una goccia con la punta a fare da mento. Aveva le labbra screpolate e secche come quelle di un povero disgraziato che s'è perso nel deserto. Gli occhi erano verdi e vispi, pieni di vita e fuoco.

«Allora? T’hanno morsicato la lingua?» insistette caustica riportandomi alla realtà.

«Sto bene. Grazie per avermi salvato.  Stavo per cantargliene quattro ma poi sei intervenuta tu e ...» dissi cercando di smuovere il mio orgoglio e non sembrare più vile di quei ragazzotti.

Lei si mantenne la bocca con la mano per fermare una risata sul punto di esplodere.

«Oh, ne sono certa! Sei un tipo tosto, tu. Quei quattro babbuini ti minacciano con la violenza fisica perché non possono contrastare in alcun modo la tua intelligenza.»

Sbattei le palpebre più volte per cercare di mettere meglio a fuoco quella piccola guerriera che avevo davanti, ma i raggi del sole insidiavano la mia vista, così che fui costretto a mettermi una mano di taglio appena sopra l'arcata sopraccigliare per farmi un po’ d'ombra.

Nel frattempo, il signor Attilio, assicuratosi di aver messo in fuga quei teppistelli, si era avvicinato anche lui.

«Fausto! Ma che volevano quelli?» mi chiese preoccupato, col viso stropicciato dalla vecchiaia, gli occhi azzurri ancora vigili, la bocca arricciata un po’ per le rughe e un po’ per il cruccio di avermi dovuto tirar fuori da quel piccolo inferno.

Solo allora mi accorsi che la mano sinistra dell'uomo tremava lievemente e, quand'egli s'accorse del mio indugiare con lo sguardo su di essa, la ritrasse immediatamente cacciandola nella tasca dei jeans sdruciti.

«Stai bene?» mi chiese ancora.

Annuii col capo.

«Bene, allora io vado che l'autobus sta per passare!» aggiunse affrettandosi a ritornare per la sua strada.

«Grazie Attilio!» gli urlai alle spalle mentre spariva per la via alberata.

Pieno d'imbarazzo mi voltai verso la mia salvatrice e mi accorsi che s'era dissolta come l'aria e io non me n'ero nemmeno accorto.

Subito un lampo di preoccupazione mi attraversò la mente pensando  a mia madre, così impugnai i sostegni delle ruote posteriori e iniziai a correre come un forsennato verso casa.

Alla fine degli anni ottanta non c'era ancora tutta la tecnologia di oggi per cui mia madre non aveva altro modo per contattarmi se non quello di venirmi incontro ripercorrendo la strada che da casa mia portava alla scuola - l'unica che entrambi avevamo ritenuto abbastanza sicura per me visto che era poco trafficata dalle macchine.

A un tratto me la vidi arrivare di fronte, in pantofole, col grembiule ancora allacciato in vita, i capelli raccolti in una crocchia e il viso contrito con gli occhi rossi e gonfi. Che Dio non me ne voglia e lungi da me il voler apparire blasfemo, ma a vederla tutta sconvolta ed emaciata, pareva la Madonna uscita di notte a cercare il proprio Figlio fatto prigioniero dalle guardie di Caifa.

Quell'immagine mi resterà per sempre nella mente perché di tutte le volte che ho visto mia madre piangere per me, quella fu di gran lunga quella che mi ha più sconvolto, facendomi sentire terribilmente in colpa.

«FAUSTO! FAUSTO!» gridò mia madre mentre incespicando nei suoi stessi piedi arrancava verso di me.

Dopo un primo istante di vergognosa esitazione aumentai la velocità della mia corsa tanto che sentii i palmi delle mani bruciarmi.

Vidi mia mamma cadere in ginocchio davanti a me e aggrapparsi alle mie gambe scoppiando in un pianto straziante e ininterrotto.

«Perdonami mammina!» riuscii a proferire in un sibilo che quasi mi si strozzò in gola.

Non avevo il coraggio di toccarla, non mi sentivo degno. Ero una delusione e una preoccupazione costante per quella povera donna che per me s'era dimenticata di sé stessa, mettendo da parte anche una carriera brillante come responsabile amministrativa in una concessionaria di auto. Rimasta vedova troppo presto aveva votato la sua esistenza al mio accudimento.

Si staccò da me per controllare che il suo bambino stesse bene e fosse integro, poi si rimise in piedi spolverando via dalle ginocchia nude la brecciolina che s’era conficcata nelle sue carni sottili.

Me ne rimasi con lo sguardo fisso sulle mie gambe inermi mentre un fiume di pensieri mi attraversava la mente.

«Fausto! Ma che hai fatto?» domandò fissandomi improvvisamente come inorridita dalla vista di qualcosa in me che la turbava particolarmente.

Trasecolai.

«Che hai sulla faccia? Sono lividi quelli?» insistette afferrandomi il viso con due dita e voltandolo verso destra per permetterle di verificare meglio la gravità delle lesioni sulla mia faccia, «Santa Vergine Benedetta! Ma sono davvero lividi! Chi? Chi ti ha fatto questo?»

Vidi lo sguardo di mia madre  trasformarsi da angosciato a turbato e infine furente.

«Non ti preoccupare, mamma. È stato solo uno scambio di persona», cercai di biascicare qualche scusa plausibile, ma senza sortire l'effetto desiderato poiché vidi mia madre divenire rigida come una statua e serrare i pugni lungo i fianchi.

Riuscii a sentire lo stridore dei suoi denti sotto la pressione della mascella contratta. Era furibonda e pur sapendo che non ero io il destinatario di tutta quella rabbia, mi sentivo ugualmente a disagio.

«Chi?» mi sollecitò ulteriormente.

«Sto bene, mamma! Non accadrà più!» continuai sperando di sedare la sua ira.

«Come fai a sapere che non accadrà nuovamente? Fausto, tu sei un bambino molto intelligente, so che non ti metteresti mai in situazioni pericolose, ma c'è gente cattiva che non si fa scrupoli ad attaccarti nel tuo punto debole. Tu non puoi sempre difenderti con la sola lingua, non basta, lo capisci? Devi dirmi chi ti ha procurato questi lividi perché va punito!» asserì con un tono più pacato.

Scossi il capo per farle intendere che non ero capace di fare la spia anche se ne valeva della mia vita, ma lei insistette finché non fui costretto a raccontarle la verità.

Inutile dire che il giorno seguente, mia madre mi accompagnò davanti a scuola costringendomi a identificare in sua presenza i miei aggressori.

Quando li ebbe individuati partì alla carica e li trascinò tutti e quattro, mentre si lagnavano senza ritegno, dalla direttrice.

Quest'ultima, alla luce del fatto che né io né la mia famiglia avessimo mai voluto approfittare  del mio handicap per ottenere un qualche privilegio immeritato, nonché della mia buona condotta che cozzava violentemente contro quella dei quattro bulli, non poté fare altro che ammonire gli aggressori allontanandoli dalle lezioni per due settimane e richiamando i genitori di ognuno.

Non nego che in un primo istante quella punizione non mi sembrò di sufficiente monito per quegli scansafatiche, ma a giudicare dai volti dei loro genitori quando uscirono dall’ufficio della direttrice potei solo immaginare la ben più dura pena che  sarebbe spettata loro una volta tornati alle loro case.

Quando vidi portar via l'Irlandese, il Criceto, il Burbero e Dumbo come fossero galeotti, sentii il petto gonfio di felicità, sentimento che si dissolse alla velocità della luce poiché non ero mai stato un tipo che dileggia gli altri o che si gongola spudoratamente dinanzi alle disgrazie altrui. E sì che quei quattro mascalzoni avevano usato violenza anche su bambini più piccoli di me e che la loro fama di delinquentelli li precedeva come la loro stessa ombra, ma non riuscivo comunque a smettere di pensare ai volti pieni di sdegno e ira dei loro genitori.

Me ne ritornai moggio nella mia classe e, inaspettatamente fui accolto con gran clamore dai miei compagni che si complimentarono con me per aver sistemato la faccenda con quei quattro.

Erano tutti eccitati come se improvvisamente fossi divenuto una sorta di supereroe che aveva assicurato alla giustizia una banda di malfattori. Tutti erano intorno a me e mi riempivano di abbracci mentre altri mi domandavano informazioni più dettagliate, magari arricchite di qualche particolare più cruento, ma una sola se ne restò tutto il tempo dei miei momenti di gloria nascosta in un angolo della classe, immobile al proprio banco a fissare la finestra che dava nel cortile della scuola: Anna, la mia piccola guerriera.

Fu in quel momento che realizzai quanto immeritati fossero quegli onori rivolti a me che non avevo fatto altro che nascondermi tra le mie stesse braccia per poi fuggire a raccontare tutto a mia madre.

Anna, si era schierata dalla mia parte da sola, non pensava che sarebbe accorso in suo sostegno anche il signor Attilio, eppure non si era spaventata davanti a quei quattro.

Per un intero anno scolastico, il primo per lei in quella scuola, se ne era rimasta in quell'angolo lontana dai clamori. Non aveva cercato l'amicizia delle altre bambine né quella dei maschietti, ma si era limitata a starsene al suo posto come se fosse in attesa di qualcosa. Quel giorno capii che la sua non era indolenza o apatia nei confronti degli altri, lei osservava tutti attentamente assimilando di ognuno quante più informazioni possibili, come se ci avesse in qualche modo schedati.

Lasciai tutti i miei compagni a fantasticare sulle mie gesta e mi avvicinai al mio banco che era due file più avanti rispetto a quello di Anna. Indugiai qualche istante poi tirai dritto verso di lei che improvvisamente si voltò a guardarmi con aria contrariata.

«Cosa vuoi?» bofonchiò.

«Volevo… Volevo ringraziarti» sibilai.

«Ok! Puoi tornatene al tuo posto ora», mi congedò tornando a fissare il vuoto oltre quella finestra che aveva accanto.

Chinai il capo deluso da quell'atteggiamento tanto scontroso e me ne ritornai al mio banco.

Anna guardava spesso fuori dalla finestra della classe quando era certa che nessuno la osservasse - nessuno tranne me.

Sembrava perdersi nell'aria, dissolversi e diventare nuvola o forse osservava la danza delle rondini che svolazzavano libere nel cielo terso all'approssimarsi della bella stagione.

Era una mente brillante, un autentico genio che non voleva ritrovarsi sotto i riflettori e per questo se ne restava in disparte.

Nei giorni successivi che prevedevano il termine delle lezioni, la vidi sempre più triste e irrequieta a differenza di tutti noi altri che non vedevamo l'ora di poterci dedicare finalmente ai nostri giochi.

Appariva insofferente come se l'approssimarsi della conclusione dell'anno scolastico coincidesse con il sopraggiungere di una qualche punizione divina rivolta a lei.

Due giorni prima del saggio di fine anno avvenne qualcosa di inaspettato che mi sconvolse al punto da non farmi più pensare alla mia menomazione.

Anna svenne davanti agli occhi di tutti i nostri compagni. Tutti pensarono a un colpo di calore, viste le temperature equatoriali alle quali arrivava il clima della classe esposta per un'intera mattinata al sole. La professoressa Catania, di educazione fisica, divenne pallida come un lenzuolo quando si vide quella ragazzina accasciarsi a terra davanti ai suoi occhi.

Nessuno si era accorto che Anna non faceva mai colazione, che riponeva la sua crostatina al cioccolato intonsa nello zaino, al termine della pausa merenda.

Non mangiava e probabilmente dormiva poco a giudicare dai solchi blu sotto gli occhi che sgraziavano quel viso da bambola di porcellana.

Quando la professoressa la raccolse da terra per portarla in infermeria, non si aspettava un peso tanto esiguo, pari a una decina di rametti di legno. Nel sollevarla, parte del costato di Anna si scoprì facendo spuntare una grossa macchia verdognola all'altezza del fegato di cui solo io mi accorsi.

Anna non mangiava. Anna veniva picchiata da qualcuno ripetutamente. Anna poteva morire e nessuno se ne era mai accorto. Anna era sola. Anna fissava la finestra invidiando la libertà delle rondini. Anna soffriva. Anna era intelligente. Anna era buona. Anna aveva paura della fine della scuola perché significava dare più tempo al suo aguzzino per torturarla ancora e ancora.

Strinsi forte la matita che avevo tra le mani fino a spezzarla in due mentre una rabbia mai provata fino a quel momento risaliva dallo stomaco fino alla bocca e poi infestava il mio cervello come la peste.

Anche quando rinvenne Anna cercò con tutte le sue forze di giustificare quel suo malessere e i lividi adducendo il fatto che soffriva di una lieve forma di anemia e che spesso si ritrovava a fare giochi da maschiaccio con un suo amico vicino di casa.

La scuola terminò e Anna sembrò dileguarsi: non ebbi sue notizie fino ai primi di ottobre, quando le lezioni ripresero.

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