Capitolo 8 - non sono un'eroina
I figli di Maat si erano riorganizzati, chiudendosi attorno alla fucina del fabbro. Fuori c'erano diversi cadaveri, testimoni della scia di morte che Atoldir si era lasciato alle spalle. Alcuni abitanti pestavano senza farci molto caso i corpi dei loro compagni. Nonostante avessero occhi spenti e inespressivi, non sembravano contenti. Qualcuno appoggiò la mano al muro della casa, tentando di bruciare il cemento. Uscire dalla porta d'ingresso era fuori discussione.
Mi precipitai verso l'unico altro uscio disponibile: quello che avevo dedotto conducesse all'abitazione. Appena lo aprii, vidi i corpi di due persone riversi a terra. Li scansai dal passaggio, sperando fossero morti del tutto. Vi era un'ampia stanza da notte, con un letto matrimoniale e uno singolo, armadi, cassettiere e una scrivania. Un'altra porta, spalancata, si apriva su una specie di bagno, molto più rudimentale di quelli di Lloyd, con semplici catini e spugne marroni.
La finestra della camera era bloccata, probabilmente rotta o sfasciata dall'esterno. Flick si diresse in bagno e dopo un attimo ci chiamò: «Qui la finestra si apre, ma non so se voi due ci passate!»
Forse, facendomi piccola piccola, avrei potuto uscire da lì, ma Atoldir decisamente no.
Sentimmo un tonfo provenire dalla fucina.
«Stanno per sfondarla» ci informò il figlio di Feria, che era rimasto a bloccare la porta d'ingresso con la sua mole. La sua voce così apatica, in un momento tensivo come quello, mi portò a chiedermi se avesse inteso la gravità di quello che stava succedendo. Io tremavo da capo a piedi.
«Vieni di qua! Rovesciamo l'armadio e blocchiamo quest'altra porta!»
Ci raggiunse negli alloggi, si sbatté l'uscio alle spalle e corse dove ero io, dietro a uno degli armadi. Lo spostammo a ridosso dell'ingresso, così da bloccarlo. Mi passai una mano sulla fronte sudata, accorgendomi solo dopo di aver usato quella ferita. Probabilmente avevo un bel segno rosso spalmato sulla faccia.
Ci dirigemmo verso la finestra e Atoldir impugnò l'ascia. Con un colpo assordante, ne distrusse il vetro per permetterci di uscire. Unico problema: il rumore probabilmente avrebbe attirato l'attenzione dei nostri assedianti. Io e Atoldir saltammo fuori, ma Flick rimase indietro.
«Non ci arrivo! Maledetti figli di Maat e la loro altezza!» esclamò, mentre noi da sotto vedevamo solo le sue manine bruciacchiate che sfioravano il davanzale.
«Andiamocene, prima che arrivino» mi disse il figlio di Feria a bassa voce, lanciando un'occhiata ai lati della casa.
Per mia fortuna, non fui costretta a rispondergli, perché Flick si era ingegnato: si stava arrampicando sulla tenda sgualcita della finestra.
«Mi prendete?» domandò una volta arrivato in piedi sul davanzale, credo più rivolto a me. Poi saltò giù, tra le nostre braccia incrociate.
Senza metterci d'accordo, corremmo verso il centro della Roccaforte, dalla parte opposta da cui eravamo stati attaccati. Ci nascondemmo dietro a una casetta ancora intatta per riprendere fiato.
Tesi le orecchie per anticipare eventuali passi del nemico mentre analizzavo i miei compagni: Atoldir pareva esausto, i capelli biondi inizialmente ben pettinati erano ora tutti sparati e scompigliati, il viso fresco e curato era stato sostituito da una maschera di sudore e polvere, ma sembrava comunque stare bene; Flick, invece, dava l'impressione di essere sull'orlo di una crisi isterica. Le ferite profonde sanguinavano, ogni parte del suo corpo tremava, paura e dolore erano dipinte sul suo volto. Stramazzò a terra, respirando convulsamente come se gli mancasse l'aria. Non poteva continuare, doveva per forza tornare indietro alla carrozza dove erano stipate le pozioni curative.
Mi chiesi come facesse Atoldir a essere così impassibile. I figli di Feria sono tra i più bellicosi, certo, ma un conto è esserlo nella teoria, chiusi nel castello di Lloyd e avere combattimenti corpo a corpo con altri promettenti soldati; un altro conto è trovarsi sul campo. Reggeva la tensione in maniera sopraffina.
Non riposammo neanche qualche secondo che rumori molesti provenienti dalla casa del fabbro ci fecero sobbalzare. Dovevamo agire in fretta.
«Atoldir, devi riportare Flick fuori dalla Roccaforte. Sento che stanno arrivando» comandai.
«Perché io?» si adirò l'uomo.
«Perché da solo non può farcela, fatica a stare in piedi. Io non riuscirei a portarlo in braccio fino al nostro accampamento; in più, anche tu non hai un aspetto sano. Dovete farvi medicare.»
«E tu? Dove andrai?» mi chiese Flick tra un affanno e l'altro, tirandosi a sedere. Sembrò seriamente preoccupato, come se gli importasse di me. In qualche modo, mi si scaldò il cuore a quel pensiero.
«Andrò avanti da sola, cercherò di scoprire cosa ha provocato questo scempio. Muoviamoci, sono vicini! Li distrarrò io, così potrete fuggire indisturbati.» Cercai di sembrare calma e impassibile, ma non mi riuscì granché.
«E se dovessi aver bisogno di aiuto?» si informò ancora Flick, mentre Atoldir si piegava per farlo salire in spalla.
Mi mostrai sicura e convinta. «Ne dubito, ma nel caso vi segnalerò la mia posizione con una freccia esplosiva.»
«Freccia esplosiva?» il figlio di Feria si bloccò per un momento. Sembrò colpito, ma dopo un attimo si ricompose, come se si fosse ricordato di dover stare sull'attenti.
«Fidati, se sarà necessario la vedrete. Ora corri!»
Detto questo, senza stare troppo a riflettere per evitare ripensamenti, mi gettai in mezzo alla strada, agitando le braccia e urlando: «Ehi, voi! È me che cercate? Venite a prendermi!»
E corsi a perdifiato.
Buona notizia: tutti gli zombie che vidi caddero nella mia trappola e mi seguirono; notizia cattiva: un'orda di pazzi infuocati mi stava alle calcagna.
Ero indubbiamente più veloce di loro, ma anche più spaesata e stanca. Non ero mai stata a Fendiroccia, per cui mi mossi soltanto studiando la pendenza del suolo: il centro della città era nel punto più alto, ed era lì che ero diretta. Quando intravidi un palazzo più grande degli altri, non persi tempo ad analizzarlo. Doveva trattarsi del palazzo reale.
Non riuscii a individuarne i dettagli, l'unica cosa che notai e seguii fu l'ombra che proiettava sul terreno, per via delle sue alte torri alle cui spalle splendeva il sole di tardo pomeriggio. Non sapevo cosa avrei fatto, una volta giunta ai suoi piedi; non vi erano porte chiuse o fossati, chiunque poteva entrare senza intralcio. Tuttavia, mi sarei ingabbiata da sola se i paesani mi avessero seguita. Magari ne avrei trovati anche altri all'interno. Così, decisi di girarvi attorno, sperando di trovare qualcosa di utile.
Proprio sotto alle mura del castello vi era la zona del mercato, completamente diroccata. Dovetti saltare carretti di legno, ripiani da lavoro per fabbri, incudini abbandonate per terra, girare attorno a mangiatoie per animali e tende per ripararsi dal sole. Quasi tutto era stato portato via o carbonizzato; i cesti erano vuoti, le carni appese andate a male, le armi spezzate.
Quando raggiunsi le mura, la fatica si fece sentire pesante come il piombo. Mi appoggiai alla parete, sudata dalla testa ai piedi, con le gambe che faticavano a reggermi come se qualcuno mi ci avesse legato due macigni. Le ginocchia mi tremarono, ma cercai di rimanere lucida e non pensare al caldo afoso che mi pizzicava la pelle umida.
Mi concentrai sul mio udito: sentii ovviamente le urla dei miei inseguitori e i loro passi pesanti, ma indirizzai la mia attenzione su ciò che avveniva dentro al castello; anche qui, i lamenti di persone sofferenti erano numerosi, anche se molti di meno in confronto alla città bassa. Dopo qualche secondo, o forse addirittura qualche minuto, una voce attirò la mia attenzione. Era dolce e decisa allo stesso tempo, ma soprattutto era umana. Faticai a decifrare le sue parole, sovrastate dai pianti incessanti.
«Devo fuggire... ma prima...» e poi altre parole senza apparente senso, simili a una melodia.
Con la coda dell'occhio, notai gli zombie che iniziavano ad affollarsi nella zona del mercato, o almeno di quanto ne restava. Con il cuore che batteva a più non posso, strisciai lungo la parete dell'alto muro il più velocemente possibile.
«Lei non deve morire!» urlò la stessa donna, a metà tra l'esausto e il furioso. Strizzai gli occhi per mandar via una goccia di sudore dalle ciglia, e rivolsi lo sguardo indietro per controllare.
Mi riconcentrai su ciò che sentivo, ma non riuscii più a individuare la voce muliebre che avevo udito poco prima. In compenso, udii lo scalpiccio e il nitrito di almeno due o tre cavalli, seguiti dal rumore di ruote sull'asfalto.
Mi mossi in quella direzione, un po' perché era dalla parte opposta rispetto agli zombie, un po' sperando in qualcuno che potesse aiutarmi. Qualcuno sano di mente, se possibile.
Percorsi tutto il perimetro del muro fino al retro del castello, dove da un'uscita secondaria partiva una strada acciottolata che probabilmente conduceva a un'altra apertura nelle mura di Fendiroccia. Sul viottolo, una carrozza non molto grande e poco appariscente si allontanava indisturbata.
Su quella carrozza doveva esserci qualcuno che avrebbe potuto darmi delle risposte. O, perlomeno, qualcuno ancora abbastanza in sé da decidere di darsela a gambe da quella città immersa in un'apocalisse zombie.
Feci per inseguirla, ma una voce familiare mi bloccò.
«Aiuto...»
Girai su me stessa, non sapendo bene dove guardare. Le mie orecchie erano frastornate da tutti i rumori della città, dagli schiamazzi e dai pianti. L'uscita secondaria del castello era un arco a ogiva di pietre di colore scuro, larga forse tre metri, con un'inferriata in quel momento alzata ma che evidentemente poteva essere abbassata per bloccare l'ingresso. Oltre la porta, cioè all'interno delle mura, giaceva Pin, disteso a terra con una mano protesa verso di me, il volto rosso scuro insolito per un abitante di Euphanor.
Il mio primo pensiero, anziché essere "devo correre a salvarlo!" come avrebbe meditato un onorevole guerriero, fu: "come diavolo è arrivato fin qui?". Era scappato alla vista degli zombie, ma non si era mosso verso la città alta.
Non sapevo cosa fare. Aiutare il mio compagno o rincorrere la carrozza?
In quello che mi parve un attimo interminabile, ponderai entrambe le opzioni. Abbandonare Pin avrebbe significato probabilmente condannarlo a morte, considerato che non pareva in condizioni di scappare o combattere; girando la medaglia, tuttavia, rinunciare alla carrozza sarebbe equivalso a dire addio a eventuali risposte.
Non ero un'eroina, per cui il mio primo istinto mi disse di lasciare che Pin venisse finito dagli inferociti figli di Maat; ma seguire i fuggitivi non mi dava alcuna certezza di risolvere quell'intricato e cocente problema. Magari i cavalli stavano trainando un carro vuoto, spaventati da qualcosa all'interno delle mura.
Così, non per eroismo né tantomeno per empatia, corsi verso Pin. Da vicino, vidi che anche lui era pieno di ustioni. Forse era messo peggio di Flick.
«Che ti è capitato?» mi informai inginocchiandomi al suo fianco.
Fece una smorfia, come se parlare fosse doloroso. «Non ha importanza, adesso! C'è una pozione... È quella che fa ammattire tutti! Ma su noi figli di Seshat non ha effetto!»
Cercai di tenere a freno la mia curiosità. Un'orda di abitanti ci avrebbe raggiunti a breve. Dovevo portare entrambi lontano da lì.
«Calmati, Pin. Dobbiamo andare via, o diventeremo degli arrosticini. Riesci a camminare?» La voce mi tremava. Nonostante cercassi di mantenere un po' di positività, la voglia di fuggire da sola era tanta.
«Non credo; quasi non me le sento più, le gambe.»
«Va bene, allora passami un braccio dietro il collo che ti prendo in braccio.»
«Dove andiamo? Non ce la farai mai a portarmi di peso fin oltre le mura.»
«Allora entriamo nel castello e cerchiamo dei cavalli. Li ho sentiti nitrire, prima.»
«Sì, ne ho visti anche io nelle stalle. Sono da quella parte» mi indicò, puntando un dito tremante verso il portico del castello.
Per fortuna, i figli di Seshat sono piccoli di statura e gracili. Lo sollevai facendo forza con le gambe e lo spostai nel cortile interno al castello. Decisi di non chiudere l'ingresso: se avessimo dovuto fuggire, avremmo trovato la strada sbarrata.
Camminavo abbastanza veloce, ma non potevo correre perché altrimenti Pin avrebbe mugugnato di dolore. Era caldo al tatto, la sua pelle era screpolata e sanguinante.
Iniziai a sudare più di prima, cosa che pareva impossibile. La calura della città, il bruciore del contatto tra le bolle di Pin e la mia pelle, lo stress conseguente alla lunga cavalcata e alle corse a perdifiato di quella giornata, mi portarono ben presto allo sfinimento.
Il cortile era immenso e deserto, tutto circondato da un colonnato ordinato. Al centro, una statua del dio Maat sembrava ammiccare nella nostra direzione. I suoi lunghi capelli di pietra, nella realtà rossi come il fuoco che lo rappresenta, scendevano ai lati del volto e seguivano la linea delle spalle fino ai gomiti.
Spostandomi, mi accorsi che pareva farmi l'occhiolino ovunque mi trovassi. Era inquietante.
In aggiunta, la statua non aveva gambe: si interrompeva all'altezza dell'ombelico in modo innaturale, come se la lastra su cui poggiava gli avesse trapassato il ventre senza che il dio se ne fosse accorto.
Mi dimenticai del busto e mi accostai a una colonna, con ancora il mio compagno in braccio, per cercare di far entrare aria nei polmoni. Non potevo farcela, dovevo trovare un altro modo. Ero abituata a cercare soluzioni alternative alla forza.
Appoggiai delicatamente Pin a terra e mi sedetti anche io.
«Faccio troppa fatica a portarti» ammonii Pin senza mezzi termini.
«Come facciamo, allora?»
«Dammi qualche secondo per pensare», ma era difficile, a causa dei falò che mi sentivo nella cassa toracica e al posto della materia grigia.
«Non vorrai abbandonarmi, vero?»
Chiariamoci: come già detto, la tentazione c'era. «Non penso, a meno che gli zombie non compaiano a un metro da noi; in quel caso, credo che me la darei a gambe.»
«Rassicurante.»
Mi alzai e mi guardai intorno, in cerca di un mezzo di trasporto. «Vado a vedere se trovo un carro, o un cavallo, o qualsiasi cosa possa aiutarci.»
Camminai dietro al colonnato e ne ammirai la volta imponente. Non vi erano affreschi, ma il soffitto sembrava diviso in mille e mille quadrati tutti uguali, e in ognuno di essi ve ne erano altri identici e concentrici, sempre più piccoli. Quando staccai gli occhi dal soffitto, mi sembrò per un attimo di vedere altri quadrati davanti a me per un effetto ottico.
In uno sgabuzzino trovai degli attrezzi da giardino, così sperai ci fosse anche una carriola. A mali estremi, estremi rimedi. Guardai dentro un piccolo gazebo, sotto a dei teli che celavano della legna da ardere, ma nessuna traccia di carriole.
Entrai in una delle tante porte che si affacciavano sul cortile, senza sapere cosa aspettarmi di scovare all'interno. Mi ritrovai in una cucina, non molto grande e quasi completamente distrutta. Il tavolo era ridotto a un mucchio di carbone, gli utensili erano quasi tutti rotti.
Avvicinando la mano ustionata a un bicchiere nella cucina, sentii una strana sensazione... un brivido che mi fece drizzare le orecchie e i peli lungo la schiena. Percepii qualcosa, ma non saprei ben dire cosa. Fu un po' come quando si disinfetta una ferita, ed essa inizia a bruciare di più e sembra che faccia ancora più male. Per un momento, mi sentii... furiosa. Incontrollabile.
Dopo un attimo, la sensazione sparì.
Il bicchiere era immobile, in piedi dentro al lavabo. Portava ancora i segni delle ultime labbra che vi si erano poggiate, non essendo mai stato pulito. Non riuscii a raccapezzarmi di cosa avesse potuto crearmi quel disagio. "Probabilmente sarà colpa della calura e della fatica", mi incoraggiai. Eppure, ero certa di aver sentito qualcosa di strano.
Visto che nella cucina non vi era nulla che potesse condurci fuori dalla Roccaforte, ripresi il mio giro nel portico, osservando le dita con cui avevo toccato il bicchiere come se non fossero mie, aliene. Imboccai un corridoio laterale e finalmente sentii l'inconfondibile odore del fieno. Le stalle dovevano essere in quella direzione.
Aumentai il passo, sentendo un rumore di zoccoli agitati e sbuffi frustrati. Verso la fine del passaggio, mi appiattii lungo la parete, in modo da non dare troppo nell'occhio nel caso in cui ci fosse stato un cortigiano. Il corridoio si affacciava su un altro cortile interno, più piccolo e con un'aiuola centrale un tempo verdeggiante, in quel momento bruciacchiata. Guardai oltre l'angolo e notai subito due cavalli già bardati, legati per le redini a una staccionata di legno.
Uno cercava per terra qualche filo d'erba commestibile, muovendo convulsamente i labbroni e scavando; il secondo pareva intento in un balletto agitato, scalpitando da una parte all'altra dei paletti.
Perché mai qualcuno avrebbe dovuto abbandonarli lì? Non sembravano animali dell'alta società, ma neppure malnutriti o in pessime condizioni. Probabilmente, prima di impazzire, qualcuno aveva tentato di usarli come mezzo per tagliare la corda. Chissà da quanto erano lì.
Mi avvicinai con cautela, girando in modo da averli di fronte. Fortunatamente non si alterarono molto alla mia vista, così riuscii a sciogliere i nodi e trascinarli verso l'uscita, dove avevo lasciato Pin.
Lo trovai immobile, sudato fradicio, appoggiato alla parete sotto il portico per ripararsi dal sole. Si era tolto e strappato una maglia e la aveva arrotolata con poca cura attorno alle ferite. I suoi capelli, prima neri e leggermente spumeggianti verso l'alto, ora erano appiattiti e inerti, come un fuocherello in mancanza di ossigeno. In effetti, l'afa mozzava il fiato.
Il suo petto scheletrico era in mostra, le costole che si alzavano e abbassavano con fatica apparivano attaccate solo a un sottile strano di derma, anziché ai muscoli intercostali. Aveva un colorito esangue.
Legai i destrieri facendo girare le redini attorno a una colonna, pregando che almeno uno stesse fermo e mi facesse fare meno fatica di quanta già dovevo farne. Sollevai Pin infilando un braccio sotto le sue ginocchia e uno sotto le ascelle, spinsi con le gambe e lo lanciai con veemenza sulla groppa del cavallo più tranquillo. Il secondo continuava ad agitarsi da una parte all'altra.
Sperai intensamente che Pin non perdesse conoscenza, ma mi tranquillizzai vedendolo stringere il pomello della sella. Stavo per liberare i cavalli, quando un ruggito mi fece sobbalzare. L'ingresso, ossia la nostra unica uscita, pullulava di figli di Maat dall'aria tutt'altro che amichevole.
N.A.: ed ecco dopo un bel po' un freschissimo capitolo! Mi spiace di non riuscire ad aggiornare tanto spesso🥺
In compenso, il capitolo è bello lungo🌼
Anyway, l'immagine per la contea di Specchialuce che ha ricevuto più voti (nel precedente capitolo) è quella che ho messo all'inizio di questo capitolo💕
Spero che la storia vi stia appassionando, se vi va di lasciarmi un commento ne sarei felicissima come sempre!
A presto🌹
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