Capitolo 32 - faccio magie

Il cucchiaio rimase immobile nella ciotola come se il contenuto si fosse solidificato di colpo e avesse catturato la stoviglia. La mia mano mi parve appesantita tanto da non riuscire a sollevarla. Guardai la donna nel modo in cui avrei avrebbe fatto uno che ha appena visto un fantasma.

Poi scoppiai a ridere. «Mi stai prendendo in giro, vero?»

La figlia di Seshat era invece seria. Troppo seria. Puntò lo stilo al suo braccio e descrisse un cerchio sulla pelle, come se volesse inciderla. Ci mise giusto qualche attimo, durante i quali la fissai in tralice. Che stava facendo?
«Prova a farlo tu» mi suggerì tendendomi il bastoncino.

Quando l'oggetto fu a mezz'aria tra me e la donna, sentii una forza sconosciuta che mi spingeva ad afferrarlo. Allo stesso tempo, ne ero intimorita. Il mio corpo cercava di allontanarsi, facendomi sprofondare nella sedia. So che sono due sensazioni opposte, ma tutto era così... irrazionale. L'aria era pesante attorno a me. La mia mente era focalizzata solo sullo stilo e su come fuggirne.

Dopo qualche secondo di esitazione, lasciai il cucchiaio ancora infilato per metà nella zuppa di pesce e allungai il braccio. Quando sfiorai il legno secco, una scossa di elettricità mi attraversò dall'unghia fino alla spalla. Ritrassi immediatamente la mano come se mi avesse scottata.

«L'hai percepito. Ho ragione, no?»

Non la stetti a sentire. Volevo stringerlo. Volevo averlo. Eppure la forza di avvicinarmi di nuovo mi mancava. Continuavo a guardarlo sentendo dei brividi che mi percorrevano la schiena. La fame mi passò del tutto, le tempie mi pulsavano.

«Prendilo» mi ordinò la donna con voce rotta e appoggiandolo sul tavolo in modo che la parte più spessa che costituiva il manico fosse rivolta verso di me.

Controllare il braccio destro fu complicato. Mi sembrò di alzare un arto che non mi apparteneva. Quando arrivai a pochi centimetri dal punto in cui l'oggetto magico era posato, scattai in piedi e mi allontanai.

«U-un momento...» cercai di prendere tempo. Nessuna parte del mio corpo era convinta ad afferrare lo stilo, ma nemmeno ad abbandonarlo. Ora che ero più lontana, desideravo colmare quello spazio che mi divideva da esso, eppure mi sentivo meno agitata con qualche metro a separarci.
«P-prima... voglio...» Pensai a qualcosa di importante e la mia mente corse subito a Keta. Le sue ultime parole mi colpirono di nuovo, come se le avesse pronunciate in quell'istante. Volevo assicurarmi che stesse bene, prima di fare qualcosa per quella donna.

«Voglio sapere dove sono gli altri guerrieri» dissi infine, cercando di non parlare proprio di Keta. Aveva già capito che era uno dei miei punti deboli, ma l'orgoglio si rifiutò di serviglielo su un piatto d'argento.
La figlia di Seshat sbuffò lasciandosi cadere sulla sedia. «Non è importante, adesso! Devi provare lo stilo, devi...»
«No, tu devi qualcosa a me!» la bloccai. «Sono venuta fin qui, ti ho ascoltata e sto cercando di capirti! Ma devo anche fidarmi di te, se vogliamo collaborare.»

Rise eccessivamente. «Una figlia del dio dell'Inganno che pretende fiducia?! Dopo aver tradito tutti? Ridicolo! Prendi quel...»
«No! Scordatelo!» urlai, ritraendomi ancora di più. Fu difficile farlo: mi sembrava di sentire un lazo invisibile cingermi la vita e tirarmi verso il tavolo. Ma se dovevo fare magie o che altro per lei, almeno dovevo capire che genere di persona fosse. E, finora, non mi aveva fatto una gran bella impressione.

«E va bene!» gridò di rimando, esasperata. «Il tuo amico e gli altri sono in una... bolla creata dalle Eleadi sotto questa palafitta. Non appena termineremo qui, gli porterò da mangiare. Sono ancora vivi e vegeti.»
«Una bolla?»
«Le Eleadi sono dotate di poteri che sui libri non sono riportati» esplicò. «Ci sono ancora tante cose che gli studiosi non hanno approfondito sulle creature magiche del nostro mondo.»

Annuii. In effetti, io conosco solo ciò che ho letto rubacchiando qualche libro, non avevo mai visto dal vivo un'Eleade né un Troll né nessun altro tipo di essere fatato.
«Questo anche perché prima dell'Esplosione queste popolazioni magiche non erano conosciute, perciò non esistono antichi tomi che ne parlino.» Quest'ultima sua frase mi entrò da un orecchio e mi uscì dall'altro: Keta stava bene, per me era abbastanza. Non avevo troppo spazio nel cervello per ulteriori informazioni, futili in quel frangente.

«Va bene, va bene. Quindi i guerrieri di...» ci misi qualche secondo per ricordare chi fossero i soldati mancanti all'appello. Stavo esplodendo. «... di Ordya ed Espaea sono lì da giorni? Cosa pensi di fare con loro?»

«Sì, ho somministrato loro dei sonniferi per farli stare tranquilli. Finita tutta questa faccenda li libererò. Pensavi volessi ucciderli?»

Ormai non so più cosa aspettarmi, avrei voluto commentare. Mi limitai a fissare lo stilo. Di nuovo, quella strana sensazione mi spinse a convogliare le mie attenzioni su di esso e dimenticare il discorso che stavamo facendo. Mi concentrai talmente tanto che non sentii cosa mi stesse dicendo la donna.

«Come?» chiesi, senza però riuscire a staccare gli occhi dal potente oggetto. Che mi stava succedendo? Possibile che non riuscissi a liberarmi del suo influsso?
«Se non hai altre domande, possiamo tornare a ciò che stavamo facendo...» ripeté paziente. Avrei voluto ricordarle che ero io quella a dover fare qualcosa, ma ormai ero troppo attratta dal bastoncino. Mi sembrò che mi stesse chiamando, quasi fosse in grado di controllare i miei movimenti.

Mi riavvicinai al tavolo con passi leggeri. Palpai il piano di legno con lentezza alternando le dita finché non raggiunsi la bacchetta. Percepii di nuovo una scossa che mi attraversava, ma questa volta non mi tirai indietro.

Ghermii lo stilo e lo brandii puntandolo verso l'alto. Mi sentivo strana: un senso di forza mi pervase, ma allo stesso tempo fui attanagliata dalla paura. Quell'oggetto non solo aveva un potere fuori dal comune, sembrava addirittura vivo. Nelle venature del legno pareva scorrere ancora la linfa, all'esterno la corteccia aveva sfumature di mille colori diversi a seconda dell'angolazione. Profumava di casa mia: di legno vecchio ma resistente, sicuro; non era flessibile come mi ero immaginata: persino un figlio di Maat con le sue possenti braccia da fabbro avrebbe avuto difficoltà a spezzarlo.

Poggiai la punta smussata sull'interno dell'avambraccio sinistro. Mi mossi soggiogata dallo stilo stesso. Fu impossibile resistergli. Disegnai un cerchio sulla pelle e una strana sostanza nera uscì dalla bacchetta, seguendo la forma che stavo abbozzando. Non percepii nulla: l'inchiostro non si poggiava sulla cute, ma nemmeno evaporava istantaneamente nell'aria.

Un attimo più tardi, la circonferenza scomparve. Rimasi qualche secondo a osservare la mano sinistra. Mi aspettavo di vedere qualcosa o sentire almeno un formicolio, ma non accadde nulla.

«Tocca con lo stilo qualcosa sul tavolo» mi consigliò la figlia di Seshat, imbambolata a fissare il mio arto quanto me. Non feci quasi in tempo a sfiorare il cucchiaio con cui avevo assaggiato il pranzo che quello si sbriciolò davanti ai miei occhi, senza lasciare cenere né polvere. Feci un salto all'indietro da quanto mi sorpresi. Con un solo gesto avevo ridotto in nulla un oggetto che fino a pochi attimi prima avevo impugnato.

La mia interlocutrice era affascinata più che basita. «Per far terminare l'effetto devi... aspetta» disse alzandosi e andando alla libreria alla ricerca di qualcosa. Io rimasi con lo stilo ben lontano da me e da qualsiasi altra cosa solida, ben attenta a non lasciarlo cadere per errore su una tavola della palafitta e finire nella palude.

«Devi disegnare... è complicato da spiegare...» borbottò con le dita che scorrevano veloci tra tutti gli utensili e i libri posti sui ripiani. «Deve essere qui, da qualche parte... ecco!»

Tornò stringendo un foglio con scarabocchiato sopra lo schizzo di una specie di mano deforme senza il pollice. Senza dire nulla – poiché avevo le labbra incollate tra loro a causa dell'agitazione – replicai la forma con la punta della bacchetta, stando ben attenta a non avvicinarmi alla pelle per paura di disintegrarmi.

Di nuovo, non accadde nulla di che. Non sentii chissà quale potere abbandonarmi. Nemmeno il timore che avevo verso quell'oggetto misterioso se ne andò, così me ne sbarazzai lanciandolo sul tavolo il più lontano possibile, a pochi centimetri dal bordo.

Non appena si staccò dalla mia mano fu come liberarmi di un peso. Mi portai le braccia al petto massaggiandomi le spalle, con l'assurda paura che potessero sgretolarsi da un momento all'altro.

Quel coso era terribile. Avevo sempre vissuto nella convinzione che la magia esistesse ma fosse qualcosa di raro, adoperata solo da pochi. A Specchialuce nessuno pratica la magia: mi era capitato di sentire voci su qualche bizzarro individuo che si dilettava con arti oscure ai più, ma nulla di che. Capacità come quelle del bardo mi erano sconosciute fino a quando non le avevo viste con i miei occhi. Ma in quel momento ero io ad avere la possibilità di usarla. E quella possibilità non mi faceva sentire forte, anzi: mi terrorizzava.

La figlia di Seshat aveva studiato anni per creare una polvere per accendere un fuocherello o per paralizzare un uomo, il bardo probabilmente era tanto tempo che studiava gli accordi giusti per ottenere qualcosa di straordinario dai suoi strumenti... mentre io da un momento all'altro mi ero ritrovata ad avere il potere di distruggere ogni cosa. E non solo: se ciò che la donna mi aveva detto era vero, potevo fare milioni di cose con un solo cenno.

Dissi l'unica frase che il mio cervello riuscì a mettere insieme: «Perché io?»

La donna si rimise a sedere, spostando il piatto un po' di lato rispetto a sé. Probabilmente persino a lei era passato l'appetito. Se anche avessi avuto ancora un cucchiaio integro, non sarei comunque riuscita a ingollare un altro sorso di zuppa.

«Lo stilo risponde a una persona soltanto» iniziò finalmente a spiegare. «Affinché ciò avvenga, il sangue di quella persona deve essere posto all'interno. Se guardi, di fianco c'è una fessura con una sporgenza tagliente.»
Indicò il bastoncino vicino a lei, ma non osò sfiorarlo.

«Ma è impossibile... Non ho mai messo il mio sangue lì dentro» replicai additando a mia volta l'oggetto incriminato.
Provai a pensare se qualcuno avesse potuto metterlo al posto mio, ma a che scopo? Perché non mettere il proprio, per ottenere una bacchetta dai poteri infiniti?

Ciò che la donna mi rivelò dopo mi confuse ancora di più: «Tu no. Ma tua madre sì.»

Mia madre... come? Ero arrivata a casa dei miei genitori adottivi che ero molto piccola, tanto da non ricordare nulla... ma mai avrei pensato che mia madre potesse essere correlata con qualcosa di tanto potente. Di colpo, mi chiesi come mai mi avesse abbandonata. Credevo fosse stato per questioni economiche, ma se possedeva un oggetto simile l'opzione era da scartare. Perché lasciarmi andare allora?

«C'è il suo sangue nello stilo» ribadì. Ma quindi...
«Il suo? Allora perché funziona se lo uso io?» domandai.

La donna sospirò incrociando le piccole mani davanti a sé e appoggiandoci il mento. «Non ne sono sicura. Credo sia perché tu sei la sua più diretta discendente.»
«Non ne... mi stai dicendo che non eri sicura che io sarei riuscita a usarlo? Sarei potuta venire qua per nulla?!» espressi il mio sgomento. C'era la possibilità che lo stilo non avrebbe funzionato tra le mie mani?

Le mie domande la irritarono. «Cosa avrei dovuto fare? Se te lo avessi detto subito avresti potuto tirarti indietro! Io e tuo padre abbiamo pensato che fossi l'unica che avrebbe potuto brandirlo!»
«Mio padre?!» ululai sgranando gli occhi. «Mi vuoi spiegare? Tu conosci i miei veri genitori?»

Si alzò in piedi di nuovo con la testa rivolta al soffitto e iniziò a passeggiare nervosa. «D'accordo, credo tu abbia il diritto di sapere.»

Mi rilassai un po' sulla sedia. Non mi ero accorta di aver teso ogni muscolo. Finalmente stava per dirmi tutto, o quasi.

«Tua madre... si chiamava Maeve. Ricevette questo stilo come regalo di nozze. Il suo futuro marito non era a conoscenza per intero del potere che esso celava.»
«Il suo futuro marito... cioè mio padre» sostenni con convinzione, collegando i puntini nella mia testa. Mentre attendevo il responso, per l'irrequietezza cercai di staccare un pezzetto di legno dal tavolo con le unghie.

«No, non tuo padre...»
La donna sbuffò senza dire altro.
«Come no!» abbaiai esasperata. Mi sembrava di impazzire. Possibile che dovessi cavarle le informazioni con le pinze? Non poteva dirmi tutto e basta? Ero io quella che stava per scoprire delle verità difficili da digerire, non lei.
«Va' avanti! Voglio sapere!»

«Il matrimonio di tua madre era stato combinato dai genitori delle due famiglie per motivi puramente di circostanza» sputò finalmente. «Maeve non ne era per niente contenta: ben presto tradì suo marito con... tuo padre.»

«Quindi sono nata da... un tradimento...» dedussi, amaramente delusa dalla mia storia familiare. Gli inganni facevano parte di me da sempre, a quanto pareva. Strappai il pezzetto di tavolo tagliandomi un polpastrello, ma non me ne curai più di tanto.
La donna annuì, anche lei amareggiata. «Tua madre fuggì da Ordya per evitare di creare scalpore, ma fu comunque trovata e, mi duole dirtelo così, uccisa.»

Non che sperassi fosse ancora viva, ma...
«Aspetta, come sarebbe a dire da Ordya?»
Dopo aver posto questa domanda, mi sorpresi che il fatto che fosse morta non mi toccasse più di tanto. Avevo sempre dato per scontato che non avrei conosciuto i miei veri genitori... morti o vivi che fossero. Sapere che uno di loro era scomparso probabilmente molto giovane non mi diede un senso di mancanza, anzi: mi sentii quasi sollevata di essere a conoscenza di come fossero andati gli eventi.

«Sì, tua madre era una figlia di Ixion.» Questa frase mi meravigliò non poco. Doveva essere una figlia di Ixion poco arguta, visto che di caratteristiche dei figli del dio della Conoscenza me ne aveva trasmesse ben poche.
«Ma non è possibile!» gridai alzandomi a mia volta. La sedia volò all'indietro cadendo con un tonfo. Iniziai a camminare da una parte all'altra della stanza con le mani tra i capelli. «Non ho segni di essere una discendente di Ixion! E non... no, non ci credo.»

La donna trasse un sospiro profondo passandosi una mano sulla fronte. «Invece, è possibile, e la ragione è molto semplice.»
Mi fece penare ancora qualche secondo. Non capivo se si divertisse a tenermi sulle spine o se anche per lei fosse difficile parlare di quelle cose. Mi pulii il dito ferito sui pantaloni per togliere una gocciolina di sangue.

«Tuo padre...»

Mi fermai per guardarla in volto. Dovevo sembrare una stupida: la bocca socchiusa, gli occhi sbarrati e gli arti superiori sollevati a metà come in preghiera. Pendevo dalle sue labbra.

«... è Heket in persona.»

Le braccia mi caddero inerti lungo i fianchi. Sentii la zuppa muoversi nello stomaco. Ma come...

«I suoi caratteri divini hanno prevalso sui geni di Ixion portati da tua madre, perciò sembra che i tuoi genitori siano entrambi discendenti del dio dell'Inganno.»

Io... figlia diretta di un dio?

«Non... i-io non...» riuscii soltanto a balbettare.
«Dopo che tua madre morì, Heket ti consegnò a due abitanti qualsiasi di Specchialuce. Il resto già lo sai.»

«Ma tu come conosci tutte queste cose? Chi sei tu?»

«Perché... è una lunga storia...» prese tempo. Chiuse gli occhi per qualche istante per riflettere sul da farsi. Infine concluse: «Siediti. Ti racconterò tutto.»

N.A.: buongiorno carissimi! Ho delle novità importanti da comunicarvi!

Punto primo, grazie a @ELStarlet ho una nuova meravigliosa copertina e dei banner pazzeschi (finalmente anche Chandra ne ha uno suo, poverina diamole un po' di risalto hahaha lo potrete ammirare nel prossimo capitolo). Quindi per favore fatemi sapere che ne pensate.

Seconda cosa, stavo pensando di cambiare il nome "Seshat", genitore divino di Chandra, in "Tishav", perché il primo è una divinità egizia abbastanza importante.

Nel prossimo capitolo leggerete ancora Seshat, chissà se mi verrà voglia di cambiarlo xD

Ci sentiamo con Chandra!
Tami🧡

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top