Capitolo 13 - scomode verità


Tempo presente

Hora

Quando i nostri cavalli iniziarono ad avere la bava alla bocca e le nostre gambe ci informarono di non reggere più la fatica, eravamo già da un bel po' fuori dalle mura, che avevamo percorso fino al punto in cui eravamo entrati, e stavamo attraversando il povero villaggio abbandonato all'esterno. Rallentammo finché il passo dei destrieri non divenne pacato e ci rilassammo. Come prima, bevvi dell'acqua, ormai quasi terminata e calda, e mi inumidii un po' tutto il corpo tirando via il sudore. La spalla e la mano mi bruciavano ancora più di prima.

Sfilammo di fianco alle case in malora, agli steccati trasandati e ai segni del passaggio del fuoco. Ora capivo perché c'erano tutte quelle chiazze scure sul legno delle case: i figli di Maat, scottando, avevano provocato la distruzione che vedemmo all'andata e di cui ci domandammo la causa. Magari alcuni avevano devastato le loro stesse case o famiglie. Cercai di non pensarci, concentrandomi sul passo lento del mio cavallo, ormai troppo stanco per ribellarsi.

Dopo non molto, Keta riprese la conversazione interrotta.

«Allora, vuoi rispondere alla mia domanda di prima?»

Assunsi un'aria spaesata, facendo finta di non ricordare per prendermi un po' di tempo. Durante la cavalcata avevo svuotato la mente, come faccio sempre, quindi non avevo riflettuto su cosa inventarmi.

«Ti avevo chiesto una spiegazione riguardo alla pietà che hai dimostrato nei confronti dei tuoi aggressori» mi rinfrescò la memoria. Ovviamente non ce n'era bisogno. Presi un bel respiro, poi cercai un modo fumoso per eludere la richiesta.

«Non mi piace uccidere, se posso evitarlo preferisco.»

Keta sembrò aspettarsi quella risposta da parte mia, tanto da essersi preparato in anticipo cosa ribattere. «Penso non piaccia quasi a nessuno. Ma in quel momento, se volevi sopravvivere, direi che era necessario. Credo ci sia dell'altro, sotto sotto.»

Maledissi il suo fiuto per le menzogne. Elaborai una mezza verità.

«Erano innocenti, non meritavano di morire più di quanto non lo meritassi io. Capisci che intendo? Insomma, non vedo perché la mia vita debba valere più di quella di quelle povere persone che hai sterminato.»

Mi si formò un groppo in gola. Sperai non fraintendesse l'ultimo pezzo della mia frase: forse ero stata troppo diretta, come mio solito. Cercai di rimediare.

«Scusa, non intendevo dire che sei un assassino, solo che hai sacrificato una dozzina di vite umane per me. Mi chiedo se ne sia valsa la pena.»

«Avresti preferito che ti lasciassi morire? Se fossi morta tu, lo sarebbe anche Pin. In più, siamo qui per risolvere questo disastro; se nessuno di noi torna indietro, i figli di Maat finiranno per mangiarsi a vicenda e Fendiroccia potrebbe essere eliminata dalle cartine» controbatté impassibile, come se si fosse preparato anche questo. Dopo un attimo di riflessione, aggiunse: «La scelta era fra te e loro.»

«La scelta era fra due o una dozzina di vite umane. Inoltre, tu saresti benissimo riuscito a tornare indietro.»

«Non credo, visto che non avrei trovato un cavallo e sarei dovuto tornare a piedi. Probabilmente non avrei neanche notato l'uscita secondaria e sarei stato costretto a riattraversare la città infestata.»

Rimasi zitta per evitare di peggiorare la situazione. Keta non sembrava arrabbiato, tuttavia come al solito mi era difficile decifrare quelle sue enigmatiche espressioni senza emozioni esplicite. Il mio cavallo parve sentire la frustrazione che mi divampava nel petto, manifestando la sua disapprovazione nitrendo e piegando all'indietro le orecchie. "Grazie del supporto, antipatico di un equino" pensai, innervosendomi ulteriormente.

Passarono diversi secondi di silenzio, durante i quali cercai di apparire rilassata. Keta sbuffò con fare simpatico, per poi intimarmi: «Quante volte dovrò chiedertelo, prima che tu me lo dica? Non puoi fare la misteriosa con me, lo sai. Sento benissimo che temi di dire quello che pensi, ma allo stesso tempo muori dalla voglia di confessarlo a qualcuno.»

Lo guardai con uno degli sguardi più intimidatori che riuscii a fare. Il messaggio che volevo passasse era: "Se anche così fosse, non lo direi a te", ma lui non sembrò scoraggiato.

«Ho tutto il tempo che vuoi, sono bravo ad aspettare. E sono bravo anche a stanare la verità, quindi non raccontarmi baggianate.»

«Ti ricordo che sono una figlia di Heket, il Dio dell'inganno. Siamo due opposti: potrei riuscire a dirti una bugia.»

Keta sorrise, sinceramente divertito, credo. «Io non ne sarei così convinto.»

«Perché no? Tu non sai...»

«Ah, non provare a sviare il discorso», mi interruppe. «Sono io che ti ho fatto una domanda, quindi prima rispondi a me.»

Credetti che avrebbe potuto farmi impazzire. I suoi occhi mi guardavano indagatori e insistenti, il suo corpo pareva teso verso di me. Mi sentii pervasa da una strana sensazione, mi si strinsero le viscere e mi salì della bile in bocca. Le mie labbra sembravano volersi aprire senza il mio consenso. Attesi qualche secondo, tuttavia quando mi chiese di nuovo: «Allora?» non ressi più il peso della pressione.

«E va bene! Non voglio uccidere nessuno perché l'ho promesso. Ho visto morire una persona a me cara, quindi ho giurato che non avrei inflitto a nessuno il dolore che ho provato io. Sei contento, adesso?» L'ultima frase la dissi in tono sprezzante. Odiavo chi voleva a tutti i costi sapere i perché delle azioni e delle emozioni delle altre persone. Se qualcuno è scorbutico, talvolta ha un buon motivo per esserlo, non è sempre maleducato. Per fortuna, dopo la mia confessione, Keta se ne restò zitto.

Ero infuriata, se avesse parlato credo che avrei potuto minacciarlo. Ma più di tutto ero ferita dalla nostalgia. Le lacrime rischiarono di farsi largo sui miei occhi e mi si annebbiò la vista. Non potevo lasciarmi sopraffare dai ricordi, non in quel momento, non con Keta di fianco. Tirai fuori dallo zaino di nuovo la mia borraccia, finendone il contenuto versandomelo direttamente in volto per scacciare la tristezza. Purtroppo, però, i brutti pensieri non potevano essere allontanati con un po' d'acqua.

Il silenzio perdurò finché non intravidi la roccia sotto cui si riparavano i nostri compagni. Dietro quest'ultima, il sole stava scomparendo tingendo il cielo, tappezzato di nuvole grigie, dello stesso colore del sangue. Un venticello caldo ci accarezzò, dando un leggero sollievo al mio umore.

Mi concentrai sul paesaggio che ci circondava, una natura morente: il terreno si era fatto più scuro, le alture dei piccoli vulcani erano nere della loro stessa cenere, i ciuffi di graminacee sembravano ripiegarsi su sé stessi, secchi e stanchi. Le ombre dei cactus, lunghe e tremolanti per l'effetto del calore, parevano dita affusolate pronte a catturarci.

Scacciai via un insetto che mi si era posato in viso, quando Keta mi fece sobbalzare sospirando: «Mi dispiace, è nella mia natura; non posso farci niente, costringo chiunque a dirmi la verità, alla fine. È come se emanassi un'aura che chi mi sta intorno non percepisce, ma sente che prima o poi cederà. Penso che sia successo anche a te, ma non lo faccio con cattiveria.»

In effetti sì, era successo anche a me, ma non lo confessai. Avevo davvero sentito una forza dentro di me che voleva darmi il coraggio di parlare, una vocina che mi sussurrava: "Avanti, dillo!", ed era stato un po' strano subirne l'effetto.

«I figli di Aliteo emanano queste... radiazioni, non so come chiamarle, quando desiderano sapere qualcosa. Scusami, davvero, non le controllo.»

Questa volta lo guardai e annuii, per fargli capire che lo perdonavo. Insomma, ero ancora un po' scocciata, ma in fondo sapevo che il suo obiettivo non era quello di ficcanasare. Per di più, non avevo idea di questa peculiarità dei figli di Aliteo.

Arrivati dai nostri compagni di viaggio, Flick fu il primo a mostrare entusiasmo. Ci saltellò incontro zoppicando, mentre il bardo imprecava perché gli stava medicando una ferita.

«Hora! Keta! Siete vivi!» ciondolò, abbracciandomi le gambe non appena smontai da cavallo. Gli misi una mano su una spalla, facendo una smorfia per il dolore, ma ero comunque contenta di vederlo. A differenza di quel che mi sarei potuta aspettare, non fu un abbraccio imbarazzante, anzi. Percepii la sincerità di quel gesto.

Il mio cavallo si agitò, tirandomi il braccio e facendomi soffrire ancora di più. Soffocai un gemito, continuando a sorridere al figlio di Halos che mi guardava dal basso. Si accorse che la mano che avevo poggiato su di lui era tutta rossa e piena di bolle da ustione, così afferrò lui una redine e mi consigliò: «Vai a farti medicare, ci penso io al cavallo.»

Gliene fui immensamente grata. Notai che le sue ustioni andavano molto meglio, mi domandai come avesse fatto a guarire così in fretta, ma non ebbi la forza di chiederglielo. Desideravo soltanto riposarmi.

Mentre mi allontanavo ringraziando Flick, Atoldir fece lo stesso con Keta. Il figlio di Feria non parve altrettanto felice di vederci, anziché chiederci come fosse andata sputò: «Come avete fatto a uscire da lì a cavallo? I nostri si erano imbizzarriti nei dintorni della Roccaforte.»

Non ci avevo fatto il minimo caso; avevo trovato un modo per fuggire e ne avevo approfittato. In effetti, però, era una bella domanda. Ero troppo stanca per pensarci in quel momento e, per mia fortuna, fu Keta a rispondere. «Non lo sappiamo, li abbiamo trovati in un cortile della Roccaforte. Magari essendo già dentro non hanno sentito l'influenza di... qualsiasi cosa faccia agitare gli animali. Prenderesti Pin in braccio? Ha perso conoscenza.»

Il figlio di Aliteo era sceso tenendo il fragile Pin tra le braccia, come se stesse reggendo la sua sposa. Atoldir lo acchiappò con molta meno eleganza e lo adagiò sulla stuoia sopra la quale aveva dormito la notte prima. Poi tornò indietro a prendere il cavallo.

«Fermo un secondo!» ringhiò di nuovo Atoldir, puntando un dito addosso a Keta. «Tu hai cercato di uccidermi! Che ti è saltato in testa?!»

Keta fu preso alla sprovvista, quasi come se non ricordasse ciò che aveva fatto. Mantenne tuttavia il suo sguardo fermo e orgoglioso mentre articolava: «Non lo so, davvero. Faccio fatica a mettere insieme i pezzi di quei momenti.»

«Beh ti rinfresco io la memoria, allora!» urlò Atoldir, imbestialito. «Stavi analizzando qualcosa sul tavolo e all'improvviso lo hai lanciato contro il muro, hai estratto la tua spada e, se non mi fossi spostato, mi avresti tranciato a metà!»

Keta si passò una mano fra i capelli luridi e si massaggiò la nuca. «Mi dispiace, Atoldir. Non ricordo quasi nulla dopo aver preso in mano il bicchiere e... era un bicchiere rotto, credo di essermi tagliato.»

«Non mi interessa se ti sei tagliato o meno! Cos'hai, una doppia personalità? Una apatica e una omicida?»

«Spero di no... mi sentivo strano... volevo lanciare il bicchiere, ma non ricordo di averlo fatto. Il sangue stava colando sul tavolo. Qualcosa mi ha provocato una rabbia irrazionale...»

«E ti sembra un buon motivo per uccidermi? Mi auguro che non sia la tua normale reazione dopo un taglietto!»

Ascoltando Keta che descriveva ciò che aveva provato, mi venne in mente quel che era successo a me nella cucina alla Roccaforte Frammento. Anche io mi ero sentita pervasa da un senso di ira, un desiderio di distruggere l'oggetto che avevo in mano. Per fortuna, io non ero impazzita.

Ero troppo stanca per dare man forte a Keta. Non volevo entrare nella discussione e sorbirmi gli improperi di Atoldir, anzi desideravo che la piantassero. Mi vennero in mente due opzioni per fermare la diatriba: la prima era quella di fingere di svenire per la stanchezza, scena che non mi sarebbe risultata tanto difficile da recitare; la seconda consisteva nell'estrarre due frecce e uccidere entrambi. Quest'ultima mi parve un po' eccessiva e molto più faticosa, così mi accasciai sulle ginocchia, appoggiandomi alle gambe tremanti. Un attimo dopo mi stesi per terra, sentendo un enorme sollievo alle membra doloranti.

Non mi ero resa conto di essere tanto stanca fino a quel momento. Quando le gambe smisero di sostenere il mio peso i muscoli ebbero degli spasmi, come se non credessero di aver finalmente diritto a un po' di tregua.

Sentii il bardo muoversi e ordinare: «Rimandate i litigi a più tardi! Hora e Keta hanno bisogno di riposarsi» mentre mi metteva un braccio attorno alle spalle per aiutare a rialzarmi. Atoldir andò avanti a lanciare insulti a Keta, ma il bardo lo bloccò di nuovo accusandolo di essere un attaccabrighe. Mi fece stendere su uno dei sacchi a pelo, invitò Keta a fare lo stesso e obbligò il figlio di Feria a prendersi cura del cavallo. La mia tattica aveva funzionato.

N.A.: ed ecco finalmente a voi Marzapaneeee💕
Vi piace? Io ci sono molto affezionata. Avevo più di una foto ma questa era quella che più mi piaceva, magari più avanti metterò anche le altre!🧡

Nel prossimo capitolo invece penso di farvi conoscere il cavallo di Keta✨

Domanda: chi credete che sia la persona che Hora ha perso? Così, mi piacerebbe sapere le vostre intuizioni hahah

A prestoooo

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