Capitolo 10- mi faccio (quasi) abbrustolire
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Tempo presente
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Hora
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Pin non si reggeva in sella. Se il cavallo si fosse spaventato passando tra i nostri nemici, il figlio di Seshat sarebbe stato disarcionato ancor prima di fare due passi di galoppo. Non mi restava che cercare di allontanarli in qualche modo. Mi spostai verso il centro del cortile.
«Non avete niente di meglio da fare che inseguirmi?» urlai, attirando la loro attenzione. Alcuni si mossero verso di me, altri rimasero fermi, storditi. Erano almeno una dozzina in totale.
Era uno spettacolo inquietante: uomini e donne dai vestiti ridotti a stracci, la pelle rossa e fumante, l'odore di bruciato che pervadeva l'aria già irrespirabile. La spalla ferita pulsava per la fatica di alzare le braccia in aria nel tentativo di mantenere i loro occhi su di me.
Mi resi conto di non avere un piano. Non sarei riuscita né a bloccarli tutti né a fuggire insieme a Pin da quanto ero stanca. L'unica opzione era quella di salire a cavallo e sperare di seminarli. Di nuovo, l'idea di abbandonare Pin si fece largo.
Poi mi ricordai di una cosa. Probabilmente non sarebbe servito a nulla, ma tanto valeva tentare. Mi sfilai l'arco dalle spalle, tastai con la mano destra nel fodero delle frecce finché non trovai quella giusta: una di quelle più lunghe, che mi piaceva chiamare esplosive per farle sembrare pericolose.
In realtà, ci avevo soltanto aggiunto dei fiori appesi per lo stelo, legati insieme; questi boccioli possono essere raccolti da una pianta che a Specchialuce viene chiamata vite fantasma, per via del fatto che, secondo un'usanza popolare, nel periodo di fioritura la vite si trasforma in un ponte di passaggio verso l'aldilà –non conosco il nome scientifico del vegetale e non so nemmeno se la leggenda sia vera o meno–.
Insieme a mio padre, andavo spesso alla ricerca di queste piante abbastanza comuni nei boschi nei dintorni della Roccaforte Salice, il centro della mia contea, e non ho mai visto né spiriti, né non-morti, né cose simili.
La vite fantasma si presentava come un rampicante dalle piccole foglie triangolari, simili a quelle dell'edera. Tuttavia, quando fioriva, era impossibile non notarla: i suoi fiori bianchi e viola arricciati e pendenti come tanti grappoli d'uva erano quasi fluorescenti e, quando il vento li sfiorava, erano come delle lucciole giganti e colorate. Per via dell'elevato numero di fiori e del clima favorevole, era molto facile per questa pianta crescere abbondantemente e in salute.
Dei suoi fiori ne venivano fatti gli usi più disparati; io ne sfruttavo una proprietà peculiare: se disposti nella giusta posizione sull'asta di una freccia, quando quest'ultima viene scoccata emettono un suono simile a quello di una piccola tromba ma più soffocato, finché il passaggio dell'aria non li disintegra in tanti petali colorati. Intrecciati su un semplice bastoncino intagliato, davano vita alle mie preziose frecce esplosive, inventate per situazioni di emergenza, essendo visibili e udibili da lontano.
Incoccai il dardo e puntai verso l'alto. La spalla protestò non poco. Quando la freccia lasciò l'arco, iniziò un concerto di fiori-trombetta e poi uno spettacolo di fuochi d'artificio bianchi e viola, alto almeno una quindicina di metri.
Tutti gli zombie puntarono i menti verso l'alto, affascinati dallo scoppiettio dei fiori. Mentre erano distratti, ne approfittai per slegare con la mano libera le redini del cavallo di Pin. Tremavo, un po' per la stanchezza, un po' per la sofferenza e forse anche per il panico. A causa di ciò, non riuscii a liberare il cavallo dalla colonna.
Sbuffando, mi rimisi l'arco in spalla e usai entrambe le mani. Le dita della mano piagata scottavano strette attorno al cuoio delle redini, che mi scivolavano a causa del sudore. Deglutii quel minimo di saliva che avevo sentendo la gola pizzicare, desiderosa di acqua. Ma non avevo tempo per cercarla nella sacca.
Dopo aver liberato il cavallo, mi misi al suo fianco e cercai di salire dietro Pin, in modo da esser sicura che non cadesse. Ma mentre cercavo di infilare il piede tremante nella staffa, due figli di Maat, ripresisi dalla sorpresa, si avvicinarono a noi facendo agitare il cavallo tanto da spingermi a terra. Caddi di schiena, attutendo il colpo con le braccia. La spalla sinistra fu come perforata da miriadi di spilli, ma almeno non sbattei la testa.
Uno dei due zombie aveva tra le mani un pezzo di ferro, per metà fuso dove lo stava brandendo. Lo alzò sopra la testa e fece per colpirmi. Calcolai che non avrei fatto in tempo a difendermi con la spada, così rotolai da parte e mi misi in ginocchio. Il clangore del metallo al suolo echeggiò al mio fianco mentre l'altro uomo mi si avvicinava con le mani ustionanti protese in avanti.
Afferrai l'impugnatura della mia lama e la estrassi, indietreggiando sotto al portico. Non volevo far male a degli innocenti, ma non potevo neanche lasciare che mi ardessero viva. Menai un fendente di avvertimento, ma il figlio di Maat non sembrò spaventato.
Cercò di bloccarmi la spada, così la roteai dalla parte opposta e lo colpii di piatto sulla spalla. Poi gli tirai un calcio in pancia per allontanarlo. Purtroppo non riuscii a imprimere tanta forza, quindi non cadde ma fece solo qualche passo indietro.
Mi spostai di lato e vidi il cavallo di Pin che si agitava per schivare i caldi colpi di un gruppo di zombie, mentre il figlio di Seshat si teneva stretto al pomello e cercava contemporaneamente di rimanere ancorato, non perdere conoscenza e non essere toccato.
Mi distrassi troppo. Una mano ardente mi afferrò per il polso sinistro senza che riuscissi a evitarla. Per far staccare il mio assalitore cercai di colpirlo con l'elsa, ma non voleva mollare. Così, allontanai la spada e la ritirai giù, staccandogli brutalmente metà dell'avambraccio. Per fortuna, si allontanò da solo tenendosi il moncherino con l'altra mano.
Mi scrollai di dosso quel che restava delle dita avvolte attorno al mio polso, poi dovetti fronteggiare di nuovo il figlio di Maat con la spranga di ferro. Parai i suoi colpi con un braccio solo, ma le forze mi stavano abbandonando. Con una rapida occhiata, mi resi conto di essere circondata. E spacciata.
Riuscii per qualche miracolo a disarmare il mio avversario, ma subito dopo mi arrivò un sasso dritto nel fianco. Uno zombie aveva avuto la bella idea di lanciarmi pietre incandescenti raccolte per terra e riscaldate a dovere. Mi piegai tenendomi la pancia col braccio ferito mentre menavo fendenti a casaccio.
Credo di non essermi mai sentita tanto stanca come in quel momento. Attinsi a tutta l'adrenalina che avevo in corpo e continuai a combattere. Infilzai il figlio di Maat più vicino su una gamba, mi abbassai per schivare un sasso diretto alla mia testa e girai su me stessa per imprimere più forza al colpo che assestai a un altro nemico, tagliandogli di netto un braccio. Il terreno si riempì di sangue.
Tirai una spallata all'uomo col moncherino, colpii con un calcio in faccia un altro di loro facendolo cadere a terra e mi preparai con la spada protesa in avanti pronta a trapassare chiunque mi si fosse parato davanti. Tuttavia, uno zombie mi afferrò da dietro e mi lanciò a terra, facendomi sbattere contro una colonna del portico.
La testa iniziò a girarmi, il dolore e la calura mi appannarono la vista. Mi rialzai a fatica, la schiena che protestava per lo sforzo. Ero esausta. Un sasso mi colpì sulle reni, mozzandomi il fiato e facendomi cadere in ginocchio. Non ce la facevo più.
Mentre avevo lo sguardo rivolto a terra, vidi del sangue scorrermi davanti. Alzando leggermente gli occhi notai un bagliore blu seguito da scie rosse scarlatte, ma non riuscii a identificarne la provenienza. Il sudore mi pizzicava sulle ciglia, così chiusi le palpebre e mi misi carponi. Le mani mi si impregnarono di un liquido denso e caldo, ma non mi spostai.
Udii dei lamenti, delle urla di sofferenza, dei fendenti di spada. Poi le orecchie mi si tapparono. Respirare era faticoso e tutto il corpo mi doleva. Provavo il desiderio di stendermi su un fianco e riposare, ma allo stesso tempo sentivo di non poterlo fare. Entrai in una specie di trance, per non so quanti secondi o minuti.
Non sentivo niente, solo il dolore delle mie membra. Percepii una a una tutte le ferite, dalla spalla alla mano, dall'osso sacro alla cervice della testa. Mi sembrò di scorrere su uno scivolo verso l'inferno, in attesa del tormento eterno.
Una mano mi scosse la spalla sana. Fu un gesto delicato ma deciso. Lo sentivo distante, non riuscivo a reagire. Era come se stessi facendo un brutto sogno, consapevole di dovermi svegliare e che qualcuno stesse cercando di destarmi.
«Hora! Dobbiamo andare! Alzati, ti prego!» mi implorò una voce lontana, come appartenente a una persona situata dalla parte opposta di un anfiteatro. I miei sensi erano ovattati, i muscoli non rispondevano al mio richiamo, la testa faticava a ragionare. Iniziai aa avvertire chiaramente l'aria che inspiravo, che sembrava tagliuzzarmi il dotto respiratorio e pizzicarmi il naso ogni secondo.
Di colpo, sentii del calore sulla pelle, non ustionante o pungente come l'afa che mi circondava, bensì umano: delle braccia mi stavano avvolgendo delicatamente, tirandomi verso l'alto. Mi riempii di brividi, sensazione che mi sembrò impossibile poter provare di nuovo dopo tanta canicola.
Quando mi accorsi che qualcuno stava cercando di prendermi in braccio, non riuscii a opporre resistenza. Normalmente non avrei permesso a nessuno di farlo, ma il mio collegamento con la realtà era ancora interrotto da un velo di stanchezza. Dopo qualche passo, di nuovo il freddo della terra mi toccò la schiena. Cercai invano di muovermi, di aprire gli occhi, di concentrarmi.
La nebbia che avvolgeva la mia mente si diradò improvvisamente quando uno spruzzo d'acqua mi arrivò in pieno viso. Fu ristoratore: mandò via la calura, la debolezza e parte del dolore. Mi misi a sedere, mi stropicciai gli occhi e, quando finalmente le palpebre si staccarono tra loro, vidi una figura accucciata sopra di me. Non so cosa mi prese subito dopo.
Chiunque fosse, gli tirai una gomitata nel fianco e mi rialzai da sola barcollando. Mi sfregai gli occhi per scacciare l'acqua e il sudore e cercai compulsivamente la mia spada. Vidi il suo bagliore arancione a due metri da me.
Mi gettai per afferrarla, la impugnai e la puntai verso l'uomo dietro di me.
Un secondo dopo, tuttavia, dovetti riabbassarla. Keta mi guardava con le mani alzate, in segno di resa; il volto era striato di sangue e polvere, il petto si alzava e si abbassava in fretta ed era ben visibile attraverso la maglia che aveva preso dai guardaroba del castello di Lloyd, ormai quasi del tutto inesistente a causa delle bruciature.
Rimasi a bocca aperta per un attimo, ma non appena girai la testa lo stupore fu rimpiazzato dalla consapevolezza: Keta mi aveva salvata sacrificando almeno una decina di figli di Maat, i cui corpi giacevano nel cortile, sparsi in posizioni innaturali.
«Cosa... cosa hai...» balbettai, le labbra che facevano fatica ad allontanarsi tra loro per via della carenza di saliva.
«Non c'è tempo, Hora. Dobbiamo andare via» mi spronò Keta, con una freddezza che non credevo possibile in quella situazione.
Dopo un'ultima occhiata intorno, feci un lieve cenno di assenso col capo e rinfoderai la spada.
Raggiungemmo i cavalli, uno ancora legato alla colonna e l'altro con le orecchie tirate indietro, terrorizzato. Pin era caduto a terra, privo di sensi. Keta mi informò che era ancora vivo, ma le ferite erano gravi. Ci accordammo che lui sarebbe salito con Pin in modo da tenerlo, mentre io avrei cavalcato da sola perché ero più stanca. Non mi lamentai.
Ed eccomi qui con un nuovo capitolo! Non so perché, ma mi piace particolarmente, mi sono divertita a scriverlo🌼
Scusate se sono stata inattiva per un po' 🥺
Siccome i simboli delle contee per iniziare i capitoli sono terminati, dal prossimo capitolo metterò immagini inerenti alla storia o a personaggi secondari. Ad esempio, vorrei presentarvi Marzapane, il cavallo di Hora. Spero vi piaccia l'idea!🦄
Grazie a tutti per il sostegno, buona lettura🦋
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